Le campagne del 1849 in Italia
L’ultima fase della Prima Guerra d’Indipendenza segna la disfatta del Piemonte e la repressione austriaca in gran parte della Penisola

Il 1849 è un anno segnato da grandi speranze ed altrettanto grandi delusioni. Dopo sette mesi di tregua, la rivoluzione d’Ungheria e la tenace difesa di Venezia contro gli Austriaci inducono il Re Carlo Alberto a disdire l’armistizio di Salasco per il 12 marzo 1849. Lo desiderano il Parlamento e l’opinione pubblica italiani, ma anche le truppe austriache, desiderose di chiudere una volta per tutte la partita col Piemonte.

L’esercito è stato aumentato nei suoi contingenti (75.000 uomini, al pari di quello austriaco), ma a scapito della qualità: vecchi e scadenti gli ufficiali, mancanti e troppo anziani i graduati; oltretutto, sulla disciplina delle truppe influisce in modo deleterio la cattiva propaganda dei partiti estremisti. Peggio di tutto, il comando dell’esercito viene affidato non al Re – ritenuto non adatto al comando supremo –, ma al Generale Polacco Adalberto Chrzanowsky, che ha fama di essere un abile condottiero ma è stato scelto più che altro per un senso di simpatia verso l’infelice Polonia: un uomo piccolo, brutto, freddo ed impacciato, ignaro dei costumi, del territorio e perfino della lingua italiana.

Adalberto Chrzanowski

Il Generale Polacco Adalberto Chrzanowski, XIX secolo

Il piano dello Chrzanowsky è quello di passare il Ticino al Nord, per marciare su Milano e prendere così alle spalle l’esercito austriaco; mentre al Generale Ramorino è affidato il compito di difendere il passo del Ticino a Pavia e tenere a bada gli Austriaci: si compie così lo stesso errore che ha provocato la sconfitta piemontese dell’anno precedente, frazionando le forze in cinque masse separate e senza possibilità di reciproco appoggio.

Tratto in inganno dalla notizia che gli Austriaci stanno passando il Po a Piacenza, Ramorino abbandona le proprie posizioni senza avvertire il Comando Supremo per parare la presunta nuova minaccia (sarà in seguito fucilato): così, mentre lo Chrzanowsky il 20 marzo passa il Ticino presso Boffalora, il Radetzky, che ha un esercito disciplinato, con buoni ufficiali, e con una fiducia quasi illimitata in lui, può passare indisturbato il Ticino a Pavia, invadendo il Piemonte.

L’esercito piemontese è allora costretto a ripassare il Ticino per cercare di arrestare l’invasore tra il Ticino e la Sesia. Sconfigge il nemico alla Sforzesca e poi va a cacciarsi nel tranello di Novara, tagliato fuori dalla base dell’esercito, dove la vittoria può non dare buoni frutti, ma la sconfitta sarebbe certamente disastrosa. Il 22 marzo, gli Austriaci vanno all’assalto della posizione che domina la città, la Bicocca, e rimangono inchiodati sul terreno, col vuoto alle spalle; scrive il Generale Schönals che «la spossatezza delle nostre truppe era giunta al colmo: anche ai più coraggiosi cadevano le armi di mano. Se il nemico, già vittorioso, avesse rinnovato l’attacco, avremmo dovuto cedere». Ma Chrzanowsky è l’uomo del dubbio e della riflessione, e tutta la campagna è caratterizzata dalla sua inazione. Il giorno dopo, una giornata fredda, nebbiosa e triste, giunge il Radetzky con truppe fresche: i Piemontesi, attaccati da un nemico superiore di numero e di armamento, dopo aver respinto varie volte gli Austriaci sono costretti alla difensiva; la Bicocca viene perduta e ripresa più volte. Numerosi sono gli episodi di valore: il Generale Passalacqua muore in un assalto alla baionetta, il Generale Perrone si fa portare morente davanti al Re per salutarlo; il Duca di Genova deve cambiare due volte cavallo perché gliel’hanno ucciso. Verso sera, dopo ore ed ore di furiosi combattimenti, gli Austriaci riescono ad avere partita vinta. I Piemontesi, che hanno subito gravissime perdite (578 morti e quasi 2.000 tra feriti, prigionieri e dispersi), si rinserrano nell’interno della città; la notte è spaventosa, per le strade la confusione, il disordine e le violenze sono terrificanti. Al mattino, dell’esercito piemontese non esistono che nuclei sparsi in ritirata per le strade di Arona, Borgomanero e Romagnano. È la sconfitta ed è anche la fine della guerra, durata appena quattro giorni.

