Dalla miniera alla foiba
Una tragedia emblematica: Alberto Picchiani, Direttore tecnico dell’Azienda Carboni Italiani (ACAI) di Arsia, massacrato dai partigiani di Tito il 5 ottobre 1943

Alla metà degli anni Trenta, lo stato italiano decise di potenziare la produzione mineraria, con particolare riguardo a quella di carbone, che era necessaria sia per il fabbisogno strategico interno, sia per alimentare un importante flusso di esportazioni, in specie verso la Germania. In tale ottica, venne costituita l’Azienda Carboni Italiani (ACAI), una nuova Società a capitale pubblico in cui furono conferite le attività produttive del Sulcis – Iglesiente – Fluminese (Cagliari) e dell’Arsa (Pola), e che sarebbe stata sciolta soltanto nel 1954, con apposita legge regionale sarda.

La politica autarchica dell’epoca, nell’intento di potenziare anche nel comprensorio istriano una produzione nazionale già elevata, e di migliorarne i livelli qualitativi, si avvalse in misura significativa di un accentuato «turnover» professionale attraverso l’istituto del comando, che permetteva di spostare discrezionalmente i minatori, ma anche i dirigenti e gli impiegati, da un distretto all’altro. Fu così che almeno un centinaio di Sardi vennero trasferiti ad Arsia: assieme alla contigua Pozzo Littorio, una delle 147 città di fondazione che sarebbero state costruite nell’Agro Pontino ed in tante altre regioni italiane.

Il comando poteva estendersi anche a professionalità affini. In questo ambito, nel 1938 l’Azienda si avvalse della facoltà di chiamare in Istria, fra gli altri, un dirigente tecnico della Società Henraux di Seravezza (Lucca), la grande impresa marmifera che aveva al proprio attivo oltre un secolo di operatività, essendo stata fondata nel 1821. Si trattava del Fiorentino Alberto Picchiani, ingegnere minerario, che avrebbe assunto la Direzione tecnica del complesso, particolarmente impegnativa in una Società ad alto tasso occupazionale (nel 1939 risultavano in organico circa 9.000 dipendenti), alla luce di enormi problemi di conduzione, programmazione, sicurezza e formazione.

Esiste una pubblicazione ACAI del maggio 1943 che illustra alcune fasi del lavoro in miniera, con l’intervento dello stesso Picchiani ai più bassi strati del giacimento (si contavano almeno 16 livelli di estrazione del minerale). È la dimostrazione visiva delle competenze professionali e della duttilità funzionale di una dirigenza che non si limitava al lavoro d’ufficio ma si estendeva all’impegno in galleria, a fianco degli operai addetti alla perforazione, all’armatura, al trasporto, e via dicendo: il tutto, in un quadro di autentico cameratismo che si collocava ottimamente nelle relazioni aziendali e nella psicologia sociale dell’epoca, con significativo abbattimento della conflittualità.

Non sono particolari di carattere marginale, in specie alla luce di quanto accadde nell’Arsa dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, in quel breve ma agghiacciante periodo intercorso fra la dissoluzione dell’esercito italiano, delle istituzioni e delle strutture civili, ed il recupero di una pur precaria normalità, promossa a distanza di circa un mese dal ritorno delle forze armate tedesche e dal ripristino pur coercitivo dell’ordine. In quelle tragiche settimane, i partigiani comunisti slavi, unitamente ai loro fiancheggiatori italiani, uscirono allo scoperto, soprattutto di notte, macchiandosi di efferati delitti: nella sola foiba di Vines, presso Albona, scomparvero almeno 100 Italiani senza colpe, se non quella di avere lavorato per il comune progresso, nell’ambito di una cooperazione che, soprattutto nella miniera, coinvolgeva Italiani e Slavi senza distinzioni e senza discriminazioni.

Il drammatico destino, reso ancora più allucinante dalle torture subite prima della morte, distrusse la giovane vita di Alberto Picchiani, che nel frattempo era diventato padre di due figli, assieme a quella di parecchi lavoratori sardi (le vittime accertate nell’ambito dei dipendenti di ACAI furono una sessantina). Era il 5 ottobre: la stessa data in cui un’altra foiba, quella di Villa Surani, presso Antignana, vide l’estremo sacrificio di Norma Cossetto, assurta a simbolo del martirologio istriano, fiumano e dalmata, vittima di indicibili violenze, poi insignita della laurea «honoris causa» dall’Università di Padova e, sia pure tardivamente (2005), della Medaglia d’Oro al Merito Civile da parte del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi (in riconoscimento della forza morale manifestata nei confronti degli assassini e nel rifiuto di qualsiasi collaborazione a fronte delle loro profferte).

Diversamente da quanto accadde con la «seconda ondata» di infoibamenti e degli altri massacri che insanguinarono la Venezia Giulia e la Dalmazia, soprattutto dalla primavera del 1945 in poi, a Vines – come in altre poche foibe – fu possibile recuperare le spoglie delle vittime già nell’ultima decade dell’ottobre 1943, grazie all’opera dei Vigili del Fuoco di Pola, ed in particolare della squadra comandata dal Maresciallo Arnaldo Harzarich: fra le 94 salme esumate (per altre si dovette desistere a causa di insormontabili difficoltà operative) ci fu quella di Picchiani, che il padre, prontamente accorso in Istria, volle trasferire subito nel cimitero di Forte dei Marmi, dove ha trovato onorata sepoltura.

