I Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina e gli Ebrei perseguitati nel 1943-1944
La resistenza negli anni dell’occupazione tedesca di Roma

Nei mesi dell’occupazione tedesca di Roma (1943-1944) si riuscì ad attivare una rete di protezione degli Ebrei perseguitati e di altre persone ricercate dai nazi-fascisti. Su questo fatto gli storici hanno potuto ricostruire varie dinamiche. Inoltre, più Istituzioni scientifiche (USC Shoah Foundation, CDEC di Milano, Dipartimento Cultura della CER di Roma…) hanno promosso molteplici interviste per conservare la memoria delle violenze, dei rastrellamenti, degli eccidi e delle deportazioni. Oggi, i testimoni romani di un tempo sono deceduti. Questo, però, non deve essere un motivo per abbandonare un impegno chiave: quello di trasmettere il ricordo delle tragedie e di consegnare alle nuove generazioni un messaggio di pace e di fraternità.


1930 e successivi: i Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina

Tra coloro che maggiormente s’impegnarono a nascondere Ebrei in fuga si collocano i frati che operavano nell’ospedale dei Fatebenefratelli di Roma, sull’Isola Tiberina. Nel 1943 i professi (avevano emesso i voti) erano 33. Di questi, otto erano stranieri: due Polacchi, due Spagnoli, un Irlandese, un Austriaco, un Bavarese, un Portoghese. C’erano poi cinque novizi e sei postulanti.

Comunità Fatebenefratelli

Comunità tiberina dei Fatebenefratelli, 2 febbraio 1944, Roma (Italia)

Con riferimento a questo nosocomio possono essere utili alcuni cenni storici. Nel 1930 il superiore generale, lo Spagnolo Fra Faustino Calvo, ricevette aiuti dalle province dell’Ordine per ristrutturare il nosocomio. Lasciò immutate, per il valore storico, solo la chiesa e la sala Assunta. Il rimanente venne ricostruito. Gli spazi aumentarono grazie all’acquisto e alla demolizione dei modesti edifici adiacenti.

In tale iniziativa Fra Calvo ricevette il sostegno di Pio XI (Papa Ratti). Questi, nell’udienza del 24 maggio 1930 si complimentò per la decisione di dare un volto nuovo all’ospedale Tiberino. Auspicò inoltre che divenisse un modello d’avanguardia per tutto l’Ordine unendo tra loro «carità antica e mezzi modernissimi». Dopo quattro anni di lavori, seguiti dal priore Fra Leonardo Ilundáin Sagüés e dal provinciale Fra Camillo Viglione, il nuovo ospedale venne inaugurato il 3 aprile 1934.

Dopo i lavori, i posti letto erano saliti a 350: parte in corsie, di cui la sola vasta era la sala Assunta con 41 letti di medicina (divisa a metà da una vetrata), e parte in camere per solventi. L’ospedale disponeva inoltre dei servizi di radiologia e di pronto soccorso, di diversi ambulatori e di una Scuola per Infermieri, autorizzata appositamente dal Governo per i religiosi, perché in quel tempo in Italia tali centri didattici accettavano solo donne.

Le strutture rispettavano i migliori standard. Si cercavano adesso dei professionisti validi, capaci di utilizzarle al meglio. A priore della Comunità dell’Isola era stato eletto dal capitolo generale Fra Faustino Giulini. Questi si affrettò a completare l’organico.

Nella prima riunione con i frati della Comunità (27 aprile 1934), Fra Giulini comunicò i risultati di un concorso per primario medico. In tale occasione venne approvata la nomina del dottor Giovanni Borromeo. Da questo momento ebbe inizio una feconda intesa operativa tra il sanitario e i membri dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio.


1934 e successivi: il contributo dei laici. Borromeo

Giovanni Borromeo

Il dottor Giovanni Borromeo

Il dottor Giovanni Borromeo[1], nato a Roma il 15 dicembre 1898, proveniva da una famiglia profondamente cattolica. Il nonno Ercole (medico), nato nel 1854, si era arruolato volontario tra le truppe del Generale Nicolas Oudinot per liberare Roma nel 1849, così da consentire al Papa di far ritorno nell’Urbe.

Il padre Pietro era medico (nato nel 1869), fu eletto deputato in Parlamento nelle file del Partito Popolare Italiano (fondato da Don Luigi Sturzo e altri nel 1919). Giovanni s’iscrisse nel 1916 a medicina. Però, già nel mese di dicembre, dovette raggiungere il fronte. Fu decorato con medaglia di bronzo al valor militare. Nel 1922 si laureò con il massimo dei voti. A Roma iniziò il suo cursus professionale negli «Ospedali Riuniti». Arrivò presto a ricoprire il ruolo di «aiuto». Vinse nel 1931 il concorso per «primario». Per accedere a tale livello era obbligatoria l’iscrizione al Partito Nazionale Fascista. Egli preferì rimanere «aiuto». Sperando in seguito in una maggiore tolleranza, Giovanni, nel 1934, si presentò di nuovo al concorso. Lo vinse. Ma nuovamente gli venne chiesto il possesso della tessera del Partito Fascista. E lui rinunciò.

Decise allora di partecipare al concorso bandito il 18 marzo 1934 dall’ospedale dei Fatebenefratelli per il posto di «primario medico», lasciato libero dal dottor Giuseppe Proli. Nella riunione dei frati del 10 giugno 1934, fu discusso su chi scegliere come «aiuto» del dottor Borromeo. Ci si orientò alla fine per il dottor Marco Marini. Si legge al riguardo nel verbale che i suoi «titoli sono stati esaminati dal nostro Direttore Sanitario dottor Alfredo Ramoni e dal dottor Borromeo, i quali hanno dato parere favorevole». Borromeo sostenne attivamente il completamento delle attrezzature del nosocomio.[2] E si distinse per le capacità diagnostiche. Attestò al riguardo il professor Filippo Rocchi che, in situazioni incerte, il primario non cessava di studiare il caso clinico fino a quando arrivava a conclusioni basate su prolungate indagini.