Combattimenti tra Austriaci e Piemontesi a Novara

Combattimenti tra Cacciatori austriaci e soldati piemontesi del 14º reggimento Pinerolo alla Bicocca durante la battaglia di Novara, XIX secolo

Carlo Alberto ha cercato invano la morte sul campo di battaglia; il Generale Durando racconta che più volte ha dovuto prendere il Re per un braccio e trascinarlo via, ma annota che il suo coraggio era solo rassegnazione: «Mai uno slancio, da parte sua, mai una parola d’incitamento ai soldati, niente insomma di ciò che trascina e sostiene nel momento del pericolo». Il Sovrano domanda a Radetzky un armistizio; ma, ottenendo condizioni troppo gravose, abdica in favore del figlio Vittorio Emanuele II, e la notte stessa parte in volontario esilio per Oporto (Portogallo), con un pastrano da viaggio buttato sulle spalle e seguito da un cameriere senza livrea; ad Oporto morirà qualche mese dopo.

Il giorno seguente il nuovo Re, agitato e con la barba lunga, s’incontra nel cortile di un cascinale a Vignale, presso Novara, col Radetzky; le condizioni di pace rimangono estremamente dure, specie dal punto di vista finanziario (75 milioni di indennità di guerra), anche se non comportano sacrifici territoriali. Questo perché Vittorio Emanuele ha fatto intendere che condizioni troppo gravose getterebbero il discredito sulla Monarchia e lascerebbero libero campo alle forze rivoluzionarie. «Questi motivi» scrive Radetzky al suo Governo «sono tanto veri che io non potei metterli in dubbio, perciò cedetti e credo di aver fatto bene, perché senza la fiducia del nuovo Re e la tutela della sua dignità, nessuna situazione nel Piemonte può offrirci garanzia di tranquillità per il prossimo avvenire». Vedendolo allontanarsi dopo il colloquio, sospira: «Povero ragazzo!».

Incontro di Vignale fra Radetzky e Vittorio Emanuele II

Vittorio Emanuele Bressanin, affresco del Museo della Torre di San Martino della Battaglia che rappresenta l'incontro di Vignale fra Radetzky e Vittorio

Emanuele II, 1891-1893

La disfatta di Novara ha mostrato ormai che il piccolo Piemonte, da solo, non può pensare di battere l’Austria; ma ha tragiche conseguenze anche per tutte quelle città italiane che si sono ribellate agli Austriaci o ai loro vecchi governanti.


Brescia, la «Leonessa d’Italia»

Il messaggio del 12 marzo 1849 col quale Carlo Alberto disdice l’armistizio firmato nell’agosto dell’anno precedente, nunzio di una nuova guerra, costringe l’Austria a ritirare in fretta e furia buona parte delle sue truppe, dislocate nelle città lombarde, per schiararle contro l’esercito sabaudo; da Brescia vien fatta evacuare tutta la guarnigione austriaca, tranne 500 soldati che si stanziano nel «Castello», la parte alta della città.

La notizia dell’imminente ripresa della guerra convince i Bresciani che è giunto il momento di agire. In lunghe colonne percorrono le vie cittadine al grido di: «Morte agli Austriaci!». I più arditi si danno a distruggere tutte le insegne asburgiche. È chiaro che il popolo è ormai deciso a lottare per liberare la città dall’oppressione straniera. È il 23 marzo dell’anno 1849!

Venuto a conoscenza dell’insurrezione popolare, il comandante del presidio austriaco dà inizio al bombardamento della città. Per due giorni, e cioè per tutto il 24 e il 25 marzo, i cannoni del Castello continuano a tuonare. I Bresciani tengono duro, sostenuti dal pensiero che le truppe di Carlo Alberto, già entrate in Lombardia, possano giungere in loro aiuto da un momento all’altro. Ma nella notte del 25 marzo giunge la notizia dell’infausta giornata di Novara e del ritorno della Lombardia sotto il tallone austriaco. Anche Brescia dovrebbe quindi aprire le porta alle truppe nemiche; ma i Bresciani non vogliono darsi per vinti e si preparano a difendere ad oltranza la loro città: animatore della resistenza è Tito Speri, un giovane mazziniano che ha combattuto come volontario nella campagna dell’anno precedente. Il primo scontro con le schiere austriache avviene a Sant’Eufemia, una grossa borgata poco lontana da Brescia; dopo un giorno di accanito combattimento, gli Austriaci sono costretti a segnare il passo. In città intanto ci si prepara alla difesa: sono innalzate barricate e vengono murate le porte cittadine.

