Manzi-Mansi
Dal Napoletano alla Tuscia sulla scia dei Bonaparte

La famiglia Mansi, che troviamo a Civitavecchia tra il XVII e il XIX secolo, era originaria del Napoletano. Si era trasferita a Civitavecchia sul finire del Seicento. Iscritta alla nobiltà locale, si manteneva «con il lustro e il decoro» e questo le consentì di ottenere il privilegio di un oratorio privato prima nella loro casa di Roma e poi nel loro palazzo di Piazza Leandra a Civitavecchia. Giovanni Manzi (1677-1757), Console della Religione Gerosolimitana, aveva sposato prima Nicoletta Bianchi e poi Margherita Pacifici. Tra i suoi figli si ricorda Francesco Antonio (1707-1777) che fu Console di Malta; aveva sposato Maria Vittoria Veronica Fiori. Suo figlio fu Giovanni Carlo Antonio (anche lui Console di Malta e Assentista). Aveva sposato Anna Pucitta. Altro figlio era stato Loreto, che fu ecclesiastico; Camillo, che fu Console di Spagna e di Toscana e anche di Malta. Era Assentista e banchiere. Aveva sposato Paola Antonia Bianchi. Da quest’ultimo matrimonio erano nati due dei più significativi rappresentanti della famiglia: Guglielmo e Pietro Giuseppe. Il primo fu un letterato; il secondo Magistrato, Presidente del Tribunale di Commercio. Aveva sposato Angela Cocconari, nobile di Tivoli. Altro figlio fu Vincenzo che aveva sposato Giuseppa Giorgi, e dal loro matrimonio erano nati diversi figli, tra i quali spicca Luigi Maria, avvocato e amministratore della Società Ferrovie Romane.

Alla metà dell’Ottocento un altro ramo della famiglia giunse a Civitavecchia con Luigi, viaggiatore, commerciante, uomo di lettere e ardente patriota; aveva sposato Gioconda Gallinari e si era distinto per la sua liberalità nei confronti dei bisognosi e della Patria. Suo figlio fu Cornelio che perpetuò la tradizione paterna e diede impulso all’industria della «Sambuca» che portava il loro nome.[1]

A Montalbano Jonico, in provincia di Matera, troviamo una lapide in marmo murata sulla facciata del palazzo di Corso Carlo Alberto dedicata al Re Carlo III di Borbone che visitando Montalbano Jonico qui fu ospite dal 21 al 23 gennaio 1735. La lapide è del 1896 e questo Palazzo Cerulli fu già Mansi.

La cosa stupisce ma non troppo. Mansi e Manzi erano due cognomi appartenenti alla medesima famiglia ivi presente, legata ai Manzi Napoletani, anche in questo caso appartenenti all’Ordine Gerosolimitano.

Potremmo così pensare che i celebri Mansi Lucchesi, che dal Cinquecento divennero di fatto la più celebre famiglia aristocratica «in loco», avessero origini comuni ai Mansi-Manzi citati. Pare niente di tutto questo, provenienti i Lucchesi da Magonza a datare dal 962 al soldo dell’Imperatore Ottone I. Come ufficialmente viene descritto.

Tuttavia nel Settecento a Pisa troviamo un importante proprietario terriero, Filippo Manzi, che aveva proprietà pare anche in Lucchesia. E rapporti intensi con la nobiltà cittadina, anche lucchese.[2] [3]

Aveva sposato il grosso proprietario terriero pisano una donna di origini inglesi, Flavia Doddsworth. Nome che significa in inglese «tradimento» e un celebre film americano del 1936, denuncia del perbenismo borghese di quegli anni, celebra proprio questo termine.

Tito Manzi è infatti celebre per il suo «tradimento» dei valori giacobini e per questo poco celebrato. Ma qui avrò modo di chiarire alcune questioni.

Tito Manzi era nato a Pisa nel 1769 e fu all’Università compagno di studi di Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore del celebre Napoleone, e del fido Cristoforo Saliceti.

Tito Manzi a Pisa si laureò in legge nel 1789, il 4 giugno, poco prima che a Parigi scoppiasse la Rivoluzione.

Ottenne a Pisa la cattedra di diritto criminale dal 1791 al 1795. Nel 1799 fu Presidente della Municipalità di Pisa. Sempre nel 1799 la Camera Nera lo condannò e lo destituì dall’Università per le sue idee liberali e giacobine. Nel 1799, alla partenza dei Francesi, fu arrestato a Venezia, tradotto a Firenze, condannato a un anno di carcere e all’interdizione dai pubblici uffici. Nel 1800, al secondo arrivo dei Francesi, fu liberato dal carcere. Fu dimesso nel 1801 da Professore dell’Università di Pisa. Nel febbraio del 1806 fu chiamato dall’allora Re di Napoli e suo antico compagno di Università, Giuseppe Bonaparte, a Napoli, al fine di aiutarlo nelle riforme dell’istruzione, del sistema giudiziario e della polizia. Nel 1806 fu nominato segretario generale del Consiglio di Stato. Nel luglio del 1806 acquistò con altri soci la proprietà del giornale «Moderatore», poi diventato «Corriere di Napoli»; nel 1811 fu associato con il «Monitore napoletano».