1936 e successivi: la figura di Fra Maurizio Bialek

Maurizio Bialek

Fra Maurizio Bialek in una fotografia del 1947

Oltre i superiori che operarono attivamente nell’ospedale dell’Isola Tiberina, ci fu anche un non debole numero di frati che ricoprivano più ruoli: cappellani, medici, infermieri, farmacisti, operatori di supporto a diverso livello. Tra queste persone, occorre ricordare la figura di un giovane polacco. Si tratta di Fra Maurizio Bialek, responsabile dell’ufficio economato.

Nato in Polonia il 27 settembre 1912 (frazione Zajaczkow, municipio di Mniszków, provincia di Łódź), emise i voti semplici il 24 settembre 1931. Arrivò a Roma il 3 gennaio 1936. Nell’Urbe, professò i voti solenni il 29 settembre 1936. Rimase nella Comunità Tiberina fino al 6 luglio 1959. Fu poi trasferito alla sede di Napoli.[3] Ottenne anche la cittadinanza italiana (14 febbraio 1957). Morì a Roma il 20 novembre 2009. Quando Bialek si inserì nella Comunità dell’Urbe dimostrò di essere una persona dinamica. Pronta al sorriso. Facile all’ironia. Parlava perfettamente l’italiano. La sintonia con i frati fu immediata. I suoi interventi erano ascoltati e riuscivano a influire sulle decisioni della Comunità.

Per comprendere ciò, va precisato un punto. In quel momento non era presente un priore effettivo. Infatti, Fra Faustino Giulini, alla fine del 1936, era stato trasferito come superiore alla Farmacia Vaticana. A quel punto, il superiore generale, Fra Narciso Durchschein, di origine tedesca (Baviera), aveva preferito – fino alla convocazione del nuovo capitolo generale – non nominare un priore. E si era assegnato tale titolo in modo formale, come risulta dai verbali di Comunità. La gestione pratica dell’ospedale rimaneva affidata a un frate vicario. Per tale compito scelse il suo consigliere Fra Leonardo Ilundáin Sagüés. Questi, era una persona mite. Interagì molto bene con Fra Maurizio Bialek.


1936. La guerra civile spagnola

Dal luglio del 1936 all’aprile del 1939 la Spagna fu devastata da una guerra civile che vide contrapposti tra loro due fronti. Da una parte c’erano i nazionalisti («nacionales»), autori di un colpo di Stato ai danni della Repubblica. Dall’altra, combattevano i repubblicani («republicanos»), composti da truppe fedeli al Governo in carica, guidato dal Fronte Popolare di ispirazione marxista. Durante tale conflitto, la parte più anarchica del Fronte Popolare attivò delle durissime persecuzioni contro i Cattolici, uccidendo membri della gerarchia ecclesiastica, esponenti del clero, religiosi e laici (migliaia di morti). Tale vicenda spiega perché diversi consacrati cercarono rifugio in Italia, spingendosi fino a Roma. Tra questi perseguitati ci fu chi trovò accoglienza anche nell’ospedale dei Fatebenefratelli all’Isola Tiberina.[4]


1938 e successivi: le leggi razziali in Italia

In Italia, negli ospedali (e in tutta la pubblica amministrazione) il personale aveva l’obbligo di essere iscritto al Partito Nazionale Fascista. Nel complesso tiberino dei Fatebenefratelli la situazione fu diversa. Il nosocomio, per norma concordataria, era considerato una struttura privata, non sottoposta a vincoli pubblici o statali. Da qui, una relativa tolleranza delle autorità fasciste. Inoltre, i frati non sostenevano le dottrine fasciste e naziste. Grazie a tale situazione, il dottor Borromeo (cattolico liberale) e i suoi colleghi furono liberi di esprimere le proprie convinzioni, le idee politiche. Potevano così far conoscere critiche alle stesse normative in vigore. In particolare, Borromeo (e il personale del nosocomio) considerava assurde le leggi razziali del 1938.


1941 e successivi: il medico ebreo Vittorio Sacerdoti

Nel 1941, a seguito di contatti intercorsi tra Borromeo e il suo ex professore ebreo Marco Almagià[5] (Università «La Sapienza» di Roma), un giovane medico ebreo, il dottor Vittorio Sacerdoti[6], raggiunse il complesso tiberino dei Fatebenefratelli. Era stato espulso dall’ospedale civile di Ancona.[7] Il nuovo arrivato chiese di poter restare, disposto a espletare compiti anche generici. Borromeo, al contrario, diede ordine di dargli subito un camice da medico. Sacerdoti si occupò pure degli esami radiologici e del laboratorio analisi (che allora era al secondo piano). Gli fu poi consegnato un documento di identità falso. Il suo nuovo nome era: «Vittorio Salviucci».


