Confutiamo il diario di una spia
Giuseppe Binda, l’uomo di Murat. La vera storia dell’Unità Nazionale

Recentemente Adriano Amendola ha pubblicato un libro sulla spia murattiana Giuseppe Binda, tra Canova e Napoleone, grazie al ritrovamento di sue carte e diari, e cercando di sopperire ai buchi del personaggio attraverso una fedele ricostruzione, pur romanzata, delle vicende.

Giuseppe Binda ha molto in comune con la mia famiglia e quindi posso, grazie ai miei studi risorgimentali pubblicati in rete e a precisi «ricordi» e situazioni, meglio decifrare quanto Amendola ha già magistralmente ricostruito. Questo per rispondere all’amore reciproco tra il Re Gioacchino Murat e l’uomo Giuseppe Binda, che nel corso della sua vita portò avanti quei valori che in epoca murattiana aveva fatto propri.

Adriano Amendola ci dice che Giuseppe Binda, nato a Lucca nel 1786, venne battezzato al fonte battesimale cittadino di San Giovanni. Posso spiegare che la scelta del fonte battesimale di queste famiglie non era casuale. In San Giovanni si battezzavano «quelli di San Giovanni», come li chiamava mio padre. Ossia coloro che afferivano in città a quella tradizione musicale cittadina che affondava le sue radici nel lontano Medioevo, quando San Giovanni era stato il primo Duomo della città e insieme luogo di cavalierati e musici gregoriani. Lo stesso Giacomo Puccini, facente parte con la sua famiglia di questi gruppi familiari, venne qui battezzato. Così come un cugino di mio padre, il Cardinale Raffaele Pierotti.

Molti membri di casa Binda appartenevano ai chierici regolari lucchesi della Madre di Dio, ubicati in Santa Maria Corte Orlandini, Curtis ronaldinga, Casata longobarda che aveva dato lustro e gesta alla città ai tempi della Tuscia Longobarda e ben oltre.

La nobiltà di Binda era sicuramente di antica estrazione.

Sul matrimonio di uno dei fratelli di Giuseppe Binda avrei qualcosa da dire. Biagio Ernesto, così si chiamava quel fratello, aveva sposato Eleonora Francesconi. I Francesconi avevano legami di parentela anche con la mia famiglia. Che afferiva ai medesimi ambienti cittadini.

Lo stesso Giuseppe trascorse l’infanzia in Via San Giorgio al numero 31, a ridosso di Santa Maria Corte Orlandini. Sua madre si risposò, una volta rimasta vedova, nel 1798 con Vincenzo Lucchesini, da cui avrebbe avuto tre figli, dunque fratellastri dello stesso Giuseppe Binda. Amendola non dice molto dei Lucchesini ma credo sia necessario spendere due parole.

Legati agli ambienti d’oltralpe, soprattutto Cesare Lucchesini, che in città e non solo era un’istituzione. Cesare Lucchesini morì nel 1832 e io lo conosco bene perché fu mentore e protettore del personaggio della mia tesi di laurea, Padre Gioacchino Prosperi. Cesare Lucchesini era legato in Piemonte all’Abate Peyron, che non disdiceva gli ambienti ultramontani. E soprattutto frequentò sempre la Corte Berlinese. Ossia quegli ambienti riformati che tanto cari furono anche al suo Duca Carlo Ludovico di Borbone Parma, una volta insediatosi sul trono lucchese nel 1824, dopo la caduta napoleonica e la morte di sua madre Maria Teresa.

I Lucchesini inoltre, proprio nel Settecento, avevano incorporato una proprietà in Marlia, non distante da Lucca, appartenuta alla famiglia lucchese Cavallari. Chi conosce le vicende medievali e rinascimentali sa quanto la famiglia dei banchieri Cavallari sia stata attiva in tutta Europa e con i Frescobaldi fiorentini abbia segnato le sorti delle Corone Europee, non ultima quella dei Tudor Inglesi, che tutto dovevano ai rapporti commerciali e bancari con queste Casate. La dimensione europea dei Lucchesini è fuori discussione. Giuseppe Binda stava in Europa sicuramente grazie anche al matrimonio di sua madre con questo nobile patrigno lucchese.

