La Resistenza fra mito e realtà
Una questione controversa, dove politica e studi storici contrastano

Quello della Resistenza è un argomento fortemente controverso, che ha dato vita a numerose contese anche in tempi recenti, pensiamo al riguardo ai libri di Giampaolo Pansa, intellettuale di sinistra che ha messo in luce le violenze nel dopoguerra. Per alcuni esprimere qualche considerazione negativa sul movimento resistenziale equivale a una profanazione del nostro patrimonio di valori politici, per altri la Resistenza è stata qualcosa di inutile sul piano militare che ha prodotto un gran numero di morti fra i sostenitori del fascismo e coloro che venivano indicati come «nemici di classe». La confusione fra storia contemporanea e politica tipica degli anni passati è stata qualcosa di negativo che ha prodotto luoghi comuni e distorsioni, è stata una strada che sicuramente ha favorito il fanatismo politico e non ha portato a nulla di costruttivo. Dare un giudizio della Resistenza nella sua totalità è forse impossibile, è come dare un giudizio univoco sul vasto fronte che combatteva la Germania nazista, comprendeva le migliori democrazie ma anche un regime totalitario, quello sovietico, che di meglio rispetto alla dittatura che combatteva aveva ben poco. Vediamo di capire alcuni aspetti fondamentali su cui esistono tuttora dubbi pesanti. Quanti erano gli uomini della Resistenza, godevano del consenso della popolazione locale e nazionale, quanto ha prodotto sul piano strettamente militare? Colpire i soldati tedeschi sapendo che avendo difficoltà a individuare i combattenti questi si sarebbero vendicati su prigionieri e popolazioni civili era eticamente sensato?

Una parte degli italiani, fra i quali il filosofo Giovanni Gentile, riteneva che l’armistizio costituisse qualcosa di sbagliato sul piano etico politico, una scelta sicuramente non condivisa dalla maggior parte degli italiani che era dell’opinione che la precedente scelta di entrare in guerra fosse qualcosa di negativo, da qui l’idea prevalente che gli invasori non fossero gli angloamericani come formalmente si poteva ritenere, ma i tedeschi. Il governo Badoglio scelse la linea di allontanarsi dalla guerra in maniera totalmente inadeguata sperando che i tedeschi abbandonassero il nostro territorio e il nostro paese potesse assumere un atteggiamento neutrale verso tutti. Su questa condotta si è scritto molto, alcuni hanno parlato di alto tradimento del governo e dei generali, ma la documentazione storica non consente di comprendere in pieno le motivazioni che spinsero ad un comportamento gravemente omissivo che portò l’esercito e l’Italia al disastro. Nello stesso periodo si ricostituirono i partiti, una parte, cattolici, liberali, demolaburisti, azionisti, ritenevano di lavorare per la liberazione della patria e la libertà, quella socialista e comunista ovviamente non condivideva tali valori e scelse di lottare per realizzare sulla base dei principi marxisti una dittatura del proletariato sul modello sovietico parlando comunque di fasi intermedie, la cosiddetta «democrazia progressiva» caratterizzata da grandi mobilitazioni delle classi popolari. I partiti lavoravano formalmente uniti nel Comitato di Liberazione Nazionale ma con un’ambiguità palese e profonda che progressivamente venne alla luce. Interessante quello che ha scritto lo storico Claudio Pavone, la Resistenza fu contemporaneamente una guerra patriottica contro gli invasori, una guerra civile fra fascisti e antifascisti e una guerra di classe contro proprietari terrieri, industriali, uomini del clero. Tale interpretazione ha creato grave sconcerto fra gli intellettuali di sinistra, che hanno visto qualcosa di simile ad una equiparazione fra i combattenti italiani delle due parti.