10 settembre 1943 e successivi: l’occupazione tedesca di Roma

Dopo il cosiddetto armistizio (resa senza condizioni) tra il Regno del Sud e gli Alleati (8 settembre 1943), i Tedeschi invasero l’Italia occupando i centri strategici. Il 10 settembre 1943, la zona Sud di Roma divenne teatro di uno degli episodi più drammatici della Resistenza: la battaglia di Porta San Paolo. Le forze dei resistenti non riuscirono a fermare l’attacco di due divisioni tedesche. L’Urbe fu occupata (dal 10 settembre 1943 al 4 giugno 1944) dalle formazioni del III Reich, favorite dalla carenza di precise direttive militari da parte dei comandi italiani. In questo periodo i frati dei Fatebenefratelli svolsero un ruolo importante di accoglienza e sostegno. Dopo gli scontri militari a Monterosi, Bracciano, Manziana e nell’area Sud di Roma, diversi feriti (in condizioni gravissime) vennero trasportati al pronto soccorso dei Fatebenefratelli. Nel frattempo, alcuni Ebrei chiesero aiuto ai frati dell’Isola. Ciò si trova attestato anche da uno studio del diacono olandese Dominiek Oversteyns. In pratica, già prima del 16 ottobre 1943 furono presenti nell’ospedale dei Fatebenefratelli di Roma circa 8 Ebrei (7 Romani + 1 straniero).[8]


La protezione dei perseguitati

In quel tragico periodo, nell’ospedale sull’Isola Tiberina trovarono rifugio, oltre agli Ebrei, anche molti antifascisti, e perfino sbandati polacchi e russi. Pietro Scarabotti, addetto alla manutenzione dell’edificio, suggerì ai frati dei possibili nascondigli. Tra questi, uno dei più capienti si trovava sotto la botola d’accesso alle fognature. Il passaggio si trovava nel pavimento della stanza riservata ai malati infettivi (quattro letti), posta dietro l’altare della sala Assunta. La botola venne nascosta con un tappeto. A date ore, su istruzione del loro maestro, Fra Clemente Petrillo, alcuni aspiranti la sollevavano per consegnare il vitto alle persone nascoste. Ricordava Fra Fabiano, presente in quel periodo all’Isola come aspirante, che più volte la sorella dell’attore Aldo Fabrizi (la «sora Lella») portava pentoloni di pasta o di minestra per i perseguitati.

Altre persone ottennero rifugio nel nosocomio. Furono ricoverate dal dottor Borromeo con false diagnosi e generalità nelle camere per solventi. La loro cartella non era mai lasciata in giro.


Il rastrellamento del 16 ottobre 1943

A inizio mattina del 16 ottobre 1943 ebbe inizio a Roma una razzia di Ebrei decisa (e duramente sollecitata) da Berlino. Per favorire tale manovra, 1.500 carabinieri erano stati in precedenza deportati in Germania (7 ottobre 1943). Inoltre, i Tedeschi furono avvantaggiati dall’assenza di azioni partigiane[9] e dal precedente silenzio imposto sull’intera operazione. I nazisti, comunque, non furono i soli a tacere sul progetto in preparazione. Anche gli Alleati, decrittando i messaggi dei nemici, erano pienamente informati sulla prossima operazione ma decisero di mantenere una totale linea di silenzio per non far sapere ai loro avversari che potevano seguire ogni mossa del nemico.

In seguito, più testimoni del tempo, hanno riferito sulla terribile vicenda (Settimia Spizzichino, Enza Pignatelli, Vittorio Sacerdoti, Adriano Ossicini[10], Mario Mieli, Enzo Camerino, Ester Moresco, Lello Di Segni e altri). I loro racconti sono stati tutti pubblicati.

Sfuggendo all’accerchiamento dei militari, vari Ebrei dall’area dell’antico Ghetto riuscirono comunque a salvarsi, anche con l’aiuto di cittadini presenti in quelle ore. Oltrepassato il ponte, si diressero correndo verso l’ospedale dei Fatebenefratelli sapendo di trovare il medico ebreo Sacerdoti, che già conoscevano. Furono subito nascosti con il decisivo intervento dei frati, e di Fra Maurizio Bialek in particolare. Mentre il rastrellamento proseguiva, il responsabile della Comunità religiosa avvisò il Cardinale protettore dell’Ordine, Francesco Marchetti Selvaggiani.[11] Questi era anche il Vicario del Pontefice nella diocesi di Roma.

Il presule parlò con Pio XII (che approvò e sostenne le azioni umanitarie) e con i suoi più diretti collaboratori (specie Monsignor Luigi Traglia[12]). Furono attivati contatti con organismi religiosi e di assistenza, e con singoli fiduciari (ad esempio, il nipote del Pontefice) per azioni da svolgere in modo discreto.

Mentre sul piano ufficiale, il Segretario di Stato Vaticano, Cardinale Luigi Maglione[13], interagiva con l’Ambasciatore Tedesco presso la Santa Sede (Ernst Heinrich von Weizsäcker[14]), a livello ufficioso si attivava un’iniziativa. Dopo una riunione tra Pio XII, Monsignor Montini e l’avvocato Carlo Pacelli[15], fu preparato il testo di una lettera in tedesco per il comandante militare di Roma, Generale Reiner Stahel.[16] Si chiedeva di fermare la razzia per motivi strategici, così da non obbligare il Papa a una pubblica condanna.