Adriano Amendola mette in rilievo i proficui rapporti in Lucca di Giuseppe Binda con Elisa Bonaparte, sorella del grande Napoleone, che governava il Principato di Lucca e Piombino.

«Servì Elisa Baciocchi nel 1805 a soli 19 anni, come Commesso al dipartimento di Giustizia e, dopo la laurea in legge, nel 1810, fu nominato giudice auditore nella Corte d’appello e poi sostituto procuratore imperiale presso il Tribunale di Prima Istanza di Roma, città dove visse stabilmente dal 1809 al 1814».[1]

L’autore Amendola ha trovato per caso il personaggio, così lui asserisce, e si è trovato proiettato tra i cattedratici di Pisa, i napoleonidi, lo scultore Antonio Canova, mondanità e intrighi di quegli anni.

Ringrazio l’autore per queste parole che sottoscrivo, aggiungendo che nel 2016 io avevo pubblicato in rete un articolo piuttosto corposo sul personaggio, che Amendola non cita. Probabilmente non lo ha consultato. Qui avrebbe potuto scoprire gli intrecci risorgimentali di Giuseppe Binda, che ho rinvenuto grazie proprio alla mia tesi di laurea discussa qualche anno prima su un personaggio lucchese come il nostro, ossia Padre Gioacchino Prosperi. Anche lui un nobile lucchese, anche lui vicino ai Lucchesini e agli stessi ambienti di provenienza di Giuseppe Binda. Per questo invito a leggere in rete il documento, sul sito www.storico.org.

Sottoscrivo, mi ripeto, quanto Amendola ha citato: «Nulla dopo Napoleone sarà più simile a prima. Nessuno come Binda ha cercato di aiutare l’Italia a scrollarsi di dosso il giogo che la opprimeva e facilitare quei moti di indipendenza cui in prima istanza sembrò poter dar vita l’Augusto Imperatore (Napoleone I); un sogno infranto per molti e innanzitutto per le famiglie nobili lucchesi che, in anticipo sugli altri Casati della Penisola, avevano perorato la causa».

Su tale anticipo qualche parola possiamo spenderla, già da me descritta nei documenti pubblicati in rete.

Napoleone e la sua famiglia avevano rapporti di vecchia data con Lucca. San Miniato, che era diocesi di Lucca, aveva al suo interno membri della famiglia Bonaparte, peraltro anche dei religiosi. E i chierici regolari lucchesi, cui lo stesso Binda afferiva, avevano accolto nel loro seno a fine Settecento il rivoluzionario córso Pasquale Paoli, come una lettera rinvenuta attesta.[2] L’accoglienza dei chierici, come si evince dalla lettera, era di natura politica. E Paoli in quel periodo era molto legato a Carlo Buonaparte, il padre di Napoleone, che era il suo segretario personale.

Questa breve descrizione ci permette di capire come gli ambienti lucchesi da cui proveniva Giuseppe Binda fossero molto prima dell’avvento dell’epopea napoleonica vicini ai Bonaparte. Molto altro potrei aggiungere, soprattutto su Luciano Bonaparte, ma anche su sua sorella Elisa. Invito a leggere in rete le mie carte.

Arrestato in quanto sostenitore di Gioacchino Murat e spalleggiatore nei rapporti diplomatici con il partito Whig inglese, il Lucchese Giuseppe Binda – scrive Adriano Amendola – fu esule in Gran Bretagna a partire da quel 1815, dove continuò a svolgere un ruolo culturale di primo piano in casa del famoso Lord Henry Holland (aggiungerei politico visti i miei studi pubblicati) introducendo Ugo Foscolo nell’ambiente dei letterati d’oltremanica, «come recenti studi hanno permesso di delineare».

Il riferimento ai recenti studi potrebbe riferirsi al mio articolo, peraltro citante studi del Professor Sergio Di Giacomo, del Dottor Roberto Pizzi ma soprattutto Rassegna storica del Risorgimento, anno 1916. Dunque il riferimento ai recenti studi non tiene conto dell’ormai secolare riferimento al personaggio.

Già nel 1916 Giuseppe Binda era stato ampiamente trattato, anche se non in termini patriottici come Amendola lo pone, ma come un transfuga delle vicende nazionali, che nel 1860 non collimarono con le scelte politiche del nostro.

