La pittura racconta Verdi e Wagner
L’arte pittorica tra il patriottismo di Verdi e il simbolismo di Wagner

Se pronunciassi i nomi di Giuseppe Verdi e Richard Wagner, tutti penseremmo probabilmente alla musica; questo è certamente vero, sono stati grandissimi compositori, e la loro grandezza è nota, anche se solo per sentito dire, anche a chi magari nell’ascolto non va più in là di Vasco Rossi. Ma quasi nessuno penserebbe di «leggere» questi due compositori attraverso una forma d’arte che, a prima vista, sembrerebbe essere del tutto aliena dal mondo musicale: la pittura!

C’è sempre una stretta connessione fra le arti figurative, la letteratura e la musica, di cui purtroppo è difficile rendersene conto anche perché la scuola (che forma la maggior parte delle nostre idee e della nostra cultura) ha smistato questi saperi in varie materie (arte, italiano, musica…) invece di sintetizzarle in un insegnamento unico: potremmo definirla la tecnica dei «compartimenti stagni». Cercheremo dunque, in questo articolo, di aprire questi «compartimenti» e scoprire come la pittura e la musica si siano influenzate vicendevolmente.

Verdi e Wagner hanno condizionato le arti figurative di diversi artisti in Europa. Entrambi si rifanno a soggetti presi dalla letteratura medievale, che suggerisce ideali di ribellione nei confronti dello straniero (Italia e Germania portano a termine la loro unificazione politica praticamente negli stessi anni). Ma sviluppano questi soggetti in modo diverso, anzi, potremmo dire opposto.

In Italia si è imposta quella che viene definita tendenza «storica»: essa si basa su uno studio analitico delle fonti per una rappresentazione realistica, che sia il più fedele possibile alla realtà storica nell’ambientazione, nei costumi e via dicendo; è una tendenza che propone un forte impegno morale e civile, con una rappresentazione e manifestazione verosimile ma anche eclatante dei sentimenti per coinvolgere lo spettatore e sollecitarlo a riflessioni di natura morale, dove l’aspetto contenutistico è fondamentale per la comprensione del messaggio. In Germania si è affermata, al contrario, la tendenza «astorica», caratterizzata da una maggiore apertura alla fantasia, ai miti, alle leggende.

Possiamo analizzare un primo quadro, che non parla né di Verdi né di Wagner ma è comunque interessante: si tratta di Italia e Germania di F. Overbeck, 1811-1828, esposto alla Bayerische Galerie di Monaco. Il pittore vuole con questa opera rappresentare l’idea di Patria e Nazione: Italia e Germania sono raffigurate nei panni di due giovani donne, due amiche dai tratti delicati e dallo sguardo dolce, che si tengono per mano. Italia, con i capelli scuri raccolti sulla nuca e una coroncina d’ulivo che le orna le tempie, ricorda le figure femminili di Raffaello, mentre Germania, con i capelli biondi che scendono in trecce e una corona di foglie di quercia sul capo, evoca le figure femminili di Durer, pittore del Rinascimento Tedesco; i paesaggi sullo sfondo richiamano vedute dei due Paesi: dietro Italia si nota una chiesa romanica, mentre dietro Germania campeggia un borgo cittadino con una cattedrale e un campanile in stile gotico nordico. Overbeck opera una riscoperta delle caratteristiche stilistiche del linguaggio rinascimentale.

Italia e Germania

F. Overbeck, Italia e Germania, 1811-1828, Bayerische Galerie, Monaco (Germania)

Ma passiamo a Verdi. Abbiamo due suoi ritratti ad opera di Giovanni Boldini, che aveva conosciuto il compositore a Parigi nel 1882, grazie ad un intermediario. Entrambi i dipinti sono del 1886. Il primo ritratto, conservato alla Fondazione Verdi di Milano, ritrae il compositore seduto su una sedia, reso con pennellate rapide e veloci, ma anche con una forte componente classica. Non è stato facile realizzarlo: Boldini lamenta che la moglie petulante di Verdi e l’impertinente Muzio (un giovane che gli fa da segretario, da cuoca, da lavandaia e da infermiere) continuano a far chiacchierare il «modello». Pochi mesi dopo realizza un altro ritratto, a pastello, Giuseppe Verdi in cilindro, che è poi quello più famoso e che viene completato in sole cinque ore. Verdi non ne è proprio entusiasta: scrivendo a Ricordi, commenta che «per quanto sia grande la rassomiglianza e il merito del lavoro, mi pare sia uno scherzo più che un ritratto serio». In realtà, il quadro (la cui tecnica e stile richiamano uno schizzo) è notevole: l’espressione del compositore è concentrata e attenta, lo sguardo molto deciso degli occhi intensi sembra scrutarci; la composizione, molto ordinata, è basata su una tipologia classica che evidenzia l’autorevolezza e la grandezza del personaggio. L’opera si trova alla Galleria d’Arte Moderna a Roma.

