Giovanni Gentile
Spunti di riflessione nel LXXV anniversario della scomparsa per mano partigiana (15 aprile 1944)

Figura di spicco nella cultura italiana di ogni tempo e nella storia della filosofia universale, da una parte per la realizzazione della grande Enciclopedia, e dall’altra per l’idealismo assoluto inserito nell’«ethos» dei rapporti umani e politici, Giovanni Gentile[1] non fu certamente un fascista ortodosso, tanto da non avere accettato le leggi razziali e da avere auspicato l’unità nazionale, anche quando le sorti della guerra volgevano al peggio e le opposizioni ne avevano tratto nuova forza e credibilità. Eppure, venne ucciso a tradimento in una tarda mattina di primavera, nel corso di un agguato in pieno giorno[2]: non certo in odio a un oltranzismo inesistente ma al suo reale moderatismo, inviso agli ambienti estremisti del comunismo fiorentino.

Il documento più importante del «nuovo corso» nella visione politica di Gentile è costituito dal Discorso del 24 giugno 1943, con cui si era rivolto agli Italiani per esortarli a una reale unità di intenzioni e di volontà sotto la guida del Duce: appello che era stato rinnovato dopo la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, esortando fascisti e antifascisti a trovare la strada della pacificazione. Disegno oggettivamente utopistico, visto il carattere irrevocabile delle scelte effettuate, ma conforme al profondo senso civile e istituzionale del filosofo idealista, cui non furono insensibili alcune «conversioni» dell’ultima ora come quella di Nicola Bombacci e – per dirla con Antonio Pennacchi – del suo arduo sogno di «fascio-comunismo» in chiave anticapitalista.

Gentile credeva realmente in una svolta, nell’ottica di una possibile cooperazione con le forze democratiche di nuovo alla ribalta, fatta eccezione per quelle di estrema Sinistra: l’assunto trova conferma nel fatto che, per il 18 aprile, era già in agenda un suo incontro con Mussolini a Salò; e che nell’ultima lettera scritta al Duce, rimasta in possesso della famiglia, si poteva ravvisare un’ipotesi di «ricomposizione e magari di sganciamento da Hitler» che avrebbe potuto realizzarsi con la collaborazione dello stesso Gentile. Del resto, la cosiddetta «dissidenza» fascista era stata un fatto reale anche negli anni precedenti, come nel caso emblematico di Berto Ricci, caduto in Cirenaica quale Volontario (1941) e in quelli – per citare altri esempi significativi – di Giuseppe Bottai e di Gioacchino Volpe.

A fronte del delitto compiuto con l’inganno da un gruppo di quattro esecutori materiali,[3] le altre forze operanti nella Resistenza locale espressero unanime dissenso nei confronti dell’azione che aveva ucciso una mente tanto alta e un cuore tanto nobile: primi fra tutti, Enzo Enriques Agnoletti, leader del Partito d’Azione nel capoluogo toscano, e diversi esponenti del movimento cattolico.

L’esecuzione di Gentile venne programmata in risposta a quella di cinque renitenti alla leva che erano stati fucilati il 22 marzo 1944 al Campo di Marte: catturati pochi giorni prima a Vicchio di Mugello durante un rastrellamento compiuto dalla Guardia Nazionale Repubblicana a seguito dell’uccisione di alcuni fascisti a opera dei partigiani, e sottoposti a rapido processo, vennero passati per le armi da un plotone della Repubblica Sociale Italiana in un’atmosfera altamente drammatica confermata dalle testimonianze di entrambe le parti[4]. In realtà, la posizione di Gentile era già ad alto rischio, ma le emozioni suscitate dalla fucilazione pubblica dei cinque condannati fecero il resto.

Le esequie di Gentile, celebrate nella Basilica di Santa Croce alla presenza del Ministro dell’Educazione Nazionale Carlo Alberto Biggini, del Sottosegretario alla Cultura Popolare Alfredo Cucco, e di Alessandro Pavolini cui venne riservato il compito di pronunciare l’allocuzione funebre, furono seguite da partecipazioni di assoluta spontaneità: basti ricordare quella di Indro Montanelli, ricordata da Francesco Perfetti, secondo la quale, dopo aver appreso la ferale notizia, il noto giornalista, già turbato dal proprio dissenso nei confronti di un uomo integerrimo come Berto Ricci, si chiese se abbandonando il fascismo non si fosse «messo dalla parte dei sicari».

