Giovanni Battista Belzoni: la vera storia di Indiana Jones
Il personaggio che ha ispirato la celebre figura dell’archeologo-avventuriero

Tra i personaggi che sfilano nel mondo dell’avventura, un posto di primo piano spetta senza dubbio a Indiana Jones, professore universitario, archeologo e avventuriero: cinque film (tutti interpretati da un istrionico Harrison Ford), una serie di telefilm, e poi fumetti, videogiochi, imitazioni e parodie di ogni tipo. È quasi impossibile trovare qualcuno che non lo conosca, col suo tipico cappello, l’immancabile frusta, quel sorriso spesso a metà strada tra l’ironico e l’amaro.

Molti meno sono invece coloro che sanno che George Lucas si è ispirato, nella creazione di Indiana Jones, a un personaggio realmente esistito, dalla vita fuori dal comune: Giambatta Antonio Bolzon, più noto come Giovanni Battista Belzoni, uno dei padri dell’egittologia (la scienza che studia l’antico Egitto).

Belzoni era un Italiano, nato a Padova, a quel tempo città della Repubblica di Venezia, il 5 novembre del 1778, da una famiglia di umili origini. Fu costretto a lavorare fin dalla prima adolescenza nella bottega del padre, come barbiere, ma poi riuscì a coronare la sua passione per i viaggi: andò a Roma, dove la visione delle rovine lo avvicinò al mondo dell’archeologia, a Parigi, nei Paesi Bassi, in Inghilterra, che sarebbe divenuta la sua seconda patria e dove si sposò con una certa Sarah Banne, che non si sa bene se fosse Inglese o Irlandese. Poco importa: con lei condivideva l’amore per i viaggi e con lei avrebbe condiviso quasi tutte le avventure.

E di avventure ne ebbe: quando venne a sapere che in Egitto, una provincia dell’Impero Ottomano – allora per gli Europei in gran parte «terra incognita» e avvolta nelle nebbie del mito – si stava per intraprendere un programma agricolo che comprendeva grandi lavori di irrigazione, lui, che aveva una grande esperienza nel campo, partì, sicuro di raggiungere il successo con i suoi progetti idraulici.

Al Cairo rimase affascinato dalle bellezze archeologiche: «La vista di cui godemmo allora» scrisse «era d’una bellezza tale, che la penna tenterebbe invano di potere descrivere. La nebbia distendeva sulle pianure d’Egitto un velo, che andava alzandosi e scomparendo a misura che il sole si approssimava all’orizzonte: nello sciogliersi quel velo leggero ci lasciò vedere tutta la contrada dell’antica Menfi».

Belzoni era alto due metri e aveva una forza erculea, capelli rossi, occhi azzurri, un’intelligenza fuori dal comune. Amava la cultura e le tradizioni del Paese Africano, tanto da imparare a parlarne la lingua e indossare abiti locali, compreso il turbante, e facendosi crescere una lunga barba di foggia araba. Tutto ciò gli permise di essere apprezzato dalla popolazione del posto, tanto che i manovali ai suoi ordini lavoravano duramente, cosa a cui non erano abituati e che nessuno dei suoi colleghi europei del tempo era riuscito a ottenere. Ma aveva anche un carattere orgoglioso, vulcanico e indipendente, che lo portò a rompere le amicizie influenti che si era fatto: poteva autogestirsi il lavoro e godersi la fama delle sue scoperte, ma per proseguire i suoi scavi dovette richiedere grossi prestiti personali che lo rovinarono finanziariamente.