Qui mi fermo perché solo la pubblicazione di un recente volume sulla spia avvocato Giuseppe Binda di Lucca rende giustizia alle situazioni del periodo e ai personaggi medesimi coinvolti.[4]

21-22 giugno 1809. Il nobile lucchese Giuseppe Binda, in viaggio per Roma, passando da Siena incontra in una taverna Luciano Bonaparte, che a sua volta era in viaggio con la famiglia per Lucca, terra di origine del Binda. Il diario pubblicato è quello di una spia, Giuseppe Binda appunto, per cui i fatti vengono qui presentati come casuali. Ma leggere tra le righe diventa essenziale.

Binda riferisce che nella taverna dove si rifocillava Luciano Bonaparte gli si era avvicinato e presentato. «Neanche il tempo di chiedere del pane col prosciutto che si presentò davanti a me Luciano Bonaparte, fratello di Napoleone, le cui gesta in Corsica al fianco di Pasquale Paoli e quelle con Robespierre mi erano note dai dispacci che mi arrivavano o che copiavo in biblioteca. Mi presentai a Sua Altezza e lui fu disponibile nei miei confronti, quando seppe che sua sorella [Elisa, Sovrana di Lucca e Piombino] mi aveva raccomandato per un ruolo nel governo di Roma: “Avrà scelto una persona di valore! Sono felice che possa servire la patria”. Mi diede il suo biglietto da visita che mi parve di squisita fattura e nel congedarsi per l’imminente partenza [era diretto a Lucca] mi indicò da lontano il suo seguito. Con lui vi erano Alexandrine de Bleschamp, sua seconda moglie – e i figli di secondo letto. Felice di quell’incontro ritornai al mio pane e prosciutto».[5]

È evidente che l’incontro, visti i personaggi e il proseguo degli eventi, anche e soprattutto nel corso del Primo Risorgimento, non dovette essere così casuale.[6]

Il 29 e 30 giugno Giuseppe Binda, dopo essersi fermato a Roma, era in viaggio per Napoli.

La descrizione delle vicende murattiane di quel preciso momento storico da sola definisce la partecipazione politica di Binda come spia murattiana, che dai carteggi non compare, ma che ho potuto descrivere in una mia pubblicazione apparsa in rete.[7]

«Mi recai poi da Tito Manzi, segretario generale del Consiglio di Stato per nomina di Giuseppe Bonaparte, suo compagno nello Studio Pisano. Sapevo già, prima di partire da Lucca, dal vecchio Francesco Vaccà Berlinghieri, padre di Andrea [amico di Giuseppe Binda] quanto lui fosse legato a Gioacchino Murat. Dunque era una delle personalità con cui dovevo stringere un forte legame di amicizia[8] e di reciproca stima.

Inoltre ero a conoscenza della sua destituzione dall’Università, dove aveva insegnato diritto criminale con un approccio egalitario, che non era piaciuto a molti.

Cesare Lucchesini mi aveva informato che poteva essere ancora al soldo degli austriaci, ma tali rapporti sulla sua doppia condotta non furono nel tempo più confermati».[9]

Manzi per l’occasione parla a Giuseppe Binda di Vincenzo Cuoco, di Venanson, di Taddei, tutti celebri patrioti. E Giuseppe Binda gli consegna una lettera del Pignotti, noto liberale, e del Rosini, docente a Pisa di eloquenza italiana.

Il giorno successivo Giuseppe Binda pranza ancora con Tito Manzi, che gli suggerisce poi di recarsi alla sera al teatro francese, per avvicinarsi a tutta la nomenclatura partenopea. Qui si tende a precisare che quella sera non erano presenti Gioacchino Murat e sua moglie Carolina Bonaparte.

Lorenzo Manzi, presumo fratello del precedente, lo introduce nel salotto di Maria Francesca Carafa della Stadera di Trentola. Ebbe poi modo di intrattenersi con il cavalier Gaspare Mollo che gli manifestò disappunto verso la dinastia Bonaparte e grande interesse per Gioacchino Murat. A questo punto Giuseppe Binda fa il nome preciso di chi come i Manzi erano fedeli sostenitori di Murat: il fratello Paolo Antonio, duca di Lusciano; Maddalena Scotti di San Giorgio, e Vincenzo Spinola, Ministro plenipotenziario della Repubblica di Genova presso i Francesi. Paolo Antonio era membro della Loggia «Renaissance».