Fra gli avvenimenti precursori dell’opposizione al fascismo di massa, vengono spesso considerati gli scioperi nel Nord Italia del marzo 1943, ma storici anche di sinistra come Romolo Gobbi hanno messo in luce che non furono scioperi a carattere politico ma dovuti al forte peggioramento delle condizioni di vita di quel periodo. Secondo una statistica, nel novembre 1943 i combattenti delle montagne erano 3.800 di cui 1.650 in Piemonte, molti di questi erano militari precedentemente impegnati nell’occupazione della Francia che rientrati in Italia per sfuggire alla cattura e per difendere il paese si diedero alla macchia. Una decina di giorni dopo l’armistizio un reparto tedesco a Boves vicino a Cuneo incendiò il paese e uccise 24 cittadini come rappresaglia per un’azione militare minima, non fu un grande episodio ma insieme ad altri eventi analoghi minori contribuì a mettere in crisi i soldati che avevano scelto di operare in montagna. Alcuni giorni dopo si ebbero le cosiddette Quattro Giornate di Napoli, un fenomeno spontaneo organizzato da ufficiali e cittadini non legato a partiti politici, la causa principale fu il timore da parte dei giovani di essere catturati e costretti a lavorare in Germania. Il numero di morti come in tutti i successivi scontri fu molto incerto, si ritiene comunque che fossero un centinaio fra i napoletani, l’avvicinarsi delle truppe angloamericane spinse comunque i tedeschi rapidamente a ritirarsi. Ha scritto Indro Montanelli che il Comitato di Liberazione Nazionale «non fu almeno inizialmente l’elemento propulsore dei primi nuclei ed episodi della ribellione alla dominazione nazista», gli episodi descritti spinsero comunque la popolazione ad un timore verso i tedeschi e la Resistenza divenne gradualmente un fenomeno più di militanti politici che di militari.

La situazione nella capitale fu invece molto diversa. Dopo i combattimenti di Porta San Paolo sostenuti da militari regolarmente inquadrati nell’esercito con l’appoggio di alcuni cittadini non ci furono episodi cruenti. Il terribile rastrellamento degli ebrei del ghetto e l’attentato di via Rasella con la rappresaglia successiva non innescò quella reazione che i comunisti autori del gesto si attendevano. Nonostante le privazioni e i timori dei rastrellamenti, la cittadinanza rimase tranquilla in benevola attesa (come anche riportato da testimonianze non scritte dell’epoca) dell’arrivo degli americani. Se si affronta più in generale la questione delle simpatie politiche degli italiani non abbiamo ovviamente dati che possano darci indicazioni, molte testimonianze ci portano comunque a ritenere che la maggioranza degli italiani fosse neutrale, i numeri non molto elevati degli uomini della Resistenza lo confermerebbero, naturalmente l’atteggiamento neutrale significava la speranza della fine della guerra e pertanto realisticamente la vittoria degli americani. Dobbiamo anche ricordare che gli uomini della Resistenza non erano tutti dei militanti politici o dei patrioti in senso stretto, molti erano i soldati che intendevano sfuggire alla cattura, i giovani renitenti alla leva imposta dal nuovo governo mussoliniano ed infine gli ex prigionieri russi e di altre nazionalità presenti nel nostro paese. Secondo lo storico Santo Peli, queste tre categorie costituivano circa la metà del numero dei resistenti. Un altro elemento che ci porta a pensare che molti italiani non simpatizzassero per la Resistenza, o almeno non nei modi trionfalistici con i quali nel dopoguerra si era rappresentato il fenomeno, fu l’enorme successo già nel 1944-1945 del giornale «L’Uomo Qualunque» che irrideva apertamente la mitologia resistenziale. Possiamo infine ricordare che gli angloamericani non attribuivano grande rilevanza ai gruppi partigiani, il loro riconoscimento come gruppo armato cooperante avvenne con notevole ritardo.

