Cristianesimo e Marxismo
Tra Metafisica e Storia le ragioni di una convergenza impossibile

Prima di affrontare lo spinoso, dibattuto e sempre attuale tema riguardante i rapporti e le illusorie analogie tra Cristianesimo e marxismo, appare indispensabile porre una premessa, o meglio chiarire un punto. Occorre cioè distinguere l’essenza della cosiddetta società civile, quale espressione di una qualsivoglia struttura politico-organizzativa umana, dall’essenza della Chiesa in quanto espressione del Cristianesimo, cioè di una fede religiosa. La prima entità, soggetta come è alle leggi dell’evoluzione storica e sociale, tende giocoforza – nel divenire del tempo – a trasformarsi; mentre la seconda, nella sua sostanza, tende invece a rimanere immutabile nello spazio temporale in quanto lo stesso concetto di tempo non le appartiene. Essa, infatti, non abbisogna di divenire o trasformarsi in quanto «è» e sussiste in Cristo e nella Sua Parola. In buona sostanza, la società civile si vede costretta per forza di cose a vivere in una dimensione prettamente terrena, contingente, cioè nella Storia, mentre l’istituzione ecclesiastica può, al di là delle apparenze, eludere questa costrizione possedendo la dimensione dell’Eterno che è Dio. Per questa ragione essa quindi avanza nei secoli vivendo sempre una medesima, immutabile realtà. Anche a dispetto di violente crisi, la Chiesa può fare conto su un suo secolo e su un suo tempo. Vive cioè nel mondo, ma non si nutre affatto del mondo.

Agli albori del XXI secolo, allo schiudersi di questo nuovo millennio denso di incertezze esistenziali, il Cristianesimo si trova ad affrontare un grave dilemma: adeguarsi alla mentalità di un’epoca intrisa di materialismo e mondanità, mettendo da parte tutto ciò che caratterizza il suo credo in quanto religione (magari per ottenere nuovi spazi, per immergersi maggiormente nel sociale e per tentare di avvicinarsi di più alla gente risolvendone più che altro le ansie economiche, cioè le problematiche terrene), oppure può continuare a mantenere salda la propria, insostituibile e imprescindibile vocazione soprannaturale scontando con l’incomprensione e perfino con la persecuzione la fedeltà ai propri eterni principi. Data la natura e le finalità della religione cristiana, appare subito evidente che con il perseguire di eccessivi (seppure idealmente giusti) e arditi compromessi terreni i generosi fautori del Cristianesimo Sociale rischiano con la loro azione di sfigurare in realtà il vero volto della Chiesa, cioè quello di Cristo. Il Cristianesimo, piaccia o non piaccia, è e rimane, almeno per chi crede, una fede. Quindi, o lo si accetta in toto o lo si rifiuta in toto. In un’epoca tecnologica in cui tutto è possibile e lecito, tutto è in sostanza diritto, mentre il dovere (che sta alla base del diritto) viene concepito come un faticoso optional, sussistono margini di discrezionalità o di capriccio assai vasti e impropri nell’affrontare e nel fare propria questa delicata scelta.

Da decenni, molti intellettuali marxisti, post-marxisti e cattolici di Sinistra sono infatti soliti proporre un’ipotesi, forse affascinante, ma assolutamente infondata. Se Gesù – essi sostengono – tornasse fra noi e decidesse di buttarsi in politica, si assocerebbe al credo egualitario marxista? Non sono infatti i marxisti una sorta di inconsapevoli Cristiani in cerca di una nuova Chiesa più «umana» e più giusta che soddisfi appieno le loro aspirazioni di eguaglianza? E in fin dei conti non sono sempre stati i seguaci di Marx a schierarsi in prima fila dalla parte dei poveri e a predicare la parità come in fondo fece Gesù? E ancora. Non è forse tempo che la Chiesa, che si è compromessa per lungo tempo con il Potere (almeno dall’ascesa al trono dell’Imperatore Costantino), avvii un’opera di purificazione affinché ritrovi il vero senso del Vangelo?