Nelle interpretazioni storiografiche dell’assassinio di Gentile si sono registrati, accanto ai commenti di parte fascista e di parte resistenziale, altri spunti più originali, a cui è congruo riservare l’opportuna attenzione. Secondo Luciano Canfora non sarebbe da escludere l’ipotesi secondo cui l’azione gappista sia stata indotta dai servizi segreti anglo-americani, interessati a eliminare dalla scena politica un protagonista della possibile unificazione nazionale in un’ottica patriottica difforme dai loro interessi immediati, ma la tesi non è stata suffragata da fattori probanti, al pari di quella che vorrebbe vedere la mano del fascismo più estremista dietro l’eliminazione di Gentile.

Al contrario, sono certamente più suggestive talune ipotesi di Luciano Mecacci[5] secondo cui si sarebbe trattato di una «concatenazione di decisioni strategiche» assunte a cascata negli ambienti comunisti, sino a risalire ai vertici nazionali e in particolare a uomini come Luigi Longo, Pietro Secchia e Girolamo Li Causi, che avrebbero promosso l’uccisione di Gentile «non per il passato ma per il futuro» collocandosi a buon diritto nelle «perduranti miserie partigiane della cultura italiana». In questa prospettiva, le responsabilità locali andrebbero inserite in un contesto più ampio, anche se la causa scatenante dell’attentato può essere stata, con ogni verosimiglianza, una reazione istintuale ai fatti di marzo culminati nella fucilazione dei cinque renitenti. Del resto, è fuori dubbio che in assenza di guerra civile sarebbe stato arduo trovare nel comportamento di Gentile elementi tali da suggerirne una condanna senza appello, anche se Radio Londra ne aveva fatto un obiettivo ricorrente nelle trasmissioni del Colonnello Stevens.

Non a caso, il nome illustre di Giovanni Gentile vive nella toponomastica di un alto numero di città italiane, anche se manca in quella di Firenze, dove fu compiuto il suo sacrificio[6].

In prossimità al luogo dell’attentato, oggi è possibile riflettere davanti a una lapide dell’epoca, offuscata dal tempo ma sempre leggibile, sul cui marmo sta scritto che l’insigne filosofo, Senatore del Regno, Ministro della Pubblica Istruzione, ideatore e direttore dell’Enciclopedia, nato a Castelvetrano nel 1875, scomparve a Firenze nel 1944. Nient’altro, e nessun accenno al fatto, ai responsabili, ai mandanti. Del resto, la famiglia Gentile intervenne subito, ancor prima delle esequie, per disporre che non avesse luogo alcuna rappresaglia, in ossequio ai valori dell’educatore, del patriota, e soprattutto, di un grande Italiano.