In Rassegna storica del Risorgimento, anno 1916, troviamo molte informazioni su di lui che la storiografia successiva ha puntualmente ignorato e che ho rinvenuto anch’io casualmente, come Adriano Amendola, grazie al personaggio della mia tesi. Successivamente ai fatti ascritti Giuseppe Binda approdò a New York, negli Stati Uniti (da cittadino americano divenne Joseph Agamemnon Binda), «patria di elezione di Giuseppe grazie all’amata moglie Stephanie Beatrix Sumter (figlia del potente Generale Sumter) detta Fanny, e qui consolidò il suo status – descrive ancora Amendola –, nonché le sue radici ancora saldamente ancorate all’Italia, dove tornò per far nascere le sue figlie e successivamente come Console a Livorno, per terminare la sua esistenza terrena a Parigi dopo breve malattia».

Amendola omette tutta la parte che io ho trattato di quegli anni risorgimentali e che ne fa un eroe, denigrato e allontanato in Patria perché non in linea, appunto, con gli avvenimenti unitari del periodo ma vicino a quel Presidente Statunitense Buchanan che ne prese le difese, contro gli avvenimenti rivoluzionari del nostro Paese, non graditi sia alla nomenclatura statunitense che a parte della nomenclatura inglese. Fare buon viso a cattivo gioco non significava affatto apprezzare le gesta garibaldine.

Adriano Amendola tratta il Binda murattiano, e di lui dobbiamo qui parlare per onorare lo stesso Gioacchino Murat.[3]

Nel 1807 Giuseppe Binda si trova a Pisa dove una sua cara amica era in difficili condizioni di salute. Per l’occasione, essendo l’amica deceduta, Giuseppe Binda scrive a molti conoscenti comuni. Tra questi Carlo de’ Rosmini a Milano. Così ci ricorda Adriano Amendola. Aggiungo io: chi era costui?

Un letterato ed erudito che morirà nel 1827. Nato a Rovereto, apparteneva alla medesima famiglia di Antonio Rosmini, il religioso che nel 1848 a sua volta fu agente segreto a Roma per conto di Carlo Alberto di Savoia alla Corte di Pio IX. Le intricate vicende rosminiane della prima metà del XIX secolo, che videro protagonista il personaggio della mia tesi, Padre Gioacchino Prosperi, peraltro un acceso e genuino bonapartista, quando i Bonaparte erano mazziniani e lottavano per l’indipendenza dell’Isola Bella, ossia la Corsica, ci riportano con la mente a questa comune amicizia del 1807, in piena epoca napoleonica, tra Giuseppe Binda e Carlo de’ Rosmini. Un’amicizia che scopertamente legava il nome dell’erudito e letterato roveretano dell’epoca a una visione politica di nuova estrazione. Eppure Carlo de’ Rosmini viene descritto sempre dalla storiografia come un conservatore al pari del cugino Antonio Rosmini Serbati. A smentire queste posizioni «conservatrici» il proseguo del diario di Giuseppe Binda.

Il nome di Carlo Rosmini in questo suo invio di lettere è associato infatti da Giuseppe Binda ad altri due personaggi veneziani: Domenico Sughi e Giuseppe Rangoni rispettivamente affiliati al Grand’Oriente d’Italia il primo e il secondo ritenuto anche fondatore della Loggia Eugenio Adriatico.

Massoni come il protagonista bonapartista della mia tesi, ma soprattutto veneziani come gli ambienti di provenienza di Ugo Foscolo. Binda conosceva bene Ugo Foscolo.

Il nostro frequentava a Pisa assiduamente Casa Roncioni e dunque quella Isabella che si innamorò di Ugo Foscolo (la Teresa delle Ultime lettere di Iacopo Ortis) e che poi ebbe con lui il figlio illegittimo Riccardo Felici, il quale visse a Lucca e ivi morì nel 1902, a Sant’Alessio, a circa tre chilometri dalla città. Stesso luogo dove nel 1876 era deceduto Nicola Cattaneo, dei Cattaneo di Corsica, cugino dei Bonaparte. E dove vivevano stranamente i miei nonni.

