Niccolò Tommaseo
Fede civile, vita morale e cooperazione nell’etica patriottica del Risorgimento Italiano e Dalmata

L’esperienza dell’esilio e la memoria di una storia complessa sono elementi di frequenti ricorrenze nell’opera di Niccolò Tommaseo, il grande Dalmata che seppe esprimere in una sintesi originale, di permanente attualità, i valori della dignità umana, dell’impegno civile, della cooperazione e di un beninteso patriottismo, con accenti di suggestivo livello estetico e stilistico ma, nel contempo, largamente subordinati a quelli etici e politici.

In questo senso, il Tommaseo (Sebenico, 9 ottobre 1802-Firenze, 1° maggio 1874) può ritenersi un protagonista di quella permanente contemporaneità della storia – cui si sono ispirati interpreti di alto livello critico come Benedetto Croce e Federico Meinecke – intesa quale aderenza del pensiero e dell’azione, anche in campo letterario, a momenti e problemi della nostra epoca, se non anche tendenzialmente universali. È un assunto che ha trovato conferme significative nel mondo degli esuli giuliani e dalmati, perché hanno visto nel grande Sebenzano un precursore del loro dramma, capace di interpretare il dolore per la perdita della patria, con accenti fortemente sentiti, che non è azzardato definire danteschi.

Autentica gloria della Dalmazia, Niccolò Tommaseo fu un esule che si può dire plurimo: già nel 1834 aveva dovuto lasciare Firenze, e la prima importante attività letteraria avviatavi con Giampietro Vieusseux, per rifugiarsi dapprima in Francia e poi in Corsica, dove scrisse Fede e Bellezza (una delle più celebri fra le sue 70 opere) e dove avrebbe potuto apprezzare il benemerito ruolo storico dei patrioti locali, a cominciare da quello di Pasquale Paoli. Poi, dovette riparare a Corfù a seguito della caduta di Venezia (1849) alla cui difesa contro l’Austria aveva concretamente partecipato[1], per rientrare in Italia soltanto cinque anni più tardi, e per trascorrere a Torino, ma soprattutto nella stessa Firenze, l’ultimo periodo di una vita molto impegnativa.

La tragedia dell’esilio fu vissuta dal Tommaseo con accenti molto elevati anche dal punto di vista poetico, ricordando come fosse stata particolarmente dura per un’anima che «d’Italia il pensiero / tien sempre nel cuor» ma nello stesso tempo, sottolineando la necessità di non lasciarsi coinvolgere in una rassegnata se non anche vile accettazione del destino. Al contrario, per il Sebenzano le memorie inducono il rinnovo della sofferenza, ma suscitano speranze nel riscatto e nel trionfo della giustizia: «Di bianco si tinge il ciel d’Oriente: / leviamci, fratelli, la luce verrà». Non a caso, pur senza indulgere a pregiudiziali assolute come quelle che più tardi sarebbero state espresse dall’irredentismo di patrioti più avanzati quali Giuseppe Avezzana, Matteo Renato Imbriani, Giovanni Bovio, Felice Cavallotti, e via dicendo, fu sempre «convinto dell’importanza e della necessità di proteggere l’elemento italiano in Dalmazia» e la sua priorità culturale[2].

La passione italica del Tommaseo non gli impedì di essere sensibile alle esigenze di riscatto dei popoli oppressi, in conformità ad auspici del migliore romanticismo sempre più diffusi. In proposito, è da ricordare la sua partecipazione ai tentativi di affrancamento ellenico dal dominio ottomano, che trovò momenti di alto valore letterario nella traduzione dei Canti popolari greci. In analoga prospettiva, avrebbe formulato speranze di una pur difficile conciliazione fra il mondo latino e quello slavo, tanto più che le sue origini ed il suo sangue partecipavano dell’uno e dell’altro[3], anche se la formazione culturale e quella etico-politica furono sostanzialmente avulse da ogni significativa influenza croata.

Il permanente dissidio fra sensismo e spiritualità che caratterizza l’esperienza umana e letteraria di Tommaseo, ed in qualche misura, quello parallelo fra pragmatismo immanente e richiami trascendenti, che furono una costante nella vita del Dalmata, ripropongono un’antitesi tipica di altre esperienze artistiche e personali, come quella del Petrarca; ma non certo un’inesistente convergenza, in un genio pur versatile e poliedrico come il suo, di cultura italiana ed espressività slava. Ciò posto, appare tanto più significativo che Tommaseo abbia sottolineato come quella difficile conciliazione fosse comunque fattibile, se non altro perché le vessazioni del vecchio ordine europeo colpivano anche le regioni slave, accomunandole in un impegno sia pure minoritario contro l’oppressione e le tirannie, e nella lotta per un mondo finalmente libero dalle permanenti sovrastrutture reazionarie.