Di fronte a questi interrogativi sorge però spontanea una contro-domanda. Può in realtà sussistere la condizione di conciliazione reale tra Cristianesimo e marxismo? Da un’attenta e non polemica analisi razionale sembrerebbe proprio di no, e con buona pace di quei Cattolici «storicisti» che sono adusi ad interpretare il Verbo evangelico in chiave esclusivamente sociale e terrena, tentando di depurarne la reale essenza trascendentale e metastorica.

Ma vediamo i motivi di tale incompatibilità di fondo. Tanto per cominciare la decisa negazione del concetto di «aldilà», caratteristica del credo marxista, annullerebbe di fatto uno dei pilastri della fede e rischierebbe di incidere, lentamente ma inesorabilmente, nei comportamenti intellettuali e fattuali del militante cattolico, soprattutto quello «impegnato nel sociale», allontanandolo dal concetto di dogma e quindi di fede. Anche se, come è noto, dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine del sogno comunista, i neo-marxisti, ormai orfani di una chiesa materialista estinta, sono passati dal rifiuto a priori dell’«oppio» della religione ad un atteggiamento di graduale assimilazione dello stesso Credo cristiano, facilitati in questa manovra proprio dalla ingenuità (in certi casi dalla palese apostasia comportamentale) di molti Cattolici impegnati nell’azione esclusivamente sociale e materiale. Comunque sia, partendo dal presupposto (ovviamente teorico) dell’esattezza delle analisi socio-economiche marxiste, i teologi della «liberazione» non farebbero altro che accettare presupposti ideologici e che li condizionerebbero, cosicché quella che in ultima analisi dovrebbe essere una semplice integrazione o rivalutazione del pensiero cristiano tenderebbe, invece, a trasformarsi in una palese conversione dal Cristianesimo al marxismo o a qualcosa di simile. Senza considerare che parlare oggi di marxismo è un po’ come parlare dell’esperanto e della sua utilità come verbo di comunicazione universale; significa cioè discutere circa l’utilità di una lingua in effetti reale, ma la cui applicazione pratica non risulta affatto tale.

Posto il valore ideale supremo di una rivoluzione sociale (ci riferiamo sempre a quella marxista in senso storico) che nel suo slancio emotivo ha preteso di attuarsi attraverso la lotta di classe e mediante il sovvertimento o la modifica di una scala sociale, l’idea di una contestuale attribuzione trascendentale nella quale immergersi (quella legata al Credo cristiano), perderebbe inevitabilmente il suo significato; anche perché nella prassi e nell’azione ideologica, la stessa Verità piuttosto che «essere» (cioè come è intesa nel Vangelo) tenderebbe ad «attuarsi», proprio nel contesto di un divenire puramente «storico». Più precisamente, il primato esclusivo del «divenire» materiale sull’«essere» metastorico relativizzerebbe e vanificherebbe tutti i Valori metafisici del Cristianesimo. Scompenso che si riscontrerebbe anche nella disamina del carattere trascendente della distinzione tra Bene e Male, laddove, secondo il materialismo, l’etica viene obbligatoriamente dissolta nell’azione sovvertitrice delle gerarchie e delle prassi socio-economiche. E con questo, il passaggio all’immanentismo storicistico diventa quindi inevitabile. Dio inizia, erroneamente, ad essere identificato con la Storia intesa come travagliato processo di auto-redenzione dell’uomo tramite la lotta di classe. L’uomo e le sue idee prendono il posto di Dio e del Suo progetto trascendente e salvifico. Anche se, come è noto, il Cristianesimo non trova mai nella Storia il criterio della sua Verità, ma al contrario lo ricerca nella Rivelazione: prassi quest’ultima che – è bene ricordarlo – ha tra l’altro garantito a questa fede oltre duemila anni di vita.