Il capo delle formazioni resistenziali era il generale Raffaele Cadorna, ma molti storici fra i quali Gianni Oliva ritengono che non avesse reali poteri, le varie formazioni agivano in autonomia, un ruolo importante era retto da Luigi Longo per il partito comunista e Ferruccio Parri per il partito d’azione. Il partito comunista anche grazie al sostegno economico dell’Unione Sovietica negli anni passati era quello meglio organizzato e quello che riuscì ad arruolare il maggior numero di uomini, un’importanza notevole spettava comunque anche agli «autonomi» più vicini alla monarchia e all’esercito. Non tutti i partigiani erano combattenti della montagna, erano presenti anche i Gap, piccoli gruppi di combattenti presenti nelle città quasi tutti legati al partito comunista. Tali gruppi organizzarono attacchi dinamitardi e omicidi mirati contro importanti ufficiali tedeschi e soprattutto dirigenti fascisti. Uno dei loro atti principali fu l’uccisione del filosofo Giovanni Gentile a Firenze che creò sconcerto anche perché l’uomo di cultura aveva nei mesi passati lanciato un appello alla pacificazione. Le azioni dei Gap portarono a dure rappresaglie e furono contestate da leader antifascisti moderati e dallo stesso colonnello Cordero di Montezemolo capo del Fronte Militare Clandestino operante nell’Italia Centrale. Più in generale molti si espressero contro le azioni che andavano oltre il sabotaggio o l’intelligence a favore degli Alleati e prevedevano l’uccisione di tedeschi, in quanto esponevano prigionieri e popolazioni civili a dure rappresaglie. Fra questi importanti leader antifascisti, molti uomini di Chiesa, l’«Osservatore Romano», mentre una superstite di Marzabotto ha scritto come i compaesani avessero chiesto ai partigiani di Stella Rossa di non sparare sui soldati nemici perché il Comando tedesco si sarebbe vendicato su di loro. Anche gli abitanti di Pedescala in provincia di Vicenza in un documentario Rai degli anni Novanta si espressero contro il gruppo partigiano che aveva sparato sui soldati tedeschi in ritirata i quali si vendicarono con l’uccisione di 63 compaesani.

Riguardo alla consistenza dei reparti partigiani, sappiamo che i primi mesi videro un numero basso di componenti che salì successivamente dopo la liberazione di Roma nell’estate del ’44 quando si ritenne imminente il crollo tedesco, Parri calcolava nel luglio di quell’anno 52.000 combattenti di cui la metà nelle formazioni comuniste. Giorgio Bocca e Giorgio Pisanò riportano un totale di circa 4.000 partigiani nell’inverno 1943-1944, 60.000 nell’estate ’44 e circa 130.000 nell’Aprile ’45. Lo storico Arrigo Petacco fornisce una cifra complessiva di 80.000 combattenti. Come sappiamo negli ultimi giorni quelli che ottennero l’attestato di partigiano erano oltre 200.000, ma in molti casi, come ha riportato Cadorna, si trattava di una scelta dovuta a convenienza. Per avere un quadro della situazione dobbiamo ricordare che i soldati della Repubblica Sociale furono molti di più, circa 800.000 quelli considerati volontari anche se non tutti appartenevano effettivamente a tale categoria.

La questione militare della Resistenza è stata un argomento in maniera molto singolare eluso dagli storici, comprendere quanti furono gli scontri militari, il numero dei morti in combattimento fra partigiani, fascisti e tedeschi rimane in pratica un mistero. Una rappresentazione degli eventi militari della Resistenza risulta sicuramente frammentaria, così come i fatti risultano molto contestati. Riportiamo comunque alcuni degli eventi maggiori.

Nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre a San Martino sopra Varese si formò ad opera del colonnello Carlo Croce una formazione di 150 militari sbandati che si impegnò in una difesa statica in previsione di una rapida avanzata degli angloamericani, combatté validamente ma venne sbaragliata dopo due mesi.

Negli stessi giorni alcuni reparti militari italiani a Gorizia tentarono di resistere senza successo, poco dopo si ebbe la nascita ad opera di 43 operai di Monfalcone della Brigata Proletaria unita ad un reparto di 100 sloveni facenti parte di un gruppo già impegnato in azioni contro la popolazione italiana, diede vita ad una battaglia nei dintorni di Gorizia ma dopo pochi giorni venne sopraffatta dai tedeschi.