In questo senso, è possibile affermare che sia stato un assertore convinto della cooperazione fra due mondi tanto diversi, anticipando talune posizioni del pensiero contemporaneo. Tuttavia, si trattava – al pari di quanto accade nella generalità dei casi – di una cooperazione tra soggetti di ben diverso spessore, in primo luogo sul piano culturale, nell’ambito di un rapporto tutt’altro che paritetico: cosa di cui Tommaseo era perfettamente consapevole, sublimandola nella logica degli affetti filiali e prima ancora, nelle pregiudiziali di una forte fede cristiana, spesso sofferta ma certamente autentica. In altri termini, aveva compreso senza riserve che la cultura slava aveva un carattere «necessariamente» subordinato, ma che poteva trarre vantaggi significativi dall’osmosi con quella italiana.

Allo stesso modo, fu precursore dell’irredentismo, affermando il rifiuto ad ogni rinunzia e la volontà di affrancamento dal vecchio regime asburgico, e rimanendo comunque fedele ad un impegno etico e religioso in cui le tentazioni dogmatiche avrebbero ceduto il passo, sulle orme di Lamennais e di Raffaello Lambruschini (indimenticato cronista della rivoluzione fiorentina compiutasi il 27 aprile 1859) ad una volontà politica – e non solo – sempre più lontana da ogni suggestione temporalista.

Il suo patriottismo, per quanto sentito e convinto, avrebbe finito per aderire, come da pertinente giudizio crociano, ad un «fondo sentimentale e fantastico» tanto che la stessa «Corsica, terra italiana, gli fa battere il cuore come per donna a lungo desiderata» ma la trasfigurazione estetica non avviene a scapito degli ideali di fondo e non induce uno sconforto disperato come quello di Dante nello «scendere e salir per l’altrui scale»: alla fine, il ruolo della fede assume una valenza quasi catartica. In questa ottica, si può parlare di un pur difficile «ottimismo» del Tommaseo, a cui gli eventi del Risorgimento avrebbero finito per dare prevalentemente ragione, dapprima col riscatto di Firenze, e poi con quello di Venezia, le città certamente più care alla sua esperienza umana e civile.

Al grande Dalmata non fu negato il conforto di un tramonto in cui i grandi ideali di nazionalità e di progresso civile avevano trovato importanti realizzazioni, anche se proprio la terra natale sarebbe rimasta irredenta. Tuttavia, l’esperienza di questo genio straordinario per convergenze di ingegno e di azione si colloca in un quadro volontaristico all’insegna di un’ecceità non soltanto letteraria, capace di confrontarsi positivamente con tante traversie, prima fra tutte la prematura e lunga cecità.

In tutta sintesi, quello di Niccolò Tommaseo resta un forte esempio di adesione sempre attuale a valori non negoziabili, cui possono e debbono fare riferimento tutti gli uomini di buona volontà che con fede autentica credono pur sempre nei principi essenziali di civiltà e di giustizia.


Note

1 Tommaseo fece parte del Governo Provvisorio di Venezia quale Ministro della Pubblica Istruzione, ed Ambasciatore in Francia, ma si dimise dagli incarichi onde sottolineare la propria ostilità al disegno di possibile annessione al Piemonte, adombrata in taluni ambienti della «nuova» Serenissima. In effetti, il grande patriota dalmata rimase fedele, anche in quella circostanza, agli ideali del Cattolicesimo liberale a cui aveva aderito sin dal primo soggiorno fiorentino quando si era sviluppata, fra le altre, la forte amicizia con Gino Capponi; e che poi vennero ulteriormente corroborati dall’intenso rapporto con Antonio Rosmini, fino al punto di raccoglierne gli ultimi pensieri sul letto di morte (1855) assieme ad Alessandro Manzoni: quello stesso Rosmini che all’inizio lo avrebbe lasciato «sbigottito» ma nei cui confronti ebbe a sviluppare un profondo e perenne debito di riconoscenza.

2 Simona Costa, Niccolò Tommaseo, Edizioni «Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia», Firenze 1988, pagina 19. La «leadership» culturale italiana era generalmente ammessa anche da parte slava: basti dire che durante la Prima Guerra Mondiale, quando venne fondato il Comitato per l’indipendenza jugoslava, il suo presidente Trumbic aveva scritto di essere «un Croato che pensa in italiano».

3 Niccolò era figlio del mercante dalmata Girolamo Tommaseo e di Caterina Chevessich, «ottima madre» la cui memoria sarebbe rimasta sempre ben presente nella memoria e nella nostalgia del Sebenzano, consapevole del ricorrente dolore provocato nella genitrice dalla sua lontananza e dalle sue vicissitudini personali.

(gennaio 2017)

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