Fu Binda qualche anno dopo il 1807 a presentare il Foscolo a Lord Holland, in Londra. Tra le frequentazioni pisane del Binda quell’avvocato Manzi che qualche anno più tardi, dopo essere stato bonapartista, diverrà legato al Metternich. Fu lui a tradire Giuseppe Binda quando, inviato nel 1815 da Re Gioacchino a Genova, venne intercettato e arrestato dal Generale Austriaco Werklein? Non lo sappiamo ma potremmo pensarlo.

Il nostro Giuseppe Binda e l’intera sua famiglia avevano una particolare amicizia con Paolo Ludovico Garzoni Venturi. Questo ancora ci racconta Adriano Amendola. Il padre di Giuseppe Binda era stato un suo factotum, e l’amicizia era rimasta anche dopo la morte del padre. Il nobile lucchese viveva a Milano e insieme ricordarono nelle lettere le visite a Villa Garzoni, a Collodi.

Garzoni fu un padre putativo per Carlo Lorenzini, alias Collodi appunto, il padre, qualche anno più tardi, del mitico Pinocchio. La mamma di Lorenzini era a servizio dei Garzoni Venturi. Qui Giuseppe Binda amava correre, nella maestosa villa di Collodi, circondata dai celebri giardini. Qui amava nascondersi da bambino. E il discorso cade su una vicenda politica niente affatto irrilevante. Nel 1796 il padre di Giuseppe Binda aveva trattato niente meno che con Lady Corsica, alias Lady Elliott che con il marito Gilbert era a servizio della Casa Reale Inglese. La lady voleva un appartamento nella maestosa villa di Collodi dei Garzoni Venturi. Stiamo parlando del celebre Lord Minto e della sua famiglia. Il nobile Whig Inglese Lord Minto divenne amico di Luciano Bonaparte e della sua famiglia di secondo letto. Già all’epoca il nostro era legato ai Bonaparte e alla visione murattiana? Lecito pensarlo. Questo Amendola non lo scrive ma fa cenno a un particolare incontro tra Giuseppe Binda e Luciano Bonaparte, con la sua famiglia, in viaggio quest’ultimo verso Lucca. Si incontrarono presso Siena, pare in una locanda, quando Giuseppe Binda, con una lettera di Elisa Bonaparte in tasca, era diretto a Roma per assumere una importante carica pubblica. In quel frangente Luciano Bonaparte si congratulò con Giuseppe Binda per l’incarico ricevuto. Amendola riferisce che non si conoscevano. Aggiungo, date le carte che ho rintracciato e pubblicato sugli ambienti bonapartisti lucchesi, probabilmente poteva non essere così. Del resto Giuseppe Binda, da buon «massone» o comunque affiliato ad ambienti dove la massoneria era di casa, e già ben introdotto nella sua opera di spia che lo vedrà poi coinvolto direttamente a Napoli con Murat, non scriveva in modo del tutto genuino i suoi diari, come spesso accadeva a questi personaggi.

Sappiamo che durante la seconda coalizione fu l’allora Generale Gioacchino Murat a occupare la Toscana e a invadere Lucca. Su questo particolare frangente nulla viene ricordato da Adriano Amendola nella sua trattazione. Rilevo che il figlio primogenito di Gioacchino Murat si chiamava Gioacchino Luciano Carlo Murat e fu uno degli uomini più influenti del Risorgimento Italiano di stampo bonapartista mazziniano. Al pari di suo cugino, il Principe Carlo Luciano Bonaparte, figlio di Luciano e della sua seconda moglie. Rapporti esclusivi con Lord Minto e ciò appare nei miei studi risorgimentali pubblicati.

Del resto le questioni córse erano molto care alla compagine lucchese, ma anche agli Inglesi.

Già a fine Settecento una lettera rintracciata svela proprio questa comunione. Il rivoluzionario córso Pasquale Paoli, protetto dalla Corona Inglese e di cui il padre di Napoleone Carlo Buonaparte era stato per qualche tempo segretario personale proprio in quegli anni, si confidava con Padre Ghelsucci dei chierici regolari lucchesi. Quel Padre Ghelsucci era in comunione con Padre Biagio Binda, lo zio di Giuseppe Binda, anche lui vicino ai chierici regolari lucchesi. E le confidenze di Pasquale Paoli erano assolutamente politiche.[4]

Gli incontri col partito whig ma anche con gli stessi Bonaparte partivano sicuramente da lontano.