Carlo Pacelli consegnò la missiva al Vescovo Austriaco Alois Hudal.[17] Il documento, infatti, doveva apparire come un’iniziativa di quest’ultimo. Hudal firmò. In seguito, Padre Pancrazio Pfeiffer[18] consegnò la missiva a Stahel.[19] Questi riuscì a stabilire un contatto telefonico con il capo delle SS, Heinrich Himmler.[20] Lo convinse, con argomenti di strategia militare, a fermare i rastrellamenti.[21] Con l’ordine di Himmler cessò l’operazione tedesca a Roma. In tal modo, chi non era stato ancora raggiunto dai militari, poté sfuggire alla cattura e fu salvo.[22]


L’interazione con il capitano delle SS Dannecker

Cominciò, a questo punto, un’interazione con il fiduciario di Hitler, il capitano Theodor Dannecker.[23] Si tentò di far liberare gli Ebrei rinchiusi nel collegio militare di Via della Lungara. Questo ufficiale, però, non rispondeva né al Generale Albert Kesserling[24], né a Stahel, né al Tenente Colonnello Herbert Kappler[25], né a Eugen Dollmann[26], né a Rudolf Rahn.[27] Dipendeva infatti dall’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich.[28] Esisteva poi un’altra realtà. Il Pontefice, come documentato da più ricerche, aveva intorno (proprio all’interno dell’area vaticana) una rete di spionaggio tedesca[29] e fascista (OVRA).[30] Spie erano presenti tra i tecnici della Radio (per bloccare eventuali denunce del Papa), nella redazione dell’«Osservatore Romano» (per distruggere copie con articoli ostili ai regimi del tempo). La posta era controllata (anche quella trasmessa con valigia diplomatica). Da Forte Bravetta si ascoltavano le comunicazioni della Santa Sede. Inoltre, tutti gli accessi che conducevano ai Palazzi Vaticani erano controllati da Tedeschi armati (oltre le postazioni militari dislocate a Piazza San Pietro), e servivano autorizzazioni dell’occupante per accedere all’area vaticana[31].

Si riuscirono comunque a liberare (malgrado la normativa tedesca di guerra) le coppie miste, e i figli di coppie miste. Altri Ebrei, con affermazioni non veritiere, riuscirono poi a superare i controlli e a salvarsi. Ma più di 1.000 internati rimasero nel collegio militare di Via della Lungara. Fino alla Stazione Ostiense, binario 1, si tentò di salvare ancora qualche Ebreo.[32]

In tale contesto si deve evidenziare un ulteriore dato. Nel periodo successivo al 16 ottobre proseguirono a Roma gli arresti degli Ebrei. Ma stavolta le operazioni non furono basate su elenchi forniti ai Tedeschi ma sull’apporto offerto da Italiani, e soprattutto dai delatori. Per tale motivo si tende a ritenere che gli elenchi in mano ai Tedeschi furono probabilmente distrutti. In tal modo si ostacolò la «caccia all’Ebreo».[33]


La situazione nell’ospedale tiberino dei Fatebenefratelli

Nel contesto descritto l’ospedale tiberino dei Fatebenefratelli divenne un riferimento chiave per gli Ebrei in fuga. Oggi diversi studi hanno cercato di identificare le persone che vi trovarono protezione. E più nominativi sono stati individuati. Il loro numero non è stato comunque accertato in modo esatto perché vi furono dinamiche diverse. Qualcuno rimase pochi giorni dentro l’edificio. Altri, trovarono protezione per periodi più prolungati di tempo. Non mancarono poi i casi di chi volle uscire (soprattutto per la ricerca dei propri cari) e in seguito rientrò.

Per la professoressa Grazia Loparco[34] il numero dei protetti fu 46.[35] Per il medico Ossicini 61.[36] Per il ricercatore Oversteyns occorre calcolare anche gli Ebrei accolti prima del 16 ottobre 1943. Inoltre, sia per la studiosa Picciotto[37] che per Guiducci[38] esistono dei nominativi non inclusi nei totali. In tale contesto, in base alla testimonianza del medico Fra Timoteo Cambuli, tutti i suoi colleghi, specie i dottori Marini, Salvatore Casa, Tenaglia e Vittorio Sacerdoti, si mostrarono solidali con i frati e con il primario Borromeo. Quest’ultimo, comunque, per il suo comportamento umanitario, rischiava l’arresto. Così, Monsignor Montini, che in quel tempo era sostituto della Segreteria di Stato, per garantirgli una qualche protezione gli fece avere una tessera che lo qualificava guardia nobile pontificia.


1943. Irruzione tedesca nel nosocomio dei Fatebenefratelli

Dopo il 16 ottobre 1943 il nosocomio dell’Isola Tiberina fu uno dei luoghi considerati sospetti dai Tedeschi. Questi, avevano visto le fughe degli Ebrei verso l’ospedale. Per tale motivo venne alla fine decisa un’irruzione. A fine ottobre, un ragazzo corse in ospedale per avvertire i frati e il dottor Borromeo che stavano per arrivare due camion con i Tedeschi. Arrivò il primo veicolo. Il secondo, però, fece un ritardo di circa trenta minuti. Aveva sbagliato percorso. Tale fatto, consentì ai frati e al dottor Borromeo di organizzarsi. Il primario fece inserire i perseguitati in sala Assunta. In particolare, furono accolti nell’ambiente ove era posizionato un altare. Una grande vetrata separava tale zona dalla corsia che ospitava i letti di medicina uomini. Borromeo dette ai falsi degenti alcuni consigli.

Tutti dovevano rimanere in silenzio. Solo lui avrebbe parlato con i Tedeschi. I «malati» dovevano piuttosto tossire con frequenza in direzione dei militari. Ciò avrebbe creato nei soldati la paura per un contagio. Il caposala della sala Assunta, il Polacco Fra Giuseppe Kuras, chiese a Fra Silvestro Ghetti di spiegare le direttive del dottor Borromeo ai Polacchi sbandati.

Quando iniziò l’ispezione, il primario – in un corretto tedesco – descrisse al medico militare della Wehrmacht i casi clinici. Si arrivò poi ai falsi degenti. Borromeo spiegò che si trattava di soggetti colpiti da una patologia devastante. Tremendamente contagiosa. Anche nelle situazioni di non decesso, il paziente era segnato per sempre da gravi esiti: paralisi, demenza, cecità. In tale contesto, qualche finto malato rimase a guardare i Tedeschi con occhi che esprimevano terrore. Il primario chiarì che tale comportamento segnava nel soggetto l’inizio di una fase di istupidimento. I militari, ascoltando Borromeo, si trassero indietro. Anche il loro medico preferì non rimanere a lungo nel reparto.