Giuseppe Verdi in cilindro

Giovanni Boldini, Giuseppe Verdi in cilindro, 1886, Galleria d’arte Moderna, Roma (Italia)

Vediamo ora tre opere di F. Hayez.

La prima, I Lombardi alla Prima Crociata, è tratta dall’omonimo poemetto di Tommaso Grossi (1826). È stata dipinta tra il 1827 e il 1829 ed è quindi anteriore all’opera verdiana, che è del 1843. Al centro campeggia la figura di Pietro l’Eremita, che sprona il popolo a seguirlo per la Crociata: il volto è scarno e pallido, ma autorevole per la passione con cui chiama la gente a lui. Si tratta di una scena drammatica, nobili soldati e popolani – disposti in modo «teatrale» – sono combattuti fra opposti sentimenti (la voglia di combattere per la Fede e l’attaccamento alla propria terra). C’è una ricostruzione storica molto accurata del luogo e dei costumi: le tinte limpide e fredde ed i colori sono ripresi dalla pittura veneta di Giorgione e Tiziano, mentre il rigore compositivo si rifà alla pittura neoclassica. L’opera è conservata a Milano, in una collezione privata.

I Lombardi alla Prima Crociata

F. Hayez, I Lombardi alla Prima Crociata, 1827-1829, Collezione privata, Milano (Italia)

La seconda è L’ultimo abboccamento di Jacopo Foscari (più nota come I due Foscari), tratta da un poemetto di Byron, realizzata dal 1838 al 1840 (l’opera verdiana è del 1844); successivamente, nel 1852, ne verrà eseguita una nuova versione. La scena del Doge che deve mandare in esilio il proprio figlio è ambientata al primo piano di Palazzo Ducale, in una Venezia che rievoca il Quattrocento, periodo a cui risale l’episodio: tutto – l’ambiente, i personaggi, lo sfondo appena velato – sono definiti in modo accuratissimo, tanto che sembra di vedere una fotografia, e non un quadro. La figura del Doge spicca in tutta la sua autorità, dinanzi al figlio inginocchiato in posizione supplicante: entrambi aprono le braccia, il figlio – isolato, lontano anche dalla moglie e dai propri figli – per chiedere grazia, il padre quasi per allontanarlo ancora di più da sé, per impedirgli di avvicinarsi. Tutto fa riferimento alla grande pittura veneta del Cinquecento. L’opera è parte della Collezione Fondazione Cariplo di Milano.

I due Foscari

F. Hayez, L’ultimo abboccamento di Jacopo Foscari, 1838-1840, Collezione Fondazione Cariplo, Milano (Italia)

La terza opera che prendiamo in esame è I vespri siciliani, desunta dalla Storia delle Repubbliche Italiane nel Medioevo di J. Sismondi (1807-1808). È stata eseguita nel 1845-1846 (una precedente versione è del 1821-1822), ed è anch’essa anteriore all’omonima opera di Verdi che è del 1855. Si rifà all’insurrezione palermitana che nel 1282 provocò la cacciata dei Francesi dalla Sicilia e il passaggio dell’isola sotto gli Aragonesi. I dettagli rendono riconoscibile il luogo: sulla sinistra spicca la chiesa di Santo Spirito, mentre al centro è accasciato il soldato francese che ha tentato di perquisire una donna del popolo, provocando la reazione del marito che lo ha colpito a morte – lo si riconosce anche dal giglio ricamato sul suo abito. Le figure sono disegnate con fermezza e precisione, con un’emozione corale che ci ispira una partecipazione emotiva ad una tragedia. L’opera è conservata alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.