Ritratto di Giovan Battista Belzoni

John Murray, Ritratto di Giovan Battista Belzoni vestito in foggia araba, nel suo libro Narrative..., 1820

Non abbiamo usato il termine «scavi» in modo improprio: il Pascià (Governatore) dell’Egitto, Mehemet Alì – fondatore del futuro Stato Egiziano –, rifiutò l’offerta della macchina idraulica di Belzoni, ma gli affidò l’incarico di trasportare un busto in pietra pesante oltre sette tonnellate e alto più di due metri e mezzo dal Ramesseum (nei pressi dell’odierna Luxor) fino alla riva al Nilo, distante circa 1.200 metri. Scrisse l’archeologo che «il mio primo desiderio in mezzo a queste rovine fu di esaminare il busto colossale che dovevo prelevare. Lo trovai vicino ai resti del corpo e del trono ai quali, in altri tempi, era unito. Il volto era rivolto verso il cielo e si sarebbe detto che sorridesse all’idea di essere trasportato in Inghilterra. La sua bellezza, più che la sua grandezza, superava ogni aspettativa». L’impresa fu portata a termine in soli 15 giorni con una rudimentale slitta, quattro leve e 80 uomini del posto. Era il 1816. Da quel tempo, anche grazie all’amicizia preziosa del Console Generale Britannico in Egitto, Henry Salt, cultore di archeologia egizia, Belzoni iniziò la sua ascesa.

Da ingegnere idraulico, Belzoni passò a scavare tra le sabbie del tempo e riscoprire le tombe degli antichi Faraoni. Al tempio di Iside vicino ad Assuan prese possesso – per conto del consolato britannico, ma sembra in gran parte a spese proprie – di un obelisco con iscrizioni in geroglifico e in greco antico perfettamente conservate: nel 1822, comparando le incisioni, l’egittologo francese Champollion avrebbe avuto una decisiva verifica della sua decifrazione dei geroglifici. Compì poi degli scavi a Karnak, portando alla luce delle preziose statue, e nella Valle dei Re sulla riva opposta del Nilo dove scoprì la sua prima tomba.

Non sarebbe stata l’unica: nel corso dei suoi tre viaggi (1816, 1817, 1818) tra le cose principali – per enumerarle tutte occorrerebbero troppe pagine – portò alla luce un discreto numero di reperti a Karnak, tra cui il sarcofago del Faraone Ramesse III (ora al Louvre), e una statua in calcare della Regina Ahmose Meritamon; entrò nel fino allora inviolato tempio di Abu Simbel, di cui comprese l’importanza; scoprì, ancora nella nella Valle dei Re, altre sette importantissime tombe (fra le quali la tomba di Seti I, il padre di Ramesse II, interamente decorata con splendidi bassorilievi e affreschi policromi, tanto da essere definita la «Cappella Sistina Egizia», e che viene tuttora chiamata «Tomba Belzoni»), e l’ingresso della piramide di Chefren a Giza – che si credeva, sulla base della testimonianza di Erodoto, fosse massiccia e priva di camere interne –; in più, trovò una bellissima statua di Amenofi III e le rovine della vera città di Berenice sul Mar Rosso fondata da Tolomeo II. Molti reperti custoditi nel British Museum portano la sua firma.

Particolare della tomba di Seti I

Un particolare della parete e del soffitto astronomico della tomba di Seti I, detta anche Tomba Belzoni