Il 13 febbraio 1944 a Megolo verso Domodossola un gruppo di 53 partigiani in parte comunisti e in parte monarchici capeggiati da un comandante che di professione era architetto fu accerchiato da un reparto numeroso di SS e militi fascisti, combatté duramente, fece numerose vittime ma alla fine una dozzina furono uccisi e gli altri catturati.

Per un certo periodo non si ebbero grandi azioni militari, poi dopo lo sfondamento alleato della Linea Gustav (Abruzzo-Monte Cassino) i tedeschi arretrarono lentamente verso l’Appenino Tosco Romagnolo. Nel giugno del 1944 si ebbe uno scontro a Parchiule nelle Marche dove i partigiani garibaldini tentavano di tenere bloccata una via di comunicazione ma vennero affrontati con armi pesanti e subirono un duro colpo.

L’11 giugno 1944 i tedeschi attaccarono Fabbriche di Casabasciana vicino Lucca, il gruppo partigiano vicino a Giustizia e Libertà si difese e ottenne il sostegno dell’aviazione americana che gli permise di ritirarsi ordinatamente. I tedeschi catturarono dei civili nella vicina Bagni di Lucca che vennero rimessi in libertà ad opera di un funzionario fascista.

Il 18 giugno si venne a formare un grande raggruppamento di forze partigiane prevalentemente garibaldine a Montefiorino sull’Appennino Modenese in una zona quindi strategica alle spalle della nuova Linea Gotica. Qui diedero vita alla prima repubblica partigiana ma in seguito ad un massiccio attacco tedesco e fascista che provocò 60-100 morti fra le file partigiane il 6 agosto molti furono catturati e altri costretti a disperdersi.

Il 24 agosto tedeschi e fascisti attaccarono una brigata garibaldina in Val Borbera in Piemonte vicino al confine con la Liguria, la battaglia durò 3 giorni e si concluse con la ritirata partigiana.

Nel settembre i partigiani attaccarono Gravellona Toce poco sopra il Lago Maggiore presidiata prevalentemente da milizie fasciste, ma dopo 2 giorni di duro combattimento furono costretti a ritirarsi.

La brigata capeggiata dall’ufficiale degli alpini di tendenze monarchiche Martini (nome di battaglia Mauri), costituì la maggiore fra le brigate autonome e presidiava insieme ad altri una zona molto vasta dal Sestriere al Cuneese. Il gruppo partigiano diede vita alla repubblica di Alba che ebbe difficili rapporti con le brigate partigiane di simpatie comuniste. Venne attaccata dai tedeschi nel novembre del 1944, i combattimenti durarono molto a lungo e si ebbe la morte di 100 uomini fra i resistenti. Successivamente riportò una dura sconfitta nella Val Casotto nel mese di marzo ’45, ma che non impedì la riorganizzazione delle forze in altre valli.

Nello stesso mese si ebbe il maggiore scontro armato cittadino della guerra nella zona periferica di Bologna a Porta Lame, i tedeschi scoprirono una base dei garibaldini, ma questi riuscirono a superare l’accerchiamento e a riorganizzarsi in altre zone.

Dopo novembre l’attività partigiana si ridusse notevolmente e molti partigiani rientrarono nelle loro case, gradualmente i combattimenti ripresero l’anno successivo. Fra il 22 e il 27 febbraio al passo di Mortirolo che mette in comunicazione la Valcamonica e la Valtellina si ebbe un primo scontro fra Fiamme Verdi (cattolici) comandati da un ufficiale e militi fascisti impegnati nell’attacco. Verso la fine del conflitto (9 aprile-2 maggio) si ebbe il maggiore scontro campale sostenuto dalla Resistenza nella stessa località con i resistenti che poterono utilizzare delle trincee risalenti alla Prima Guerra Mondiale.