Per la verità sui reali rapporti di Giuseppe Binda con Gioacchino Murat, Amendola non chiarisce le dinamiche. Rileva solo che non tradì, come del resto ho riferito nel mio articolo. Che fino all’ultimo si prodigò per reperire a Lord Bentick a Genova carte che appartenevano al Marchese del Gallo, il quale era stato a servizio di Murat e che vedevano il Sovrano Partenopeo farsi portavoce di un soccorso chiesto agli Inglesi per salvare il suo Regno in quei burrascosi momenti. Nulla da parte di Amendola che possa però riferire perché davvero Giuseppe Binda fosse divenuto l’uomo di fiducia di Gioacchino Murat.

Vorrei venire in soccorso ad Amendola e alla sua preziosa testimonianza. Adriano Amendola così scrive su Gioacchino Murat, riportando i diari di Giuseppe Binda: «Roma 11 febbraio 1810 – Dopo la fuga di notizie sul mio conto a Lucca (apparentemente Binda in quel frangente non è ancora legato a Murat) solo parzialmente veritiere (Binda già si sta allenando nella sua trasferta romana nella sua opera di futura spia murattiana) perché non ero stato allontanato da Napoli, per maggiore sicurezza decisi di disfarmi delle missive che mi arrivavano da Napoli (dove egli aveva per qualche tempo soggiornato).

Edouard Jean Baptiste Milhaud aveva ragione nel reputare Gioacchino Murat un Sovrano capace, però contrastare Napoleone era impossibile, aveva sequestrato Sua Maestà Papa Pio VII ingenerando malcontento nella popolazione, oltre ad aver riformato l’apparato statale interno nel quale vigeva un clima di terrore composto per la maggior parte da stranieri, come me, provenienti dagli altri dipartimenti in cui aveva diviso lo Stato, o da collaborazionisti, che pur di veder salvati i propri averi erano pronti a qualunque nefandezza. E in questo gli aristocratici romani erano stati insuperabili, in quanto tra loro qualcuno tramava nell’ombra ed era anche attivo».

Dobbiamo a questo punto aggiungere altre osservazioni, che i diari non riportano. Il personaggio citato da Giuseppe Binda, ossia Edouard Jean Baptiste Milhaud fu uno dei Generali Napoleonici più attivi e influenti nonché uno degli artefici nel 1815 della fuga di Napoleone dall’Isola d’Elba, dove era stato relegato dalle Potenze della Coalizione Antifrancese. Se una lettera, che ho rintracciato, del 1° gennaio 1815 lega gli ambienti cittadini lucchesi a quel Piemonte Sabaudo favorevole alle gesta napoleoniche in combutta col figliastro di Napoleone e con gli ambienti napoleonici che materializzarono la partenza napoleonica dall’Isola; e colui che scrisse la lettera indirizzata ad ambienti piemontesi canoviani il 1° gennaio 1815, quando Napoleone preparava la sua partenza, era un Lucchese intimo di Giuseppe Binda; allora mi viene da dire, i rapporti tra lo stesso Gioacchino Murat e il cognato Imperatore non dovevano essere così conflittuali, nemmeno in relazione alle sorti future dello Stivale, come la storiografia tramanda.

A meno che non si vogliano tacciare Binda e i suoi accoliti come antipatriottici. Il che, come asserisce opportunamente Adriano Amendola, non appare affatto dai documenti.

Mentre diverse da queste sono le considerazioni della storiografia ufficiale, che per ragioni politiche, vuole ancora Gioacchino Murat e Napoleone lontani dalla soluzione di possibili compromessi per una Unità Nazionale «ante litteram». E soprattutto in rotta di collisione tra loro. Basta leggere la lettera che ho rintracciato[5] per scoprire l’esatto contrario. L’amico lucchese di Giuseppe Binda, un bonapartista convinto, visto il documento, scrive a Torino al conte Fabrizio Lazzari, nipote del celebre Generale Napoleonico Rege de Gifflenga e amico d’infanzia di Carlo Alberto di Savoia quando il giovane rampollo sabaudo era filo bonapartista, per sostenere le vicende napoleoniche del periodo, con legami evidenti a quell’Eugenio, figliastro di Napoleone e Re a Milano, che a lungo rimase vicino, con carteggi nutriti, allo stesso Rege de Gifflenga.