Il morbo di K

La sala Assunta

La sala Assunta divisa da una vetrata; in fondo, dove si intravede un altare, ebbe luogo la vicenda del morbo di K

Il dottor Borromeo non dette un nome specifico alla malattia che si era inventato. Fu uno dei suoi aiuti, probabilmente il dottor Sacerdoti (persona umorista), a definire «morbo di K» la patologia descritta ai Tedeschi. Il «K» poteva essere interpretato in più modi: ad esempio, morbo di Koch (tubercolosi), morbo di Krebs (disturbo del metabolismo). Nell’ambiente dei Fatebenefratelli, però, «K» significava Kesserling o Kappler (nazisti persecutori). Comunque tale espressione venne utilizzata per indicare non solo gli Ebrei in fuga, ma ogni ricercato dalle autorità del tempo. In tempi successivi, come racconterà in seguito il dottor Salvatore Casa ai figli, ci furono altre ispezioni militari, a opera di Italiani e di Tedeschi. Non vennero comunque riscontrate delle irregolarità.


Il contributo dei frati alla Resistenza

Mentre l’ospedale tiberino dei Fatebenefratelli rimaneva un rifugio per vari perseguitati, si verificò un altro fatto. Il nosocomio, grazie al consenso dei frati, fu pure luogo di incontri tra membri della Resistenza.[39] Nel laboratorio analisi si svolsero riunioni clandestine alle quali partecipò anche il Generale dell’Aeronautica Roberto Lordi[40], paziente del dottor Borromeo. In tale contesto, alcuni membri del Comitato di Liberazione Nazionale chiesero ai frati di installare una radio ricetrasmittente per attivare collegamenti con le forze alleate. Ottenuto il consenso, la radio venne posta nel Noviziato, cioè nell’unico ambiente dell’ospedale dove il personale non entrava mai. Fu collegata ai tubi dell’acqua calda che partivano dallo scantinato. Ciò dava maggiore potenza al segnale. L’iniziativa, molto pericolosa, venne seguita da Fra Maurizio Bialek. Con tale strumento si segnalavano alle forze alleate, e ai militari italiani rimasti fedeli alla Monarchia, anche i movimenti delle truppe avversarie e i nomi delle spie romane al servizio dei nazisti.[41]


I politici. L’avvocato Spataro e la comunità dei frati

Tra i politici che trovarono un provvisorio rifugio nel nosocomio tiberino dei Fatebenefratelli ci fu anche l’avvocato Giuseppe Spataro.[42] Nella sua stanza, oltre a incontrare membri del Comitato di Liberazione Nazionale, ebbe modo di scrivere articoli per il giornale clandestino «Il Popolo». Tale aspetto riveste importanza con riferimento al numero 3, del 10 marzo 1944, 182° giorno dell’occupazione nazifascista. Si tratta del terzo numero anomalo, comparendo nel palchetto di sinistra il motto «Pace/Giustizia/Libertà», poi – come negli altri due numeri anomali – non c’è la frase collocata normalmente sotto la testata «Una democrazia rappresentativa». Le quattro pagine che compongono il giornale misurano 27x39 centimetri. Nell’articolo posto in quarta pagina della rubrica «Fatti, notizie e commenti», viene contestata l’esistenza di una circolare della Chiesa volta a impedire l’ospitalità a estranei (quindi anche agli Ebrei) nei conventi. Si riporta il testo:

«È assolutamente falso che la Sacra Congregazione dei Religiosi abbia diramato una circolare per proibire ai conventi di dare ospitalità a estranei. Nessuna pubblicazione di tale ordine è apparsa negli organi ufficiali della Santa Sede né i superiori dei conventi hanno ricevuta alcuna comunicazione al riguardo».

Anche da ricerche svolte presso l’Archivio Storico del Vicariato di Roma non risultano direttive che obbligano a non accogliere stranieri (ed Ebrei). Si evince pertanto che, in un clima di incertezza e di voci incontrollate, sono state talvolta date per certe (e annotate) frasi di persone in ansia per la situazione legata all’occupazione tedesca e in allarme per possibili perquisizioni. Nelle memorie della chiesa parrocchiale di San Gioacchino (Roma), ad esempio, alla data del 2 novembre 1943, si legge: «arriva una grave notizia “domani avrà inizio la perquisizione di tutti gli istituti religiosi”…».[43]


Maggio 1944. Nuova irruzione tedesca

A fine maggio 1944 avvenne un fatto che avrebbe potuto avere delle conseguenze molto negative. Probabilmente, attraverso un radiogoniometro, i Tedeschi captarono le onde radio trasmesse dalla ricetrasmittente posizionata nel nosocomio tiberino dei Fatebenefratelli. Il fatto era grave perché costituiva un reato penale in tempo di guerra. I militari tedeschi fecero irruzione nell’ospedale e cominciarono la ricerca dell’apparecchio. I frati della Comunità vennero ristretti in un ambiente posto sotto il refettorio. Furono minacciati di morte. Dovevano dire dov’era la ricetrasmittente. Ma nessuno parlò.