Il 26, il 27 ed il 28 marzo sono altre giornate di durissimi combattimenti, durante i quali i Bresciani compiono veri e propri atti di valore; appostati sulla Torre del Popolo, alcuni coraggiosi riescono a tenere a bada a colpi di fucile gli Austriaci asserragliati nel Castello.

Decisi a spuntarla, questi chiedono rinforzi: il 30 marzo giunge un battaglione al comando del Generale Haynau. Il mattino dopo, questi invia a Brescia due soldati con un messaggio: chiede ai cittadini la resa entro mezzogiorno, pena il subire «l’assalto, il saccheggio, la devastazione e l’estrema rovina». Per niente spaventati dalle minacce, i Bresciani stabiliscono di continuare la lotta.

Per tutta la giornata la popolazione sostiene i ripetuti, violenti attacchi del nemico che tenta a tutti i costi d’irrompere nella città. Visto inutile ogni tentativo, si decide di ricorrere ai metodi più duri, indegni dell’uomo: «Feci aprire un terribile bombardamento sulla città» racconta Haynau. «Comandai che non si facessero prigionieri e fossero immediatamente trucidati tutti coloro che venissero colti con le armi alla mano, e fossero incendiate tutte le case da cui venisse sparato». Per questi eccidi il Generale ebbe l’appellativo di «iena di Brescia».

Rivolta di Brescia

Rivolta di Brescia, litografia del 1851, Torino (Italia)

Sempre decisi a non cedere, i Bresciani continuano a lottare; ma se lo spirito della popolazione è alto, i mezzi per continuare la battaglia cominciano a scarseggiare. Ai primi di aprile, dopo 10 giorni di resistenza, la mancanza di viveri e munizioni costringe i difensori a cedere. Una volta entrato in città, Haynau mantiene fede alle sue minacce. In totale, negli scontri e nella successiva, violentissima repressione perdono la vita 600 civili bresciani (dei quali solo 250 sono combattenti) e 500 soldati austriaci.

Per tale accanita, eroica resistenza, la città di Brescia si è meritata dal Carducci il titolo significativo e glorioso di «Leonessa d’Italia».


La Repubblica Romana

A Roma, la decisione del Papa Pio IX, durante la fase iniziale della Prima Guerra d’Indipendenza, di ritirare le sue truppe dal conflitto (motivata dal fatto che la direzione degli eventi è passata in mano ad elementi fortemente anticlericali), suscita lo sdegno dei patrioti. Così, quando le truppe piemontesi, rimaste sole nella lotta, sono sopraffatte dall’esercito austriaco sulle colline di Custoza (23 luglio 1848), i patrioti romani inscenano dimostrazioni di piazza per far intendere al Pontefice di ritenerlo uno dei responsabili della sconfitta. Per far fronte alle continue sommosse popolari, Pio IX affida il governo ad un uomo energico, l’insigne economista Pellegrino Rossi. Ma i disordini non cessano e il 15 novembre 1848, mentre sta recandosi in Parlamento, Pellegrino Rossi viene pugnalato a morte. Costernato per l’assassinio del suo Primo Ministro e convinto di non poter più far fronte alla grave situazione, il Pontefice decide di abbandonare Roma: la notte del 24 novembre lascia di nascosto la città per rifugiarsi a Gaeta, ospite del Re Ferdinando II di Napoli. Del vuoto di potere approfittano i repubblicani per convocare un’Assemblea costituente che dichiara «decaduto di fatto e di diritto» il Governo Papale ed instaura «la democrazia pura col glorioso nome di Repubblica Romana». È il 9 febbraio 1849! A capo della nuova Repubblica viene posto un Triumvirato composto da Giuseppe Mazzini, dal giurista Carlo Armellini e dal giovane letterato Aurelio Saffi.