Lorenzo Pierotti, questo il nome del patriota che contatta Fabrizio Lazzari, e gli ambienti curiali lucchesi cui afferiva, gli stessi di Giuseppe Binda, non fu così favorevole al potere temporale dei Papi insieme alla sua corposa famiglia.

Mentre sostenne apertamente e scopertamente soluzioni federaliste per la Penisola. Sicuramente possibilità di unione della stessa anche sotto un unico Sovrano, presumiamo nel rispetto di quelli che erano comunque gli assetti peninsulari. Del resto anche in Vaticano esistevano frange non così minoritarie che si legavano a questi gruppi politici, volti a una politica più allineata a un avvicinamento tra cattolici e protestanti in ambito europeo. Alcuni degli studi pubblicati lo attestano.

Giuseppe Binda come Napoleone e lo stesso Gioacchino Murat non erano dei senza Dio, semplicemente avevano una visione più laica e diverse posizioni relativamente al potere temporale dei Papi, che altre frange cattoliche, vedi i Gesuiti più ortodossi, contrastavano.

Ma tali cambiamenti in quel periodo e nel corso di tutto il Primo Risorgimento non furono solo auspicabili, come la storiografia parzialmente riporta, ma anche ampiamente realizzabili. Se le vicende politiche generali avessero preso una piega un tantino diversa.

Questo ci raccontano in realtà le vicende umane e i diari di Giuseppe Binda.

L’accusa di quest’ultimo agli ambienti romani non è dunque solo legittima, ma doverosa, e direi ampiamente giustificata, visti gli eventi presenti e futuri.

Giuseppe Binda era un uomo realista e sapeva servire la causa italiana nel modo migliore. Apprezzava Murat, il suo ingegno, ma naturalmente era anche conscio della fragilità del personaggio e delle difficoltà, reali in quel 1810. La partita che si giocò nel periodo ma anche successivamente sull’Unità Nazionale, federale o meno che potesse essere, in quel frangente fu reale e ben delineata, anche dai diari della spia murattiana, che Adriano Amendola ben definisce nella sua pubblicazione.[6]

Scrive infatti Adriano Amendola: «Lo stesso Murat, in fondo in fondo, non era altro che un bamboccio nelle mani dell’Imperatore! – queste le parole di Giuseppe Binda nei diari – tra i due (Murat e Napoleone) non si era raggiunto l’accordo per spartirsi i beni alla stipula degli articoli segreti di Baiona. Nel 1806 Murat, allora Duca di Berg, aveva versato dieci milioni di franchi a Napoleone il conquistatore per avere il dominio sui beni demaniali francesi, e in cambio Napoleone aveva deciso di metterlo sul trono di Napoli e lasciargli, come scelta, i suoi scarti, ovvero quei poderi poco fruttiferi nel Meridione d’Italia. La vera battaglia si giocava in segreto e l’Imperatore era risultato politicamente più scaltro, non intendendo lasciare a qualcun altro la scelta, mentre Murat poteva contare su un patrimonio costituito da sontuosi palazzi a Parigi, le scuderie d’Artois, terreni e quant’altro. Ancorché Sovrano, il Re di Napoli era suddito dell’Imperatore, e finché tale situazione non fosse cambiata, non si poteva agire, bisognava trovare appoggi internazionali come aveva fatto il barone svedese Lagerbjelke, che avevo incontrato a Pistoia».

Non era solo tale barone svedese un punto di riferimento per questi patrioti nostrani. Un altro Svedese molto vicino a queste dinamiche, vivrà l’ultimo periodo della sua vita a Firenze, Graberg de Hemso. I miei studi sul Primo Risorgimento confluiscono inesorabilmente con le stesse vicende murattiane.