Come raccontò Fra Bartolomeo Coladonato, i soldati salirono al primo piano. Qui c’era l’ufficio del priore, Fra Natale Paolini. Il responsabile della Comunità in quel momento non era presente. I Tedeschi incontrarono l’economo, Fra Maurizio Bialek, e chiesero del priore. Fra Maurizio si rese conto della situazione di pericolo. Rispose che avrebbe chiamato subito il priore. In realtà, come ricorda Fra Fabiano, diede istruzioni a Fra Clemente per far sparire la radio ricetrasmittente. Corse poi nell’area riservata ai frati, e nascose dietro a un quadro le carte compromettenti che aveva in camera.

Fatto ciò, sempre secondo la testimonianza di Fra Fabiano, il fidato Scarabotti sistemò Bialek (accovacciato) sul piccolo sgabello di Fra Alipio Filippini, in un modesto armadio a muro. Vi collocò poi un mobile per meglio celare il nascondiglio. Nel frattempo, Fra Clemente era riuscito a portare la radio sul terrazzo del Noviziato, che era molto vicino al fiume. Buttò i pezzi in acqua.

Da un articolo giornalistico del 2004 risulterebbe che uno dei soldati tedeschi posti di vedetta nei pressi dell’ospedale, notò i movimenti del frate che gettava nel Tevere i pezzi della radio. Però, come poi raccontò alla figlia Vera, questo Tedesco non lo segnalò. Forse tale comportamento è da addebitare all’ormai clima di disfatta diffuso tra le forze del III Reich.[44] Comunque, in un primo momento, i Tedeschi che giravano nel nosocomio furono insospettiti da alcuni fili volanti che notarono al pianterreno. Scarabotti spiegò che si trattava di una sua idea, molto artigianale, per trasmettere corrente a una piccola pompa che inviava l’acqua della fontanella del cortile ai piani alti, rimasti a secco per un guasto esistente nell’allaccio comunale. L’ispezione proseguì. Furono arrestati alcuni soldati polacchi, ma gli Ebrei non vennero riconosciuti.[45]


Dopo la Liberazione

Pochi giorni dopo ebbe fine l’occupazione tedesca di Roma. I perseguitati poterono uscire da tutti i luoghi ove si erano rifugiati. Malgrado l’ora di festa ci furono dei momenti di tensione. Fra Clemente raccontava con amarezza che si presentarono nel nosocomio dei facinorosi. Cercavano eventuali fascisti nascosti per processi sommari. A guidare il gruppo era proprio uno di quelli che era riuscito a salvarsi in precedenza grazie alla protezione dei frati. Cominciavano le violenze post belliche. Tra queste, una si verificò non lontano dall’Isola Tiberina. Si trattò del linciaggio del direttore del carcere di «Regina Coeli», dottor Donato Caretta (18 settembre 1944). Dopo pesanti sevizie, fu buttato alla fine nel Tevere. Venne finito con dei colpi di remo sul capo.


Alcuni riconoscimenti ai frati e a laici

Le azioni svolte dai frati dei Fatebenefratelli trovarono in seguito più attestati di riconoscenza. A Maurizio Bialek venne conferita nel 1946 la medaglia d’argento al valor militare.[46] Si riporta qui di seguito la motivazione:[47]

«Economo di un ospedale durante la dominazione tedesca in Roma, incurante dei gravi rischi cui continuamente si esponeva, si prodigava per assistere e occultare prigionieri di guerra alleati e patrioti, prodigando loro faticosamente e con entusiasmo tutto il necessario per la resistenza e il sabotaggio. Concedeva coraggiosamente il libero uso dell’ospedale per le riunioni del comando militare clandestino e per l’installazione di apparecchi radio-telegrafici. Sospettato, continuava imperterrito la sua pericolosa attività. Allorché l’ospedale fu circondato da numerose forze di polizia e sottoposto a perquisizione, con mirabile sangue freddo e tempestiva azione riusciva a salvare dalla cattura numerosi patrioti e occultare abilmente il preziosissimo materiale clandestino. Nobile esempio di patriottismo animato da alto senso di umanità e di dedizione assoluta alla causa della libertà».

Analoga medaglia ricevette pure il dottor Borromeo per l’impegno nel «curare partigiani, patrioti ed Ebrei ricercati dalla polizia nazifascista» e per «dare e far dare asilo, sostegno e conforto a tanti perseguitati».[48] Il Comune di Roma gli dedicò una strada a Monte Spaccato (area Gianicolense), mentre lo Stato di Israele lo proclamò «Giusto tra le Nazioni» (13 ottobre 2004). Il diploma corrispondente e la relativa medaglia d’oro furono consegnati il 2 marzo 2005 dall’Ambasciatore Israeliano Ehud Gol ai figli Pietro[49] e Beatrice[50] durante una cerimonia in sala Assunta.


Gli anni del dopoguerra

Nel 1946, quando furono rinnovate le cariche dell’Ordine, Fra Maurizio Bialek venne eletto priore dell’ospedale tiberino. Riconfermato poi in tale ruolo nel 1950. Unitamente a ciò, tra il 1946 e il 1959, risulta eletto nel consiglio provinciale e in quello generale. Ricevette pure il compito di economo generale. Nel 1949, il dottor Borromeo fu scelto come successore «ad interim» del direttore sanitario, che era ancora il dottor Ramoni. In seguito, nel capitolo conventuale del 21 dicembre 1951, la sua nomina divenne definitiva, con voto unanime, «per la sua rettitudine e attaccamento alla Casa». Questi suoi sentimenti vennero nuovamente evidenziati quando i frati festeggiarono i suoi 25 anni di primariato. Egli confidò di sentirsi «felice di avere speso con fraterna dedizione al servizio dell’ospedale i migliori anni della sua vita di medico», e rimarcò la sua devozione ai Fatebenefratelli «alla cui famiglia sentiva di appartenere per affetto e per lunga consuetudine di lavoro comune al sollievo degli infermi». Per tale vicinanza all’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio egli, considerato il fatto che nessuno dei suoi figli aveva studiato medicina, donò la sua biblioteca medica ai Fatebenefratelli.