Vale la pena di sottolineare che fu un’opera assai difficile: l’abisso di Vines è profondo 137 metri, con un ampio inghiottitoio e pareti inizialmente verticali che, a prescindere dai mezzi limitati disponibili per il recupero, resero impegnative anche le fasi di preparazione e di installazione degli argani. Oltre tutto, i lavori si svolsero in un clima di apprensione per le possibili incursioni partigiane, e per la reiterata minaccia di ritorsioni da parte di chi avrebbe voluto cancellare per sempre negli anfratti della terra istriana la prova dei propri misfatti (non a caso, al termine delle operazioni il Maresciallo Harzarich, cui erano pervenuti chiari messaggi di morte, venne prudenzialmente trasferito in Trentino).

Dopo l’istituzione del «Giorno del Ricordo» di cui alla Legge 30 marzo 2004 numero 92 (approvata dal Parlamento Italiano con voto quasi unanime), Alberto Picchiani è stato insignito della Medaglia commemorativa concessa alla stregua di tale normativa, mentre al figlio Roberto è stata consegnata l’apposita attestazione a firma del Presidente della Repubblica, quale riconoscimento di un alto e nobile sacrificio patriottico. Anche in questo caso, il ritardo è stato di spazio pluridecennale: cosa che ha reso forzatamente limitato il numero complessivo dei conferimenti (dopo 12 anni di vigenza della Legge 92, le Medaglie in ricordo degli infoibati o diversamente massacrati nelle zone del confine orientale assommano a poco più di 1.000, a fronte di potenziali aventi causa nell’ordine delle 20.000 unità).

Il 28 febbraio 1940 la miniera dell’Arsa aveva dovuto registrare la maggiore sciagura della sua lunga storia, in cui trovarono la morte 185 persone. Furono svolte indagini lunghe ed esaustive anche da parte degli Organi nazionali competenti, ma le cause dell’esplosione, probabilmente fortuita, non vennero mai accertate in maniera definitiva, pur dovendosi considerare che l’attività estrattiva era stata fortemente potenziata alla stregua del crescente fabbisogno energetico. In ogni caso, non è mai stata proposta, né tanto meno dimostrata, una specifica correlazione fra il ricordo di quell’evento e gli infoibamenti del 1943: i minatori non potevano essere certamente responsabili dell’accaduto e la stessa dirigenza, come si diceva, era conosciuta ed apprezzata per avere condiviso con le maestranze i rischi del lavoro in sottosuolo, che la storia del settore minerario mette in dolorosa evidenza (basti pensare, per quanto riguarda i maggiori coinvolgimenti della manodopera italiana nel dopoguerra, alle tragedie di Ribolla, nel Grossetano, e di Marcinelle, in Belgio).

La realtà allucinante della foiba di Vines è per molti aspetti emblematica: le vittime di un’ideologia perversa non avevano colpe di sorta, ed anzi, a quelle di pertinenza ACAI si deve riconoscere di avere risposto ad una chiamata istituzionale rivolta esclusivamente a promuovere la produzione, e suo tramite, anche le condizioni economiche del comprensorio, ivi comprese quelle degli operai slavi, che costituivano una quota molto significativa di un’occupazione ormai non lontana dalle 11.000 unità. Al pari di tanti servitori fedeli dello stato, quali i carabinieri, i finanzieri ed i poliziotti, finirono in foiba perché Italiane: tragica verità che sottintende quali colpe, invece, debbano essere attribuite ai loro aguzzini, che agivano in nome della «malefica stella vermiglia» di cui alla stele presente nel Sacrario di Basovizza (Trieste), che intende onorare tutte le vittime di una stagione plumbea, ed ergersi a perenne memoria storica.

In effetti, si fa presto a dire foiba, come accade nelle ricorrenti manifestazioni del Ricordo, spesso ripetitive, senza pensare in maniera più approfondita e consapevole al vertice dello strazio che si consumava nelle viscere della terra, come emerge dalle testimonianze di chi udiva i lamenti delle vittime – talvolta protratti per giorni – condannate ad una lenta e terribile agonia, soprattutto nelle cavità meno profonde, dove la liberazione della morte non sopraggiungeva immediatamente; a prescindere dal cane nero che talvolta veniva gettato nella foiba in segno di ulteriore, estremo dileggio e nella folle presunzione atavica che i suoi latrati togliessero agli infelici martiri persino la pace dell’Eternità.

Ancora oggi, il percorso per giungere all’inghiottitoio di Vines, dove mani pietose hanno installato una Croce in memoria dei caduti, è decisamente impervio: cosa che fa presumere quali vertici di strazio abbiano accompagnato, in quell’orribile autunno, il calvario dei martiri, ripetutamente scherniti e seviziati dai loro massacratori. Eppure, ebbero il coraggio e la forza morale di recitare una preghiera e di onorare la Patria nel momento del supremo olocausto, col grido di Alberto Picchiani che fu quello di Cesare Battisti e di Nazario Sauro: «Viva l’Italia!».

(ottobre 2017)

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