Al servizio prima in Patria e poi della Corna Inglese proprio in quegli anni cruciali, il nobile de Hemso, come appare da carte rintracciate, era ancora nel primissimo Risorgimento Italiano vicino a quegli ambienti lucchesi bonapartisti.[7]

L’architettura politica per realizzare il sogno unitario era complessa, ma il nostro Giuseppe Binda non si lasciava impensierire. Incontrò in una sua passeggiata il Prussiano Karl Friederich von Der Schulemburg (non era forse la famiglia del patrigno Lucchesini così in sintonia con quegli ambienti?) che così riferisce a Giuseppe Binda: «L’arrivo di Murat a Roma è il segno di distensione nei confronti di Sua Altezza Imperiale, benché quest’ultima non si sia ancora fatta vedere» e continuò: «Sarà una buona occasione poterlo festeggiare oggi al Teatro Argentina, e speriamo che Napoleone cambi idea sul suo conto e non lasci Roma senza un Sovrano».

Credo che questa frase contenga in sintesi quelli che potevano essere i reali rapporti di forza allora presenti.

Napoleone non era certo uno sprovveduto. Temeva il cognato Gioacchino Murat, il suo potere all’interno della massoneria ma soprattutto la comunione dello stesso con gli ambienti carbonari che andavano formandosi, soprattutto a Napoli.

Volle per questo tenere ben salde le redini di comando. Quello del barone prussiano era un auspicio, ed evidentemente tale auspicio, vista la lettera del 1° gennaio 1815 che ho rintracciato, sarà praticabile solo cinque anni dopo, quando Napoleone, in fuga dall’Elba, si servì indubitabilmente anche di tali frange per raggiungere la Francia e da lì Parigi. Napoleone con i suoi sogni di grandezza finì per essere debitore egli stesso verso una nuova visione dello Stato che anche in Italia aveva preso piede, nonostante le indubitabili divisioni interne. Ma già nel 1810, come bene ricorda Giuseppe Binda nei suoi diari, la figura e il prestigio di Gioacchino Murat erano alti, anche nella Roma Papalina che si preparava ad accoglierlo. Si concretizzarono solo più avanti, nel Napoletano, dove Murat regnava, e dove Giuseppe Binda servì la causa. Ma ancor più nell’impresa che porterà Murat a morire a Pizzo Calabro nel 1815.

Molto Murat attese in quel 1815 da Lord Bentick, puntualmente disatteso.

Lord Bentick era un «tories», la nomenclatura whig ancora non aveva raggiunto un peso politico decisivo. E in quel preciso momento l’Inghilterra preferì un ritorno all’Antico Regime piuttosto che perorare sul Continente la causa degli ex rivoluzionari francesi. Napoleone, figlio di tale Rivoluzione, diventato un conquistatore e un Imperatore con mire riunificanti in Europa sotto egida francese, fu per gli Inglesi una minaccia da sconfiggere. Ma nondimeno per un Lord Holland, whig della prima ora, non lo era. Così come non lo era per suo zio, quel Lord Charles Fox che gli fece da padre una volta rimasto orfano in tenera età. E che già nel Settecento aveva fatto della lotta alla schiavitù nelle colonie e del nuovo corso proto industriale inglese e delle colonie del New England un cavallo di battaglia.

A Lord Bentick si era rivolto Murat. Perché Lord Bentick rappresentava il fronte Sud, mediterraneo, della politica inglese. Ma il plenipotenziario inglese a Napoli e Firenze in epoca napoleonica, ossia Lord Holland, che fu sempre molto vicino ai Bonaparte, anche nel corso del Primo Risorgimento, la pensava diversamente; a Giuseppe Binda e a tutta la compagine lucchese bonapartista rimase vicino, anche dopo i fatti rivoluzionari murattiani, con idealità simili a quelle in cui era stato educato dallo zio, Lord Charles Fox. Idealità che qualche anno dopo la sua morte, avvenuta nel 1840, porteranno l’Inghilterra a essere davvero la padrona del Mar Mediterraneo e gli emergenti Stati Uniti una costola importante dell’alleanza atlantica contro un Antico Regime che solo con la Prima Guerra Mondiale crollò definitivamente, cioè un secolo dopo le vicende murattiane.

Murat aveva precorso i tempi, non solo per quanto riguardava l’Unità Nazionale Italiana. Murat e gli uomini di Murat, «in primis» Giuseppe Binda, continuarono a vivere con la sua politica riformista, anticlericale, dove per anticlericale si intendeva l’abolizione del potere temporale dei Papi o quanto meno una sua mitigazione.