Qualche annotazione di sintesi

Il 24 agosto del 1961, in una stanza del Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina, moriva il dottor Borromeo. Nel medesimo nosocomio, in ordine di tempo, avvenne il decesso: del caposala dell’Assunta, il polacco Fra Giuseppe Kuras (21 ottobre 1982), e della già citata «sora Lella» (1993), quella che portava da mangiare ai perseguitati. Nel 2019, nel reparto ortopedia, ha concluso la sua vita terrena l’antico partigiano Ossicini, divenuto poi medico psichiatra e senatore. Frati e note figure del mondo politico e sociale hanno voluto terminare il proprio percorso esistenziale proprio in quell’ospedale che li vide compiere azioni profondamente umanitarie. È bello sottolineare al riguardo che i figli hanno proseguito l’impegno sociale dei padri. Mi piace ricordare che attualmente la figlia di Ossicini, Cristina, è medico pediatra all’Isola. Mentre i protagonisti di un tempo riposano oggi in diversi cimiteri (la tomba di Maurizio Bialek è al Laurentino, Roma), altri fatti riconducono agli eventi del 1943-1944. Il 21 giugno del 2016 la Fondazione Internazionale «Raoul Wallenberg» ha riconosciuto che l’ospedale tiberino servì «come rifugio per persone innocenti, perseguitate dai nazisti». Tale frase è incisa in una targa posta sul muro esterno della sala Assunta, vicino al cortile delle tartarughe. Al momento della cerimonia, tra i presenti, c’erano pure due Ebrei sopravvissuti (all’epoca molto piccoli): Gabriele Sonnino e Luciana Tedesco.


Alcune indicazioni bibliografiche

Autori Vari, Roma, 16 ottobre 1943. Anatomia di una deportazione, Guerini e Associati, Milano 2006

G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Einaudi, Torino 2015

A. Foa, Portico d'Ottavia 13, Laterza, Roma-Bari 2013

P. L. Guiducci, Tutti gli Ebrei del Maresciallo Lucignano, in: «Avvenire», 15 maggio 2019

G. Magliozzi o.h., Morbo di K, una bugia da rischiarci la fucilazione!, in: «Archivo Hospitalario», numero 16, 2018, pagine 257-276

F. Tagliacozzo, Gli Ebrei Romani raccontano la «propria» Shoah, La Giuntina, Milano 2011, pagine 196 e 230.


Note

1 1898-1961. Confronta al riguardo il ricordo del figlio Pietro Borromeo: Il Giusto che inventò il morbo di K, Fermento, Roma 2007. L’avvocato Pietro Borromeo nacque nel 1937. Deceduto nel 2019..

2 Lo fece notare l’onorevole Egilberto Martire (1887-1952) nell’illustrare i lavori di rinnovamento dell’ospedale. Confronta E. Martire, pagina 91.

3 Fu attivo a Napoli fino al 12 luglio 1961, data in cui lasciò l’Ordine, avendo ottenuto dalla Santa Sede il rescritto di secolarizzazione numero 871/61 del 30 giugno 1961.

4 Confronta V. Cárcel Ortí, Obispos y Sacerdotes prófugos en Roma durante la guerra civil, confronta il sito: https://www.colegioespanol.org/images/formacion/vicentecarcel/9.pdf. Pagine: 20, 85, 87, 93, 96, 97, 107, 127.

5 Fisiopatologo.

6 Sacerdoti nacque a Roma il 22 luglio del 1915 (la famiglia viveva comunque ad Ancona). Morì il 3 agosto 2005.

7 Assisteva il primario di chirurgia professor Giulio Bombi. Quest’ultimo, ad Ancona, dopo l’armistizio, sostenne la Resistenza. Con autoambulanze della croce gialla fece arrivare in montagna armi abbandonate per rifornire i partigiani. Confronta: R. Bislani, Pillole di storia fidardense. In: sito istituzionale del Comune di Castelfidardo.

8 http://www.papapioxii.it/approfondimenti/lopera-a-favore-degli-Ebrei-di-roma/.

9 L. Picciotto, Salvarsi, Einaudi, Roma 2017, pagina 500.

10 1920-2019. Studente in medicina, fece pratica nel nosocomio tiberino dei Fatebenefratelli (il padre di Ossicini, per ragioni politiche e religiose, era amico del padre del dottor Borromeo). Il 18 maggio 1943, per la sua opposizione al regime fascista, fu arrestato dopo una retata e finì in carcere. Si riuscì comunque a liberarlo. Sull’esperienza realizzata all’Isola Tiberina Adriano Ossicini scrisse nel 1999 il libro: Un’isola sul Tevere. Il fascismo al di là del ponte, Editori Riuniti, Roma (uscite nuove edizioni).

11 1871-1951.

12 1895-1977. Divenne in seguito Cardinale. Fu vicino a Don Giuseppe Morosini prima della sua fucilazione a Forte Bravetta.

13 1877-1944. Fu aiutato da due sostituti: Monsignor Domenico Tardini (1888-1961; affari straordinari) e Monsignor Giovanni Battista Montini (1897-1978; affari ordinari; futuro Paolo VI nel 1963).

14 1882-1951. Mantenne un comportamento equivoco.

15 1903-1970. Nipote di Pio XII.

16 1892-1955. Fu compagno di studi di Pancrazio Pfeiffer.

17 1885-1963. Austriaco. Rettore della chiesa di Santa Maria dell’Anima.

18 1872-1945. Tedesco. Superiore generale della Società del Divin Salvatore.