A differenza del marxismo (ma anche del liberismo) il Cristianesimo non vive nel tempo che scorre poiché questa fede nel suo profondo custodisce già una Verità trascendente che si sottrae al ciclo morfologico delle culture e delle società: soggetti terreni che hanno per loro natura un inizio e una fine. Tutto infatti scorre, rimane soltanto la Verità di Cristo. L’assolutizzazione della rivoluzione classista corrisponde ad una assolutizzazione della politica, dove ogni affermazione della fede e della teologia viene subordinata ad un criterio politico. In sintonia con l’opposizione marxista della «filosofia della prassi» a quella «speculativa», i teologi della liberazione sono soliti sostituire l’ortoprassi all’ortodossia, con lo scopo di elevare il metodo rivoluzionario a criterio supremo della verità teologica. Di conseguenza, e non a caso, alla nozione di povero delle Sacre Scritture si è tentato (e si tenta ancora, anche se in maniera surrettizia) di sostituire quella marxista di proletario. Effettivamente, di primo acchito le due nozioni non si differenziano affatto, ma la miseria del proletariato viene comunque intesa dai marxisti come una vera forza rivoluzionaria capace di creare una nuova società dopo averne distrutta un’altra, adoperando in questo contesto finalità e metodi assolutamente distanti e contrastanti dal pensiero di Cristo. La vagheggiata «Chiesa del Popolo» altro non è che una «Chiesa di Classe», mentre, al contrario, la Chiesa è di tutti, poiché tutti gli uomini, poveri e ricchi, sono «figli di un unico riscatto». La ragione di fondo che spinge ad una socializzazione della Chiesa sta nel fatto che il marxismo e certo Cattolicesimo sociale considerano ancora la Chiesa universale e la teologia tradizionale come espressione di un organismo sostanzialmente reazionario e oppressivo. E sulla base di questa considerazione le cosiddette teologie della «liberazione» sono solite formulare risposte, ovviamente sbagliate, ad un problema che a tutti gli effetti è invece reale, cioè quello della povertà e dell’ingiustizia. Questione, quest’ultima, che, soprattutto in certe nazioni come quelle del Terzo Mondo, economicamente depresse o sfruttate da regimi militari (di Destra e di Sinistra) o da dittature capitaliste o comunque fondanti su quei concetti di modernità e produttività riferibili sia al liberismo che allo stesso marxismo, appare dolorosamente reale. D’altro canto, laddove i Valori dello spiritualismo cristiano hanno ceduto il passo a quelli dello storicismo e del materialismo l’uomo ha cessato di fatto di essere persona ed unico irripetibile imboccando, in cambio di una ciotola di riso o di una bicicletta, il tunnel dell’incertezza esistenziale. Allo stesso modo in cui un benestante cittadino europeo è solito barattare per un «cellulare» alla moda i profondi ed eterni valori di Dovere, di Diritto, di Amore e di Sacro legati alla cultura ebraico-cristiana e al Trascendente. Ciò che i marxisti e i Cattolici della «liberazione» non sembrano comprendere è che il Cristianesimo non ha nulla da imparare da alcuno o da chicchessia, se non dal Verbo. E questo vale anche sotto il profilo della condotta sociale. I Cristiani possono infatti contare su una propria, completa e soddisfacente «dottrina sociale» convalidata da un’esperienza secolare, a cominciare da San Tommaso, passando poi per la Rerum Novarum e le varie encicliche. Purtroppo, le Sacre Scritture vengono lette spesso con superficialità e soprattutto con l’erronea mentalità del «proprio tempo» e attraverso categorie interpretative della «propria epoca», per cercarvi una soluzione ad uno dei tanti drammatici problemi del momento. Ma ciò viene fatto troppo di frequente per scopi puramente politici, cioè terreni. Storicizzando totalmente la portata del messaggio cristiano, molti tendono infatti ad eliminare dal Vangelo qualsiasi autenticità ed eternità. La parola di Dio, in realtà, si rivolge agli uomini di ogni epoca e contesto sociale. Cristo, come sosteneva Kierkegaard, è il «contemporaneo di ogni epoca» in quanto non coincide con nessuna epoca. Tentare di rendere «contemporaneo» il Vangelo, cercare di storicizzarlo a tutti i costi, non significa santificarlo, ma al contrario attualizzarlo ed annullarlo. Senza considerare che Gesù, nelle sue predicazioni, non ha mai inteso distruggere o sovvertire alcun sistema sociale. Egli proclamò la sua fedeltà alla Legge di Dio che non voleva certo abolire, ma al contrario completare ed osservare (lo testimoniano gli scritti di Matteo e Luca). Il non ben compreso episodio del «tributo» e la snobbata (poiché non politicamente corretta) parabola dei «talenti» forniscono l’immagine di un Cristo egualmente lontano sia dai «collaborazionisti» Sadducei e dagli «ambigui» Farisei che dai «rivoluzionari» Zeloti. Anche se in più occasioni Gesù lancia pesanti strali contro l’iniquità dell’ingiustizia sociale («Guai ai ricchi…»). Ma pur tuttavia questa sua condanna non viene compiuta da un punto di vista sociale, ma religioso in quanto Egli non pensa affatto ad una rivoluzione sociale e quindi «storica», bensì interiore, anche se da essa si auspicano positive conseguenze sociali. Come insegnano le Scritture, Cristo non è venuto sulla terra per sconvolgere un determinato ordinamento politico-sociale; Egli vi è giunto – gesto unico e metafisico – per redimere i peccatori e liberare l’uomo dalle catene del male. Ciò che Gesù condanna non è un ordine socio-politico come quello imperiale romano, ma «l’attaccamento ai beni di questo mondo». In quest’ottica, il Cristianesimo è una vera rivoluzione, epocale, ma soltanto nel senso che allontana i cuori degli uomini dal mondo, cioè dalla materia, per chiamarli a Dio. E in questo senso, forse, trattasi più di una Conversione che di una Rivoluzione. Gesù, infatti, raccomanda agli uomini la fede nella Provvidenza e li esorta ad accontentarsi del minimo indispensabile. Egli ammonisce – è vero – i ricchi ed esalta i poveri, in spirito. Ma attenzione, i poveri evangelici non sono affatto i «non ricchi» desiderosi di diventarlo. Non si tratta quindi di poveri in senso sociologico, ma in senso religioso. Si tratta di coloro i quali hanno scelto liberamente la povertà in maniera solare, come San Francesco. La povertà annunciata da Gesù è sempre gioiosa e volontaria e agli uomini illuminati che l’hanno scelta la lotta di classe non si addice affatto.