Note

1 Giovanni Gentile (Castelvetrano 1875-Firenze 1944) dopo avere compiuto gli studi liceali a Trapani e avere conseguito la laurea all’età di 22 anni presso la Scuola Normale di Pisa, nonché la libera docenza in filosofia teoretica e pedagogia, a quella di 27, iniziò l’insegnamento negli Istituti superiori, dapprima a Campobasso e dopo a Palermo, dove nel 1906 ebbe la prima cattedra universitaria, seguita da quella di Pisa nel 1914, tenuta per un quinquennio e cioè fino al 1919, quando si trasferì all’Ateneo di Roma dove fu docente di storia della filosofia, e più tardi di filosofia teoretica. Negli anni giovanili si distinse nella predisposizione di opere importanti come La riforma della dialettica hegeliana (1913); Sommario di pedagogia (1914); Teoria generale dello Spirito come atto puro (1916); Fondamenti della filosofia del diritto (1916); Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-1923); Discorsi di religione (1920). Ancor prima, aveva fondato «La Critica» (1903) assieme a Benedetto Croce restando collaboratore assiduo della rivista nel lungo periodo, mentre nel 1920 assunse la direzione del «Giornale critico della filosofia italiana» che avrebbe conservato fino al 1943. Avendo iniziato la partecipazione attiva alla vita politica, dopo la Marcia su Roma del 1922 divenne Ministro della Pubblica Istruzione nel primo Governo Mussolini realizzando la grande riforma dell’ordinamento scolastico italiano che porta il suo nome, e diventando contestualmente Senatore del Regno. All’anno successivo risale l’iscrizione di Gentile al Partito Nazionale Fascista e al 1931 il giuramento di fedeltà, non senza importanti riconoscimenti: Presidente dell’Istituto Nazionale di Cultura (1925-1937); Vice Presidente e Direttore scientifico dell’Enciclopedia Italiana (1925-1938) dove ebbe a giovarsi della cooperazione di 3.266 esperti e studiosi delle varie discipline; Presidente del Centro Nazionale di Studi Manzoniani (1938) e della «Domus Galileiana» di Pisa (1941). In occasione del Concordato fra Stato e Chiesa espresse parere favorevole all’insegnamento della religione nelle scuole elementari ma non a quello negli Istituti superiori, con un atteggiamento sostanzialmente laico – confermato nella direzione della «Nuova Antologia» e dalla difesa di Giordano Bruno – che nel 1934 si tradusse nella condanna delle sue opere da parte del Sant’Uffizio; più tardi, fu contrario alla legislazione per la difesa della razza (1938) tanto da prendere iniziative in difesa di amici intellettuali di fede ebraica come Attilio Momigliano e Rodolfo Mondolfo. Con l’entrata in guerra dell’Italia assunse un atteggiamento di distacco, salvo rientrare nell’agone politico col celebre Discorso agli Italiani del 24 giugno 1943, e con un forte appello all’unità nazionale in concomitanza con l’evolversi sfavorevole delle operazioni militari, seguito dall’adesione alla Repubblica Sociale Italiana nel successivo novembre e dall’ultimo incarico di alto prestigio, la presidenza della Reale Accademia d’Italia. Il disastro incipiente non impedì a Gentile di ravvisare nel Fascismo la continuità del Risorgimento in chiave prevalentemente moderata, basata sull’opposizione alla lotta di classe e sulla terza via corporativa; e nello stesso tempo, struttura idonea a costruire l’Uomo nuovo, quale espressione dell’idealismo assoluto fondato sull’atto puro che pensa se stesso. Il resto è storia nota, conclusa con l’uccisione del filosofo a opera di un gruppo di gappisti, avvenuta davanti alla sua abitazione fiorentina il 15 aprile 1944. Tre giorni dopo, mentre la famiglia raccomandava la rigida astensione da qualsiasi rappresaglia, il suo feretro sarebbe stato accolto nel tempio francescano di Santa Croce accanto alle «itale glorie».
Per alcune indicazioni essenziali nell’ambito di una storiografia eccezionalmente ampia, una sintesi esaustiva della filosofia gentiliana è reperibile nella silloge di Ferdinando Vegas, Giovanni Gentile, in Dizionario di Filosofia, Edizioni di Comunità, Milano 1957, pagine 278-280; quanto alle opere civili, con riguardo prioritario alla genesi, preparazione e realizzazione della maggiori iniziative culturali, confronta Gioacchino Volpe, Enciclopedia Italiana e Reale Accademia d’Italia, in L’Italia che fu, Edizioni del Borghese, Milano 1969, pagine 283-350.

2 Il filosofo era appena uscito da Palazzo Serristori dove aveva sede l’Accademia d’Italia e dove aveva ricevuto il Professor Renato Galli, noto economista docente nella Facoltà di Scienze Politiche «Cesare Alfieri». Stava rientrando a casa quando i componenti del gruppo d’azione, fingendosi studenti con i libri sotto il braccio, gli chiesero se fosse il Professor Gentile, confidando nella consueta disponibilità in specie nei confronti dei giovani: alla risposta affermativa, lo fulminarono con alcuni colpi di rivoltella.

3 Il gruppo era composto da Bruno Fanciullacci, Giuseppe Martini, Antonio Ignesti e Marcello Serni, che appartenevano all’ala più dura del comunismo fiorentino assieme a uomini di cultura come i giovani Ranuccio Bianchi Bandinelli, Romano Bilenchi, Orazio Barbieri, e si ispiravano a esponenti di rilievo della cultura non soltanto locale come Concetto Marchesi, Giorgio Spini, Carlo Ludovico Ragghianti, Eugenio Garin. In realtà, si trattò di un’azione concepita e organizzata in città, ma condivisa a posteriori anche ai più alti livelli: il 23 aprile, a una settimana dall’uccisione di Gentile, lo stesso Palmiro Togliatti avrebbe avallato l’esecuzione con un articolo comparso su «L’Unità» (il giornale del Partito Comunista aveva ripreso le pubblicazioni nel Regno del Sud) e avrebbe gratificato lo scomparso con parecchi epiteti irripetibili. Per quanto riguarda il Fanciullacci, capo riconosciuto del gruppo d’azione, è utile aggiungere che in tempi successivi venne catturato e sottoposto a stringenti interrogatori per sottrarsi ai quali si gettò dalla finestra con esito infausto; e che dopo la vittoria della Resistenza venne dichiarato «Eroe nazionale» e insignito di Medaglia d’Oro al Valor Militare.