19 Episodio descritto nella «Positio» riguardante la causa di beatificazione del venerabile Eugenio Pacelli. Archivio Postulazione Padri Gesuiti.

20 1900-1945. Morì suicida.

21 Questa e altre conversazioni erano ascoltate dagli Alleati che le trascrivevano.

22 Stahel in seguito fu punito duramente per tale iniziativa. Venne assegnato a Vilnius e in altre località. Non fece più ritorno.

23 1913-1945. Oltre a quello di Roma, si occupò di altri durissimi rastrellamenti. Morì suicida. In merito alla trattativa sono stati ritrovati sul tavolo di Padre Pancrazio Pfeiffer (dopo la sua morte) alcuni appunti. Su questo punto si rimanda a: P. van Meijl, Pater Pancratius Pfeiffer SDS und sein Einsatz für die Juden während der Deutschen Besatzung in Rom (1943-1944). (Hrsg.: Österreichische Provinz der Salvatorianer, Wien). Wien, 2007, 154 S.

24 1885-1960. Feldmaresciallo. Dall'estate 1943, e soprattutto dopo l'8 settembre 1943, assunse il comando supremo di tutte le forze tedesche in Italia.

25 1907-1978. Comandante dei servizi di polizia e di sicurezza tedeschi. Arrestato da militari inglesi a fine guerra. Processato a Roma. Condannato all’ergastolo. Nel 1976 gli fu diagnosticato un tumore al colon. Trasferito a Roma all’ospedale militare del Celio. Il 15 agosto 1977, grazie a varie complicità, fuggì in Germania. Morì il 9 febbraio 1978.

26 1900-1985. Tra il 1938 e il 1944 Dollmann divenne un punto di riferimento per i rapporti tra i Tedeschi e i dirigenti fascisti.

27 1900-1975. Plenipotenziario del III Reich e Ambasciatore presso il Governo della Repubblica Sociale Italiana.

28 Il responsabile era Ernst Kaltenbrunner (1903-1946).

29 D. Alvarez-R. A. Graham, Spie naziste contro il Vaticano 1939-1945, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005.

30 Confronta anche: G. Mecucci, Le spie fasciste in Vaticano, in: «L’Unità», martedì 4 agosto 1998, pagina 2, rubrica «Cultura».

31 Confronta anche: P. L. Guiducci, Il Terzo Reich contro Pio XII. Papa Pacelli nei documenti nazisti, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013, pagina 127 e seguenti.

32 P. L. Guiducci, Il Terzo Reich contro Pio XII, pagina 244.

33 A. Foa, Portico d'Ottavia numero 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del '43, Laterza, Roma-Bari 2013.

34 Suora salesiana. Storica. Docente universitaria. Pontificia Facoltà di Scienze dell'Educazione «Auxilium» di Roma.

35 Confronta Appendice II, documento numero 22 in: G. Loparco, Gli Ebrei negli istituti religiosi a Roma (1943-1944). Dall’arrivo alla partenza, in: «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», numero 1, 2004, pagine 107-210.

36 A. Ossicini, Un’isola sul Tevere. Confronta l’allegato.

37 Liliana Picciotto. Ricercatrice del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Milano). Confronta il suo libro: Salvarsi (Einaudi, Torino 2017).

38 Pier Luigi Guiducci (nato a Roma nel 1951). Docente di Storia della Chiesa presso la Pontificia Università Lateranense. Lezioni di Storia della Chiesa. Epoca contemporanea.

39 A Roma era operativo un Comitato di Liberazione Nazionale.

40 1894-1944. Arrestato alla fine da Kappler, venne rinchiuso a Via Tasso. Fu poi eliminato alle Cave Ardeatine nel 1944.

41 Sulla collaborazione con Radio Bari confronta M. Francini, pagina 253.

42 1897-1979. Delegato della Democrazia Cristiana presso la giunta militare del Comitato di Liberazione Nazionale. Confronta anche: M. Francini, Il Tevere sotto il letto, Centro di Documentazione Giornalistica, Roma 1982, pagina 253.

43 Su questo punto: https://www.sangioacchino.org/node/40.

44 Confronta Araujov, Una nave incagliata in mezzo al Tevere, in: «L’Unità», 12 giugno 2004, edizione di Roma, pagina 4.

45 A. Riccardi, L’inverno più lungo. 1943-1944: Pio XII, gli Ebrei e i nazisti a Roma, Laterza, Roma-Bari 2008, pagina 17. Su questa vicenda confronta anche: G. Benzoni, La vita ribelle. Memorie di un’aristocratica italiana tra belle époque e Repubblica, Il Mulino, Bologna 1985, pagina 203.

46 Confronta: La medaglia d’argento al valor militare «sul campo» a Fra Maurizio Bialek, in «Vita Ospedaliera», I, 1946, 6, pagina 120.

47 Testo confermato il 3 ottobre 1952 con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministero della Difesa.

48 Per il testo integrale della motivazione, confronta il libro di Pietro Borromeo, pagine 60-61.

49 Avvocato. Morto nel 2019.

50 Coniugata Guerrieri.

(febbraio 2020)

Tag: Pier Luigi Guiducci, Seconda Guerra Mondiale, Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina, resistenza negli anni dell’occupazione tedesca di Roma, Ebrei perseguitati nel 1943-1944, la Chiesa nella Seconda Guerra Mondiale, Giovanni Borromeo, Fra Maurizio Bialek, guerra civile spagnola, leggi razziali in Italia, Vittorio Sacerdoti, rastrellamento del 16 ottobre 1943, Theodor Dannecker, morbo di K, contributo dei frati alla Resistenza, Giuseppe Spataro.