La prima preoccupazione dei Triumviri è quella di dotare la Repubblica Romana di un esercito ben agguerrito, in previsione della richiesta d’aiuto che Pio IX rivolgerebbe sicuramente a qualche potente Nazione per riuscire a rientrare in possesso dei propri domini.

Infatti, il Pontefice riesce ad ottenere aiuti militari dal Regno di Napoli, dall’Austria, dalla Spagna e dalla Francia, dove Luigi Napoleone, Presidente della nuova Repubblica Francese, mira a guadagnarsi le simpatie dei Cattolici transalpini. L’attacco contro la Repubblica Romana viene deciso verso la fine di aprile: gli Austriaci invadono la Romagna e le Marche, gli Spagnoli penetrano nelle Paludi Pontine e le truppe di Ferdinando II si mettono in marcia alla volta di Roma, mentre a Civitavecchia sbarcano 10.000 Francesi con 22 cannoni (da campagna e da assedio) al comando del Generale Oudinot.

Sebbene enormemente inferiori di numero, i soldati della Repubblica Romana si preparano a far fronte agli attacchi degli avversari; giungono a Roma centinaia di patrioti che hanno partecipato alla Prima Guerra per l’Indipendenza.

Il primo ad accorrere per porsi al servizio della Repubblica è Giuseppe Garibaldi con una legione di volontari. Ce lo possiamo immaginare già sveglio alle luci dell’alba mentre, seduto a cavalcioni su un terrazzino di Villa Corsini, sorseggia lentamente il primo caffè della giornata, sfidando le fucilate dei Francesi. Nato a Nizza da una modesta famiglia nel 1807, ha cominciato a navigare a 15 anni come marinaio, dopo aver compiuto studi molto irregolari. Non è un uomo colto ma in compenso è leale, coraggioso, aperto. A 26 anni si è incontrato a Marsiglia con Mazzini e si è iscritto alla «Giovine Italia» con lo pseudonimo di Giovanni Borel. L’incontro fra i due non è stato cordiale: Mazzini è un intellettuale, Garibaldi un uomo pratico; tra loro non correrà mai buon sangue, e sotto sotto si detesteranno a vicenda. Anche all’assedio di Roma sorgono ripicche e antipatie.

Fallita la sollevazione di Genova del 4 febbraio 1834, Garibaldi si è rifugiato a Marsiglia, dove ha appreso di essere stato condannato a morte in contumacia. Ha dovuto interrompere la collaborazione con Mazzini ed emigrare in Sudamerica: nel settembre 1836 ha combattuto per il Rio Grande che ha lottato invano per l’indipendenza dall’Impero Brasiliano; ha avuto invece successo la guerra dell’Uruguay contro l’Argentina, nel 1842, nel corso della quale Garibaldi e gli Italiani ai suoi ordini si sono coperti di valore. Si è sposato con Anita Ribeira, una donna che gli ha dato quattro figli. Per aver combattuto in America e in Europa, Garibaldi viene detto l’«eroe dei due mondi». È un Generale tutto speciale: veste in modo sgargiante, con strani barracani, e i suoi soldati non sono da meno; ha anche fama di essere la persona meno interessata al denaro. Ha sempre fatto vita semplice: sveglia all’alba, molto lavoro, pranzi sobri; gli basta una minestra, un po’ di formaggio e un buon caffè; è affezionato ai sigari e gli piace tenerne sempre in bocca uno, anche spento.

Offerti inutilmente i suoi servizi a Carlo Alberto, Garibaldi ha comandato un gruppo di volontari lombardi che hanno vinto a Luino e a Morazzone. È corso poi alla difesa della Repubblica Romana: il 30 aprile disperde davanti al Gianicolo le truppe francesi, costringendo l’Oudinot a chiedere l’armistizio, ed alcuni giorni dopo sconfigge duramente l’esercito di Ferdinando II a Palestrina e a Velletri.

Dopo la richiesta d’armistizio, il Governo Francese invia a Roma l’ambasciatore Lesseps, formalmente con l’incarico di giungere ad un accordo con i Triumviri della Repubblica, ma in realtà per guadagnare tempo per inviare rinforzi al Generale Oudinot. Infatti, non appena i rinforzi sono inviati, portando l’esercito dell’Oudinot a 30.000 unità, la Francia richiama in patria l’ambasciatore e denuncia la fine dell’armistizio per il 4 giugno.