4 I fatti di Vicchio del 6 marzo erano stati indotti dalla momentanea assenza della guarnigione tedesca, di cui approfittarono i partigiani per un’incursione armata con diverse vittime, tra cui Giovanni Dreoni, un autista privo di alcun coinvolgimento politico; nel conseguente rastrellamento vennero arrestati sei giovani risultati renitenti alla leva, e un disertore sardo; dopo il processo, conclusosi con sette condanne capitali e con due commutazioni motivate dalla giovanissima età dei condannati, fu disposto per l’esecuzione a Firenze, in un contesto di ampia visibilità, onde «dare una lezione» particolarmente significativa. In effetti, a parte la renitenza, non erano emerse responsabilità partigiane a carico degli imputati, ma nella città di Alessandro Pavolini, Segretario del Partito Fascista Repubblicano, urgeva dare l’esempio, in aderenza al bando che statuiva la pena di morte per i renitenti. L’angosciosa vicenda del 22 marzo, con l’esecuzione a carico di Leandro Corona, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adriano Santoni e Guido Targetti, tutti ventunenni, è stata testimoniata, fra gli altri, anche dal capitano cui venne affidato il comando del plotone, a onta del suo rifiuto iniziale: al riguardo, confronta Gianfranco Gambassini, Una pagina di vita in una pagina di storia, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2006, pagine 29-33 (l’Autore, in tempi largamente successivi, avrebbe avuto ragguardevole notorietà, assieme a Italo Gabrielli, quale cofondatore della Lista per Trieste, il movimento autonomista triestino sorto con forte consenso popolare per la contestazione al trattato di Osimo del 10 novembre 1975).

5 Confronta Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Edizioni Adelphi, Milano 2014, pagina 520, con 37 fotografie fuori testo. L’Autore, docente di psicologia, muovendo da una vecchia intervista del Senatore Cesare Luporini, che aveva fatto parte del Partito Comunista sin dall’epoca dei fatti, e che sarebbe rimasto fedele alla vecchia linea anche dopo la «svolta» di Achille Occhetto, ha proposto ulteriori scenari interpretativi, di maggiore ampiezza rispetto alla tesi localistica, concludendo per una storia non ancora conclusa.

6 Si tratta di una lacuna che, ricorrendo il 75° anniversario dalla scomparsa, sarebbe auspicabile rimuovere, tanto più che analogo riconoscimento toponomastico era stato prontamente conferito a futura memoria, sin dall’immediato dopoguerra, in onore di Bruno Fanciullacci.

(aprile 2019)

Tag: Carlo Cesare Montani, Giovanni Gentile, Nicola Bombacci, Antonio Pennacchi, Benito Mussolini, Adolf Hitler, Berto Ricci, Giuseppe Bottai, Gioacchino Volpe, Enzo Enriques Agnoletti, Carlo Alberto Biggini, Alfredo Cucco, Alessandro Pavolini, Indro Montanelli, Francesco Perfetti, Luciano Canfora, Luciano Mecacci, Luigi Longo, Pietro Secchia, Girolamo Li Causi, Harold Stevens, Benedetto Croce, Giordano Bruno, Attilio Momigliano, Rodolfo Mondolfo, Ferdinando Vegas, Renato Galli, Cesare Alfieri, Bruno Fanciullacci, Giuseppe Martini, Antonio Ignesti, Marcello Serni, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Romano Bilenchi, Orazio Barbieri, Concetto Marchesi, Giorgio Spini, Carlo Ludovico Ragghianti, Eugenio Garin, Palmiro Togliatti, Giovanni Dreoni, Leandro Corona, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adriano Santoni, Guido Targetti, Gianfranco Gambassini, Italo Gabrielli, Cesare Luporini, Achille Occhetto, uccisione di Giovanni Gentile.