In questo contesto, in Cristo si colgono alcune anticipazioni pre-cristiane socratiche e platoniche. Ma anche a tal riguardo gli equivoci da parte dei teorici marxisti non mancano. Essi hanno intravisto infatti in alcuni testi contenuti nella Repubblica di Platone una traccia di comunismo, dimenticando che l’eguaglianza marxista ha uno scopo prettamente economico, mentre quella platonica si fonda, similmente a quella evangelica, alla rinuncia spontanea ai beni terreni. Trattasi di una prescrizione per saggi o per uomini spiritualmente superiori alla media, cioè migliori nella loro singolarità. In altre parole, l’eguaglianza platonica non ha alcun fondamento materialistico, bensì spiritualistico e morale. Il filosofo greco, ispiratore, per certi versi, della teologia cristiana, guarda in sostanza alle Idee, mentre i marxisti, ma anche i capitalisti, i globalizzatori e gli antiglobalizzatori guardano soltanto alla Terra. Osservare il Cielo è diventata un’inutile fatica o meglio una possibilità come tante altre. E ciò che più incuriosisce è che a sostenere questa tesi sono i Cattolici progressisti più degli stessi marxisti che, in quanto atei, sono in qualche modo giustificati ad assumere questa posizione.

Ma torniamo a Gesù. Egli, è vero, amò frequentare i poveri e gli emarginati, ma anche i ricchi, i gabellieri e i soldati. E quando Maria di Betania, colta nell’ungere i capelli di Cristo con olio prezioso, venne accusata da un gruppo di seguaci di avere sperperato «trecento denari» che si sarebbero potuti donare ai poveri, Gesù così rispose: «I poveri li avrete sempre, me, invece, non mi avrete sempre» (Matteo, Marco, Giovanni).