I partiti aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale avevano a lungo rifiutato il loro sostegno al governo militare di Badoglio, quando nell’aprile del ’44 si ebbe il più importante cambiamento politico di quegli anni con la cosiddetta Svolta di Salerno. Tale iniziativa lanciata da Togliatti al momento del suo rientro in Italia, lasciò sconcertati socialisti, azionisti e larga parte degli stessi comunisti, prevedeva la collaborazione con la monarchia e l’ingresso del partito nel governo Badoglio. Non era un cambiamento in senso democratico del partito comunista come è stato sostenuto ma l’adeguamento alla politica di Stalin che prevedeva un periodo di cooperazione con Gran Bretagna e Stati Uniti. Del resto negli anni passati anche altri partiti totalitari come quello fascista e nazionalsocialista avevano scelto di arrivare al potere con la collaborazione con altre forze politiche. Generalmente si pensa che negli anni 1943-1945 l’Italia abbia conosciuto le sole violenze tedesche, ma nella Venezia Giulia già nel settembre del 1943 si verificarono i massacri di italiani da parte delle formazioni comuniste di Tito, evento che provocò contrasti a livello politico, con il partito comunista che sosteneva la causa di questi ultimi, condannava quelli che chiamava i nazionalisti italiani e stabilì il passaggio di una brigata Garibaldi che operava nella zona sotto il comando titoino. Tale contrasto portò al maggiore episodio di violenza fra gruppi partigiani, la strage di Porzus del febbraio 1945 che vide l’uccisione di comandanti e militi della brigata Osoppo formata da cattolici e azionisti da parte dei Gap diretti dal partito di Togliatti. Tale evento non fu isolato, nel novembre del ’44 ci fu l’uccisione dei componenti della missione Strassera (un gruppo inviato dal governo del Sud per dirigere le operazioni resistenziali in Piemonte) mentre molti ritengono che nel corso della guerra civile ci furono delle delazioni per far cadere in mano ai nemici i gruppi partigiani ritenuti rivali. Un altro caso importante di contrasto all’interno della Resistenza fu quello riguardante il generale Operti. Questi disponeva dei fondi della Quarta Armata che mise a disposizione delle formazioni del Comitato di Liberazione Nazionale piemontese in cambio di un suo ruolo all’interno delle stesse ma venne successivamente accusato di «attendismo» cioè di non volersi impegnare in azioni militari contro i nazifascisti e addirittura di aver concordato una tregua con essi e venne esautorato. Anche sull’arresto di Montezemolo si ebbero sospetti su leader estremisti che avrebbero segnalato ai tedeschi la presenza del comandante. Un interessante programma politico di quegli anni fu il cosiddetto «dibattito in cinque lettere» promosso dal partito d’azione nel novembre 1944, in esso si parlava non solo di contestazione delle istituzioni fasciste ma anche di quelle prefasciste e della realizzazione di una «democrazia più avanzata». Di per sé il programma non era contrario ai principi della democrazia pluralista ma divenne lo spunto nel periodo successivo per ambiguità riguardo ai diritti civili e politici, la democrazia diveniva sinonimo di prevaricazione sulle classi ritenute non proletarie.

Anche nel campo contrario non mancavano contrasti, diversi gruppi fra i quali la X Mas del principe Borghese si resero sostanzialmente autonomi, il Trentino e Belluno divennero territori amministrati dai tedeschi, i gerarchi fascisti che avevano votato la sfiducia a Mussolini il 25 luglio vennero fucilati. La Repubblica Sociale tentò di guadagnare consensi fra gli operai con una legge sulla socializzazione delle imprese del gennaio 1944, ma la situazione rimase difficile anche se come dimostrava la manifestazione del Teatro Lirico a Milano del dicembre di quell’anno molti ancora simpatizzavano per l’anziano Duce.