Queste poche note identificano le velleità di Murat di voler coinvolgere gli Inglesi stessi (nella persona di Lord Holland, maggiormente vicino alla causa dei patrioti italiani) per poter spodestare il cognato Imperatore costruendo un «corpus» nazionale italiano «ante litteram». Murat lavorava a tale possibilità futura e in molti lo sostenevano.

Tra questi il Manzi. Non possiamo escludere che gli Austriaci tramassero per ricattare il Manzi medesimo. Fu infatti in corrispondenza con la Regina Maria Carolina di Asburgo-Lorena. E nel 1815, inviato a Firenze, cercò di ostacolare in ogni modo le operazioni di Murat. Probabilmente fu lui a tradire Giuseppe Binda quando questi venne intercettato dagli Austriaci presso Lucca proprio nel 1815 con in tasca le lettere del marchese del Gallo indirizzate a Lord Bentick a Genova. E affidategli da Murat. Binda restò un murattiano anche dopo Murat, un patriota al servizio della causa italiana.

Non così Tito Manzi, che di fatto dopo il 1815 rinnegò ufficialmente la causa giacobina che aveva sostenuto, ponendosi a servizio del Metternich, e trascorrendo gli ultimi anni della sua vita proprio a Firenze, dove è sepolto.

Non sappiamo che cosa realmente ci fosse dietro questo passaggio del Manzi al fronte avverso a quello giacobino. Timore di dover sottostare in tarda età alle situazioni vissute da giovane. Non conosciamo i suoi legami con la compagine materna, che aveva origini inglesi. Non sappiamo quanto i legami con lo stesso Ordine Gerosolimitano dei suoi omonimi partenopei e laziali avesse potuto coinvolgerlo, se mai lo coinvolse, in tali repentini cambiamenti.

In quegli anni i Cavalieri di Malta dimoravano a Mosca, dallo Zar. Anche lui come l’Impero Austriaco coinvolto contro Napoleone e più in generale il giacobinismo che i Bonaparte in qualche modo rappresentavano.

Una formazione comunque borghese la sua, che male si confaceva almeno in apparenza alle scelte successive. Eppure Metternich e gli Austriaci fecero affidamento su di lui. Tito Manzi, al pari di Saliceti e di Giuseppe Bonaparte rappresentò giuridicamente il nuovo, una visione del tutto innovativa rispetto alla compagine antecedente. La loro formazione pisana contribuì a modificare radicalmente i codici giuridici di quegli anni, e a innovare il «corpus» giuridico tutto. I meriti del giurista sono stati affossati completamente da questo suo passaggio alla parte avversa. Ai suoi omonimi citati lo scettro di aver portato alta la bandiera del rinnovamento.


Note

1 C. Calisse, Storia di Civitavecchia, Firenze, Forni, 1936. Forni ristampa 1973, pagine 450, 526, 594, 656, 666. V. Vitalini, Gente, personaggi e tradizioni a Civitavecchia dal Seicento all’Ottocento, Civitavecchia 1982, Volumi I-II: I, 9, 69, 162, 264, 271; II, 14, 113, 116, 178, 180, 260, 305-307. O. Toti-E. Ciancarini, Storia di Civitavecchia. Da Pio VII alla fine del Governo Pontificio, Civitavecchia 2000.

2 In località Forno, non distante da Lucca, il rio porta il nome Manzi, e una via che lo contraddistingue ha questo nome.

3 Adriano Amendola, Diario di una spia, Skira editore 2022.

4 Adriano Amendola, Diario di una spia, Skira editore 2022.

5 Adriano Amendola, Diario di una spia, Skira editore 2022, pagina 99.

6 Suggerisco la lettura delle mie pubblicazioni sul Primo Risorgimento in www.storico.org, A viva voce, e sul sito di Canino dedicato a Luciano Bonaparte. Presenti in rete. In particolare in questo caso dedicati al Bonaparte e a Binda.

7 www.storico.org, Giuseppe Binda, 2016.

8 Qui si definisce di fatto il ruolo di Giuseppe Binda come spia murattiana.

9 Siamo nel 1809 e l’ufficializzazione del suo passaggio al soldo austriaco avverrà dopo il Congresso di Vienna, non in quel periodo. Cesare Lucchesini aveva posizioni cattolico-liberali ed era un congiunto del Binda.

(aprile 2023)

Tag: Elena Pierotti, Gioacchino Murat, Luciano Bonaparte, Giuseppe Binda, Cristoforo Saliceti, Cesare Lucchesini, Francesca Carafa.