Insomma, trovare identità di vedute tra il Vangelo, il dogma marxista o l’escamotage cattolico-sociale appare impresa ardua. Basti pensare al concetto di «amore per i nemici», presente in tutti i Vangeli. Ben difficilmente tale sovrumano concetto potrebbe accordarsi a quello di lotta di classe (professato apertamente anche da taluni preti del «dissenso»), ma anche di liberalismo economico. Teorie queste ultime che come è ovvio si basano su un sottinteso concetto di «supremazia» che non ha nulla a che vedere con la parola di Cristo. L’inconciliabilità appare indiscutibile, sia sul piano dottrinale che pratico. Ritornando alla inesatta interpretazione del Vangelo compiuta dai marxisti ricordiamo che le Sacre Scritture vanno sempre assunte in toto e sine glossa; cioè non vanno interpretate attraverso la lente deformante del contingentismo storico. Interpretare il Cristianesimo come una sorta di semplice messaggio sociale e rivoluzionario risulta infatti un puro e semplice non senso, anche perché il Cristianesimo, sic et simpliciter, non si interpreta. Esso non è un credo sociale o antisociale, non fa riferimento ad un semplice condottiero o sindacalista, ma addirittura ad un Redentore. L’idolatria del sociale si rivela, in ultima analisi, come una conseguenza del travisamento della figura del Cristo, della sua riduzione sociologica, dimenticando che Gesù considerò sempre il potere politico alla stregua di una tentazione diabolica (Matteo e Luca). Al Messia interessa, insomma, la Rivoluzione Interiore, ossia la Conversione. Egli propugna una salvezza escatologica. Ed è soltanto questo carattere di genuina, innovativa Rivoluzione Interiore che interessa il singolo nella sua unicità che potrà in futuro preservare il Cristianesimo dalla fallimentare sorte toccata ad ogni rivoluzione sociale: quella di degenerare inevitabilmente nella violenta repressione e nell’inganno, suscitando reazioni altrettanto violente e portatrici di altrettanto falsi valori. «Ogni rivoluzione – scrisse Camus – per essere creatrice non può fare a meno di una norma morale e metafisica che ne equilibri il delirio storico».

Nell’ambito di questa breve analisi, un altro punto risulta fondamentale. L’atteggiamento del Cristianesimo nei confronti dell’impegno socio-politico è necessariamente critico in quanto Gesù non accetta la società, ma non la condanna neppure («Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio»). Mentre, al contrario, l’accettazione totale della politica e dell’ideologia rientra in una prassi acritica. Ma come si è accennato non sono le dispute terrene ad interessare a Gesù il cui compito è quello di aprire la strada ad un regno futuro, metafisico. E d’altra parte agli occhi del Salvatore tutte le istituzioni mondane sono per loro natura intrinseca provvisorie e caduche e non suscettibili di fondamentali miglioramenti, anche perché sostituibili con altre istituzioni egualmente negative e provvisorie. Tentare quindi di ridurre il Vangelo ad un semplice messaggio sociale significa distorcerne il suo significato più profondo e interpretarlo attraverso un sistema di categorie anticristiane. La Chiesa non può quindi essere marxista ma nemmeno capitalista, poiché entrambi questi sistemi storici non sono stati capaci di assicurare a tutti gli uomini i diritti fondamentali professati da Cristo. Ma l’Occidente sembra essersi fatto sordo alla Parola del Salvatore: non a caso la deforma, la adultera, la scompone, la tradisce, ne fa «oro per gli sciocchi», secolarizzandone il contenuto. «In seguito alla morte di Dio, tutti i falsi profeti si considerano eredi di Dio». Di qui le nuove, fragili escatologie proiettate in un futuro esclusivamente mondano; di qui i nuovi Paradisi Terrestri Sociali e le Mode antiglobalizzatrici, frutto anch’esse della storicizzazione radicale del Cristianesimo; di qui la corsa folle verso l’Utopia della Tecnologia e del Profitto, nell’illusione collettiva di avere imboccato una facile scorciatoia in nome di una sorta di «antropocentrismo miscredente, ma illuminato», utile forse a tutelare gli investimenti, i salari, le pensioni, i derelitti e i panda cinesi, ma a mantenere comunque l’uomo nella sua permanente e sostanziale incertezza esistenziale. E probabilmente – almeno per chi ha fede – nel peccato.


Bibliografia

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(anno 2003)

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