Dopo la liberazione di Roma si ebbe il governo del demolaburista Bonomi, sostenuto dagli americani ma non ben visto dagli inglesi che mantenevano un senso di sfiducia verso i politici italiani. Vi furono forti contrasti riguardo l’epurazione dei funzionari di stato ritenuti vicini al fascismo, nel dicembre 1944 si arrivò a 3.558 procedimenti sebbene la pubblica amministrazione avesse delle dimensioni notevolmente più ridotte rispetto a quelle di oggi. Nello stesso mese azionisti e socialisti rimasero fuori dal governo mentre il partito comunista singolarmente manteneva una posizione più moderata. Sempre nel ’44 a fianco dei tragici eventi della guerra civile si ebbe un triste fenomeno, quello del separatismo siciliano sostenuto da uomini di destra (anche fascisti) e di sinistra. Con esso si ebbero sanguinose rivolte per l’occupazione delle terre e contro le chiamate alle armi, nonché la costituzione di un esercito clandestino diretto dal comunista Antonio Capena, affiancato dal bandito Salvatore Giuliano. Nell’anno successivo a Caulonia in Calabria e in altre località del Sud si ebbe la proclamazione di effimere repubbliche popolari con gravi violenze contro i proprietari terrieri.

Nel Nord la speranza di una rapida avanzata angloamericana portò nell’estate del 1944 alla creazione di numerose repubbliche partigiane collocate per lo più sull’arco alpino, ma anche sull’Appennino Tosco Romagnolo più vicino ai punti nevralgici dello schieramento militare tedesco. Molte di queste repubbliche non poterono che occuparsi di problemi militari data la loro situazione precaria, in altre si ebbero alcune istituzioni civili non sempre gradite dalle popolazioni locali. Vi furono organi di polizia e giudiziari incaricati di perseguitare i simpatizzanti del fascismo, il divieto di vendita di prodotti agricoli all’esterno, il prelievo di beni a favore delle formazioni partigiane, nella Repubblica di Carnia vennero abolite tutte le imposte tradizionali e sostituite da un’unica imposta patrimoniale. Lo storico Gianni Oliva ha messo in luce il difficile rapporto fra combattenti e popolazione locale: «La battaglia di Montefiorino dell’estate e quelle autunnali delle altre zone libere confermano le preoccupazioni: le forze partigiane sono costrette in pochi giorni a evacuare i territori, lasciando la popolazione civile esposta alle rappresaglie. Le conseguenze immediatamente avvertibili sono un solco di diffidenza che si apre tra i ceti rurali delle zone coinvolte e il movimento resistenziale». Anche il leader azionista Giorgio Agosti fece notare una certa ostilità delle popolazioni locali che subivano le conseguenze dei combattimenti, oltre alle difficoltà per le genti montanare di mantenere sul piano alimentare i resistenti. Consolidata la Linea Gotica da parte dei tedeschi tutte queste repubbliche cessarono di esistere, mentre il comandante delle truppe alleate Alexander lanciò il suo appello per la smobilitazione dei gruppi partigiani che ebbe un effetto fortemente demoralizzante.

Fra il 17 e il 19 aprile 1945 il fronte tedesco venne sfondato e il giorno 21 gli angloamericani entrarono a Bologna. L’imminente crollo spinse alti uomini di Chiesa a promuovere delle mediazioni fra resistenti e fascisti per evitare ulteriori bagni di sangue, ma inutilmente. Il 25 aprile venne dato dal Comitato di Liberazione Nazionale l’ordine della insurrezione generale e l’occupazione delle grandi città. Come ha scritto Montanelli l’ordine di insurrezione venne dato «quando non c’era più nulla contro cui insorgere», ma ciò non ha impedito una vasta letteratura che parlava di città come Torino, Milano e Genova liberate dai partigiani. I partigiani presero tali città quando i tedeschi si stavano ritirando e gli americani erano prossimi a prenderne possesso. I gruppi partigiani in particolare occuparono Milano quando Mussolini e il segretario del partito fascista Pavolini si erano allontanati dalla città e la Guardia di Finanza locale era passata dalla parte degli insorti. A Genova invece i tedeschi non in grado di ritirarsi dovettero arrendersi senza combattere agli insorti. In molti grandi centri industriali si ebbe l’occupazione delle fabbriche da parte degli operai e l’esproprio delle stesse con il sostegno dell’estrema sinistra, nei mesi successivi dopo alcuni accordi vennero restituite ai proprietari.