L’Oudinot, per prendere di sorpresa i difensori di Roma, sferra l’attacco all’alba del giorno precedente lo scadere dell’armistizio sul Gianicolo. La lotta divampa subito estremamente accanita: asserragliati a Porta San Pancrazio, ai Quattroventi, nelle ville situate alla periferia della città trasformate in fortilizi (Ville Corsini, Spada, Vascello, Pamphily, Valentini), i soldati della Repubblica oppongono una strenua, disperata resistenza. Per 30 giorni riescono a far fronte ai violentissimi, ripetuti attacchi delle truppe transalpine. Ma il 3 luglio, con varie brecce aperte, cadute la cerchia aureliana, Porta San Pancrazio e San Pietro in Montorio, ridotti i difensori ormai ad un piccolo numero, i Romani sono costretti ad aprire le porte della Città Eterna ai Francesi, che fanno il loro ingresso accolti da un silenzio sepolcrale: la Repubblica Romana è durata esattamente cinque mesi e la sua difesa è costata la vita a centinaia di patrioti, tra i quali il poeta Goffredo Mameli (autore del Canto degli Italiani, ora inno ufficiale della Repubblica Italiana), Giacomo Medici (difendore del Vascello), Enrico Dandolo e Luciano Manara, due eroi delle Cinque Giornate di Milano!

Il 5 luglio 1849, Giuseppe Mazzini indirizza ai cittadini romani un proclama le cui parole sono di sconforto, ma nello stesso tempo di grande speranza: «ROMANI! La forza brutale ha sottomesso la vostra città, ma non ha mutato i vostri diritti. La Repubblica Romana vive eterna, inviolabile, nel suffragio dei liberi che la proclamarono, […] nel sangue dei martiri che caddero sotto le nostre mura per essa. […] I vostri Padri, o Romani, furono grandi non tanto perché sapevano vincere, quanto perché non disperavano nei rovesci. […] Siate grandi come i vostri Padri. I vostri Triumviri, sospesa per forza di cose la loro pubblica azione, vegliano a scegliere il momento opportuno per riconvocarla». Alla speranza di Mazzini di poter ricostituire la Repubblica Romana, si somma e si sostituisce il suo più grande desiderio: quello di fare dell’Italia una Nazione unita e repubblicana!

Giuseppe Mazzini è costretto a riprendere dolorosamente la via dell’esilio, mentre Giuseppe Garibaldi, con la moglie Anita ed un migliaio di volontari ai quali promette «fame, sete, marce forzate e morte», lascia Roma il giorno precedente la resa per accorrere in aiuto di Venezia, che ancora resiste contro gli Austriaci. La sua ritirata è entrata nella leggenda: inseguito da ben quattro eserciti (francese, napoletano, spagnolo ed austriaco), ripara a San Marino, dove scioglie la sua legione; poi con soli 200 compagni si imbarca a Cesenatico per Venezia, ma sorpreso dalla flotta austriaca è costretto a rifugiarsi nella pineta di Ravenna, dove Anita – sopraffatta dagli stenti – gli muore tra le braccia. Nuovamente beffati gli Austriaci, attraversa l’Appennino raggiungendo prima la Toscana e poi la Liguria, dove il Governo Piemontese, considerandolo un soggetto «pericoloso all’ordine pubblico», gli intima di recarsi all’estero. Garibaldi si imbarca così nuovamente per l’America, mentre alcuni suoi compagni, tra cui il barnabita Ugo Bassi e Ciceruacchio coi suoi due figli, cadono in potere degli Austriaci e vengono fucilati.


La disperata resistenza di Venezia

Quando a Venezia giunge la notizia del disastro di Novara, Daniele Manin, Presidente della Repubblica, convoca immediatamente l’Assemblea. Dopo aver precisato che la situazione è ormai disperata, perché gli Austriaci hanno già conquistato Mestre e stanno avviando la loro flotta e grandi contingenti di artiglieria verso la città lagunare, rivolge ai rappresentanti della Repubblica la domanda fatale: «L’Assemblea vuole resistere al nemico?». A queste parole, i membri dell’Assemblea si alzano in piedi di scatto e tutti insieme esclamano: «Sì, resisteremo ad ogni costo!».