I vespri siciliani

F. Hayez, I vespri siciliani, 1845-1846, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma (Italia)

In conclusione, i caratteri della tendenza storica, nel suo incontro con il melodramma, sono il fatto storico ricostruito in maniera fedele e non descritto in modo documentario, la cura del dettaglio, l’artificiosità che richiama scene teatrali, lo stato d’animo dei protagonisti caricato retoricamente, i toni sentimentali commossi (i sentimenti diventano i veri protagonisti del quadro), l’enfasi patetica dei volti e delle pose, l’emozione corale. Sono tutte caratteristiche che si ritrovano nella musica: pensiamo ai cori del Nabucco e dei Lombardi alla Prima Crociata, e vi ritroviamo la stessa descrizione dettagliatissima della terra lontana, una metrica ben precisa, un ritmo potremmo dire da «filastrocca» (già scandito nel libretto operistico), un tempo ternario che evoca un movimento di danza.

Passiamo ora alla tendenza astorica, tipica – lo abbiamo precisato più sopra – della Germania: essa si caratterizza nell’interesse per la mitologia nordica, poiché nelle saghe e nelle leggende si crede di ritrovare l’autentico spirito originario della Nazione; elemento dominante è la magia (da intendersi come un’atmosfera suggestiva), mentre componenti di spicco sono nani, giganti ed eroi.

Di Wagner, il più grande interprete musicale di questa tendenza (oltre che uno dei massimi compositori di tutti i tempi, al pari di Verdi), abbiamo un ritratto fattogli da A. Renoir, un pittore impressionista e suo grande ammiratore. Il quadro (oggi esposto al Museo d’Orsay a Parigi) è stato dipinto nel 1882 a Palermo, subito dopo che Wagner aveva completato il Parsifal, e si caratterizza per la rapidità del tocco (per farlo sono bastati trentacinque minuti). Il compositore, allegro ma nervosissimo, dagli occhi piccoli e quasi severi, esibisce un sorriso compiaciuto; il volto campeggia immobile al centro della tela, mentre tutto intorno c’è come un vorticare impetuoso del colore.

Ritratto di Wagner

A. Renoir, Ritratto di Richard Wagner, 1882, Museo d’Orsay, Parigi (Francia)

Il wagnerismo fu un’autentica moda culturale, che godette di una diffusione vasta e penetrante. Nel campo delle arti visive, fu una delle manifestazioni più tipiche del gusto estetico a cavallo tra XIX e XX secolo, fra tardo-naturalismo, Simbolismo e Liberty. I soggetti wagneriani oggetto della pittura evocano il linguaggio suggestivo e sfuggente della sua musica: basti pensare a L’oro del Reno di H. Makart, con un sapiente gioco di luci dorate ed ombre, al Parsifal (1890) di Jean Delville, con un linguaggio molto vicino al Simbolismo che suggestiona e fa pensare, o al Tannhäuser o all’Evocazione di Kundry di H. Fantin Latour, pittore e illustratore legato al Simbolismo, dove le scene sono viste in modo suffuso, evanescente, come attraverso un velo.

Tannhäuser

H. Fantin Latour, Scene dal Tannhäuser, 1864

Ma forse il migliore rappresentante del wagnerismo in pittura è un artista semi-sconosciuto anche fra i cultori della materia, cioè Mariano Fortuny Madraso (1871-1949), uno Spagnolo ma Italiano d’adozione: figlio d’arte, si forma a Parigi ma nel 1889 si stabilisce a Venezia. Appassionato della musica di Wagner (per lui un modello di poetica, estetica di suggestione musicalista), la sua pittura è densa di innumerevoli suggestioni: nel quadro Wotan colpisce la roccia luci e colori ricordano la pittura romantica tedesca, in Le fanciulle fiore (1896, Museo Fortuny a Venezia) abbiamo delle decorazioni floreali che evocano quelle di Klimt, mentre le forme tormentate di L’abbraccio di Siegmund e Sieglinde (1928, Palazzo Fortuny a Venezia) e i colori freddi si avvicinano al Romanticismo inglese. Né si limita alla pittura: dotato di un talento multiforme e di un’abilità smisurata, si occupa anche di scultura, di luminotecnica (l’esempio di Wagner e di Bayreuth lo indirizzerà verso la sperimentazione nel campo teatrale che lo porterà all’invenzione della «cupola fortuny», che permette la diffusione della luce in sostituzione della luce diretta fin allora in uso); sarà costumista e creatore di moda, inventerà abiti prendendo spunto dalle vesti greche. Se Wagner ha inventato l’«opera d’arte totale», potremmo dire che Fortuny è stato proprio un… «artista totale»!

L’abbraccio di Siegmund e Sieglinde

Mariano Fortuny Madraso, L’abbraccio di Siegmund e Sieglinde, 1928, Palazzo Fortuny, Venezia (Italia)
(dicembre 2013)

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