Per completare la valutazione della guerra di liberazione è sicuramente interessante capire quante furono le vittime. Luigi Longo scrisse in Un popolo alla macchia che i partigiani morti durante la guerra di liberazione furono 62.070. Non si sa come venne calcolata tale cifra, appare comunque in stridente contrasto con le cifre dei combattenti riportate dai diversi studiosi, molti dei quali hanno quantificato in meno di 100.000 nel periodo precedente al 25 aprile. Nelle principali battaglie sostenute dai resistenti sopra riportate non si hanno numeri certi dei caduti in combattimento ma si può ritenere che fossero alcune centinaia. Altrettanto interessante è capire il numero dei morti fra i fascisti successivamente alla fine dei combattimenti. Ferruccio Parri sostenne che furono circa 10-15.000, le stesse cifre sono state fornite dal giornalista di sinistra Giorgio Bocca e dagli storici Mimmo Franzinelli, Santo Peli e dal ministro Scelba, fra le vittime si ebbe un alto numero di individui torturati prima dell’esecuzione, di familiari di fascisti nonché una grande quantità di morti fra persone del tutto estranee alla Repubblica Sociale colpevoli solo di appartenere alla classe borghese, oltre a un certo numero di «compagni» caduti in disgrazia. Interessante confrontare tali dati con quelli sulle vittime delle rappresaglie naziste che ammonterebbero a circa 9.000. Diversi autori hanno messo in luce che queste uccisioni avvennero principalmente ad opera dei gruppi comunisti che rifiutarono di restituire le armi dopo la conclusione della guerra per adoperarle nel caso, come in Grecia, di rivolta armata contro le istituzioni parlamentari. La stessa ex dirigente del partito comunista italiano, Miriam Mafai, nei suoi scritti ha confermato tale scelta, per parecchi mesi in Emilia Romagna venne instaurato il terrore rosso, proprietari terrieri e borghesi in genere venivano ammazzati o sottoposti a vessazioni ed estorsioni. Diversi autori, fra i quali Gianni Oliva, hanno scritto che i fascisti uccisi furono vittime della rabbia popolare, ma questo contrasta con il fatto che la grande maggioranza dei repubblichini uccisi fu ammazzata in stato di prigionia, molti altri prelevati nottetempo dopo che erano rientrati nello loro case, i casi di linciaggio furono relativamente pochissimi, un gran numero di morti risaliva a parecchi mesi dopo la fine della guerra, difficile pensare che fu opera di semplice rabbia da parte di gruppi di popolani. Nel dopoguerra si tenne un certo numero di processi contro gli autori delle vendette, molti vennero fatti fuggire dal partito comunista in Cecoslovacchia, l’autore del massacro del gruppo di Strassera, Francesco Moranino, divenne senatore del partito comunista italiano. La Resistenza come abbiamo visto venne gestita da gruppi politici diversi e opposti, ma negli anni successivi i partiti dell’estrema sinistra si impossessarono del suo mito, si accreditarono in pratica come i liberatori dell’Italia, i governi precedenti a quello fascista vennero considerati come prefascisti e tutti i gruppi politici diversi vennero considerati come movimenti politici ambigui verso gli odiati fascisti.


Bibliografia

S. Celi, Storia della Resistenza in Italia, Torino, 2006

G. Oliva, La grande storia della Resistenza, Milano, 2018

P. Secchia, Storia della Resistenza, Roma, 1965

I. Montanelli, L’Italia della guerra civile, Milano, 1983

B. Vespa, Vincitori e Vinti, Roma, 2005

G. Pansa, I vinti non dimenticano, Milano, 2010

G. Pisanò, Il triangolo della morte, Milano, 1992.

(agosto 2018)

Tag: Luciano Atticciati, storia della resistenza, partigiani, repubblica sociale, caduti fascisti, caduti partigiani, guerra di liberazione, Luigi Longo, Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna, brigate Garibaldi, brigate Mauri, fiamme verdi, giustizia e libertà, vendette partigiane.