Subito dopo viene redatto il seguente decreto: «Venezia resisterà all’Austriaco ad ogni costo. Il Presidente Manin è investito di poteri illimitati». La deliberazione è pubblicata immediatamente per essere portata a conoscenza della popolazione. Nello stesso tempo ne viene mandata una copia al Generale Haynau che, dopo aver represso con furia selvaggia la rivolta di Brescia, si prepara a dirigere l’assedio di Venezia.

Il fiore dei patrioti italiani accorre a portare il suo aiuto nell’ora estrema: Alessandro Poerio, poeta e soldato, Pier Fortunato Calvi, l’eroico difensore del Cadore, il Sirtori, il Cosenz, Mezzacapo, Ullòa, Guglielmo Pepe, a cui viene affidato il comando della piazza, Cesare Rossaroll, che ottiene il comando dell’artiglieria, e molti altri.

Il blocco della città è iniziato già nel giungo del 1848. Il 25 aprile 1849 gli Austriaci attaccano da terra la fortezza di Marghera, l’unica difesa della città lagunare dalla parte della terraferma, presidiata da 2.000 uomini di fanteria e 131 bocche da fuoco: 20 giorni di accanito bombardamento riducono la cittadella ad un cumulo di macerie. Nella notte dal 26 al 27 maggio gli eroici difensori di Marghera sono costretti ad abbandonare le loro posizioni: si ritirano sul ponte ferroviario che unisce la città alla terraferma e su questo ponte, trasformato in fortezza, respingono per mesi tutti gli assalti degli Austriaci.

Nonostante questo, la situazione si fa di giorno in giorno più grave: alla mezzanotte del 29 luglio, si inizia il bombardamento della perla dell’Adriatico con batterie di grossi mortai e di cannoni. Nei giorni seguenti il violento cannoneggiamento frantuma o incendia gli edifici, costringendo i cittadini a cercare scampo sotto i ponti ed in luoghi remoti.

La chiesa di San Geremia a Venezia colpita dagli austriaci

Luigi Querena, La chiesa di San Geremia a Venezia colpita dal bombardamento austriaco del 1849, circa 1850

Venezia non può rifornirsi né di viveri né di munizioni perché Haynau ha fatto bloccare la laguna con la sua flotta e tutto il Veneto è ormai caduto nelle mani degli imperiali. Ad aggravare l’assedio a cui è sottoposta, per terra e per mare, la città, scoppia improvvisamente una terribile pestilenza: il colera.

Nel mese di luglio, gli Austriaci decidono di dare inizio ad un attacco in grande stile, e per tre settimane sottopongono Venezia ad un tremendo bombardamento. Ma la popolazione non cede: si è sparsa la voce che Garibaldi con i suoi volontari stia per giungere in aiuto della città, e inoltre Manin promette che la flotta veneta sia in procinto di affrontare quella austriaca per cercare di rompere il blocco. Ma a metà agosto si palesa la verità: Garibaldi non giungerà mai, e la flotta della Repubblica – le cui ciurme sono indisciplinate ed i capi indolenti – non tenta nemmeno di affrontare quella nemica. I viveri e le munizioni diventano sempre più scarsi, mentre il colera infuria con maggior violenza. In tali condizioni, ogni resistenza appare ormai inutile.

Il 23 agosto, dopo più di cinque mesi di eroica lotta, Venezia si vede costretta alla resa. La libera Repubblica di San Marco ritorna sotto il dominio tirannico dell’Austria; Daniele Manin e gli altri animatori della resistenza prendono la via dell’esilio.

Anche negli altri stati della Penisola il fallimento dei moti del 1848 e della Prima Guerra d’Indipendenza provoca reazioni spesso spietate: nel Lombardo-Veneto si hanno i famosi processi di Mantova, che tra il 1852 e il 1855 portano alla condanna a morte di 11 patrioti, tra cui alcuni sacerdoti; a Firenze, dove il Granduca Leopoldo II è stato costretto alla fuga, bande di contadini entrano tumultuosamente in città e lo fanno ritornare; mentre nel Regno di Napoli sono gettati in carcere numerosi patrioti, come Luigi Settembrini, Carlo Poerio, Silvio Spaventa e Antonio Scialoia.

(ottobre 2017)

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