Belzoni era arrivato in Egitto senza preparazione storica e tanto meno di ricercatore; l’egittologia non aveva ancora 20 anni e l’avvicinamento alla civiltà dell’Egitto antico avveniva di preferenza attraverso le fonti classiche che per il diretto esame del materiale; oltretutto, i primi Europei che si diedero a scavare in Egitto, più che archeologi erano «tombaroli» senza scrupoli disposti a tutto pur di arricchirsi: gli scavi venivano condotti usando la dinamite e le diatribe si risolvevano a pistolettate. Belzoni fu molto diverso da loro e si distinse per l’ordine e la metodicità con cui eseguì gli scavi. Ricopiò e ricalcò, con grande impegno, parte dei bassorilievi della tomba di Seti I, rilevò la zona e abbozzò un tentativo di datazione della città di Berenice in base ai dati del tempio ivi rinvenuto; riuscì nell’apertura della piramide del Faraone Chefren attraverso l’attento esame della struttura interna della vicina piramide di Cheope. Era estremamente prudente nello stabilire la datazione di un monumento, sempre giustificando le sue asserzioni con osservazioni dirette delle quali rendeva conto; sobrio, preciso e obiettivo nelle descrizioni, anche di quelle tombe al cui interno non trovò nulla; non dava interpretazioni avventate degli oggetti, né mitizzava gli antichi Egiziani; fu il primo che si preoccupò di condurre scavi veri e propri senza immediati fini di vendita dei materiali ai musei. «È ingiusto considerare Belzoni un “predatore” di antichità» scrive il giornalista e scrittore Alberto Siliotti in: Giovanni Belzoni alla scoperta dell’Egitto perduto (Geodia 2017); «in realtà è stato uno dei precursori dell’egittologia, in un’epoca in cui questa disciplina non esisteva ancora. E fu Belzoni ad allestire a Londra, primo al mondo, una mostra sull’antico Egitto». Tra i suoi tanti meriti, c’è quello di aver capito che gli scavi affrontati con metodo sono un modo per ricostruire la storia nella sua interezza e non un mero mezzo per trovare un oggetto prezioso; Howard Carter, l’archeologo che scoprì la tomba di Tutankhamon, dirà infatti di lui: «I suoi scavi furono fra i primi su larga scala nella Valle dei Re e bisogna riconoscergli il giusto merito per il modo in cui li ha condotti». Nel campo dell’archeologia egizia fu considerato per lungo tempo un modello da imitare dagli esploratori che lo seguirono e molti furono gli esperti e i critici di egittologia che lo stimarono e lo additarono come esempio.

Il suo carattere irruento lo portò a scontrarsi con il Piemontese Bernardino Drovetti, un rivale troppo influente, che aveva servito come Console la Francia fino al 1815 e aveva venduto gran parte dei suoi ritrovamenti al Re di Sardegna (questi reperti saranno la base del futuro Museo Egizio di Torino). Anche se il processo si concluse con un nulla di fatto, la carriera di esploratore in Egitto di Belzoni poté dirsi conclusa. Tornato a Padova dove ebbe accoglienze grandiose e adeguati onori (aveva oltretutto donato alla città due statue che raffiguravano delle sfingi, oggi custodite nel Palazzo della Ragione), nel 1820 si imbarcò alla volta di Londra. Qui scrisse un libro sui suoi viaggi in Egitto, che intitolò Narrative of the Operations and Recent Discoveries Within the Pyramids, Temples, Tombs and Excavations in Egypt and Nubia and of a Journey to the Coast of the Red Sea, in search of the ancient Berenice; and another to the Oasis of Jupiter Ammon; il testo era corredato da splendidi acquarelli e mappe, alcune disegnate da lui, ed ebbe un grande successo, con varie ristampe e traduzioni. Organizzò mostre, fu accolto a San Pietroburgo con grandi onori, ma la vendita dei reperti trovati e il successo del suo libro e delle mostre coprirono a stento i grandi debiti che aveva contratto; molti dei siti che aveva scoperto gli avevano procurato gloria ma poco denaro, dato che non contenevano nulla di prezioso.

Nel 1823 l’associazione africana di Londra gli propose di compiere una spedizione alla ricerca delle sorgenti del Niger, fiume pressoché sconosciuto agli Europei, sulle cui rive sorgeva l’antica, leggendaria città di Timbuctù, che nessun Europeo aveva ancorta descritto. Quest’ultimo viaggio gli risulterà fatale: poco dopo essere sbarcato in Africa, Belzoni morirà di dissenteria il 3 dicembre del 1823 nel porto fluviale di Gwato, in Nigeria. Aveva 45 anni. Fu seppellito ai piedi di un albero alla periferia del villaggio e sulla tomba fu apposta un’epigrafe recante il suo nome e la data della morte, unitamente a una preghiera: «Il gentiluomo che ha messo questa epigrafe sulla tomba del celebrato e intrepido viaggiatore spera che ogni Europeo che visiti questo posto faccia pulire il terreno e riparare lo steccato intorno, se necessario». Quarant’anni dopo Richard Burton, spia, esploratore, orientalista, si recò sul luogo: non trovò la tomba, ma solo un albero. Un ultimo enigma legato all’uomo che aveva passato la sua vita a risolvere altri enigmi!

(giugno 2023)

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