E, ripeto, la sua politica si concretizzò davvero un secolo dopo. I carbonari che lo sostennero, soprattutto a Napoli, ma anche nella complessiva Penisola, saranno poi il supporto morale e materiale di un Giuseppe Mazzini e di quelle frange repubblicane che negli stati Uniti e nella Svizzera europea avevano un importante modello. Ma che nelle vecchie realtà europee repubblicane come le città-stato di Lucca o Venezia, nella stessa Genova, ex Repubblica Marinara, avevano il loro humus ideale. Per quanto si fosse trattato di Repubbliche oligarchiche, erano di antico retaggio e di solida formazione politica.

Sono questi gli aspetti ancora poco trattati dalla storiografia sia in relazione a Murat e al periodo napoleonico, sia riguardo a un Primo Risorgimento, molto più articolato e variegato di quanto gli studi e pubblicazioni posteriori abbiano lasciato credere.

Adriano Amendola ci dice nella sua pubblicazione su Giuseppe Binda che egli probabilmente aveva già preparato il suo passaggio in Inghilterra prima della caduta murattiana. Probabile. Ma la sua non fu una fuga dalle gesta murattiane. Semmai un modo per salvare con se stesso anche quei valori esportabili che poi potrà in anni successivi, grazie al suo incarico come Console Americano a Livorno, continuare a perorare. Del resto i suoi contatti con i patrioti toscani, e non solo, nella Penisola Italiana e fuori non vennero mai meno. Non casualmente il Governo degli Stati Uniti gli dette tale incarico in un porto strategico, Livorno, dove gli affari statunitensi erano già nel Settecento estremamente corposi, polo di attrazione per l’intero Mar Mediterraneo. E dove sostenere patrioti di ogni colore, mazziniani compresi, era impresa ardua ma nondimeno determinante. Binda era l’uomo giusto nel momento giusto. Quando nel 1848 Giuseppe Binda permise al Generale Avezzana, poi Ministro della Guerra di Giuseppe Mazzini nella Seconda Repubblica Romana, di passare nel porto di Livorno da una fregata inglese, imbarcatosi in anonimato a Genova, a un fregantino americano per dirigersi a Civitavecchia e da qui a Roma, indisturbato, senza un vero controllo dei passeggeri e dei loro spostamenti su tali imbarcazioni, permise a Giuseppe Mazzini di perorare la sua causa. E non mi si dica che Giuseppe Binda non fosse a conoscenza degli spostamenti e del passaggio del Generale Avezzana.

Giuseppe Binda era un uomo la cui professionalità era indiscussa e indiscutibile. Un uomo che aveva pieno controllo della realtà livornese ma anche europea. Ho dovuto reperire una pubblicazione del 1940 per trovare queste note che contraddicono completamente quanto la storiografia ufficiale riporta di lui e delle vicende mazziniane del periodo.[8]

Grazie dottor Adriano Amendola, un grazie speciale alla spia murattiana Giuseppe Binda, uomo del Foro, grande avvocato e dotto del suo tempo; e al grande condottiero e uomo di Stato Gioacchino Murat.


Note

1 Adriano Amendola, Diario di una Spia, Sira Editore 2023, pagina 10.

2 Luigi Cibrario, Lettere di Italiani illustri, Edizioni Agliana, 1819, raccolta di lettere: tra queste la lettera di Pasquale Paoli a Padre Ghelsucci dei Chierici Regolari Lucchesi. Testo presente presso la Biblioteca Statale di Lucca.

3 Interessante notare come per pura casualità le carte di Binda si siano salvate nel 1960 e siano entrate a far parte dell’Archivio Storico Capitolino.

4 Luigi Cibrario, Lettere inedite, Edizioni Agliana, Torino 1819. Lettera di Pasquale Paoli a Padre Ghelsucci. Citata.

5 Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Pierotti Lorenzo a Ranieri Zucchelli, Carteggi Vari, 101,65.

6 Adriano Amendola, Diario di una Spia. Giuseppe Binda tra Canova e Napoleone. Editore Skira 2022.

7 www.storico.org, La marchesa Eleonora Bernardini. Elena Pierotti, 2015.

8 Antonino d’Alia, Giuseppe Avezzana, Società Editrice Italiana 1940.

(ottobre 2023)

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