La testimonianza del medico ebreo dottor Sacerdoti (1915-2005) sulle vicende del 1943-1944 a Roma
Una Resistenza civile nei mesi dell’occupazione nazista di Roma

La figura del medico ebreo dottor Vittorio Emanuele Sacerdoti conserva a tutt’oggi un significato non debole. Nei mesi di Roma «città aperta» fu testimone di tragedie. Sono fatti che sconvolsero la vita della Comunità Ebraica dell’Urbe, specie il rastrellamento tedesco del 16 ottobre 1943. In realtà, Sacerdoti aveva già subito sulla propria persona gli effetti delle leggi razziali italiane. Non poteva più esercitare la professione di medico nell’ospedale civile di Ancona e altrove. Con il 16 ottobre e in seguito, unitamente al personale dell’Ospedale Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina, continuò a non cedere davanti all’oppressione nazi-fascista. Partecipò alla difesa degli Ebrei. E li curò. In tal modo egli rappresenta un aspetto della Resistenza: quello dell’opposizione civile. La sua testimonianza venne videoregistrata il 15 maggio 1988 per iniziativa della Shoah Foundation di Los Angeles.[1]

Vittorio Emanuele Sacerdoti

Foto del dottor Vittorio Emanuele Sacerdoti (anni del Secondo Conflitto Mondiale)

Alcuni dati biografici

Vittorio Emanuele Sacerdoti nacque a Roma il 22 luglio 1915 da Rodolfo e Celeste Dolce Almagià.[2] La famiglia, presenti quattro figli[3], risiedeva ad Ancona. Qui vivevano circa 1.000 Ebrei. In questa città era rabbino Haim Ben Yosef Rosenberg. Dopo il ginnasio e il liceo, il giovane Vittorio si iscrisse alla facoltà di medicina dell’università di Bologna.[4] In questa città soggiornò nel 1934-1935 (I anno) e nel 1939-1940 (VI anno). A motivo delle leggi razziali fu espulso dall’Ospedale civile Umberto I di Ancona. Qui aveva iniziato a far pratica vicino al primario chirurgo professor Giulio Bombi.

Nell’intervista del 1988 il dottor Sacerdoti ricorda con precisione un momento critico. Fu chiamato dal direttore dell’Ospedale. E questi gli disse: «Tu d’oggi in poi non verrai più qua. Tu sei un nemico della Patria. Vattene. E non ti far più vedere».

La situazione divenne critica. Il dottor Sacerdoti non poteva esercitare la sua professione ad Ancona, ma solo tra i pochi Ebrei rimasti in città (molti erano fuggiti). Nell’intervista più volte ricordata egli afferma: «Io non avevo futuro».

A questo punto, uno zio di Sacerdoti, il professor Marco Almagià[5] (fisiopatologo), chiese aiuto al professor Giovanni Borromeo[6], un antifascista. Questi, dal 1934 era primario di medicina presso l’Ospedale Fatebenefratelli di Roma. Tale interazione si concretizzò rapidamente perché Borromeo era stato a suo tempo allievo di Almagià, seguendo le sue lezioni di patologia generale presso l’Università di Roma.

Il dottor Sacerdoti venne chiamato a Roma nel 1941. Al Fatebenefratelli erano rimasti pochi medici. Gran parte di loro era stata richiamata alle armi. La direzione del nosocomio, quindi, aveva necessità di nuovi sanitari. Sacerdoti si presentò a Borromeo mentre questi stava in sala Assunta. Il giovane medico considerate le persecuzioni in atto, non aveva difficoltà a farsi passare per uno studente, o comunque per una figura di basso livello. Borromeo, però, disse subito a un infermiere: «Fra’ Joseph, un camice per il dottore».

Solo per motivi precauzionali Sacerdoti non venne inserito in organico. In tal modo, evitando trascrizioni su registri amministrativi, lo si tutelò da improvvisi controlli esterni.

Con riferimento a questa accoglienza, il dottor Sacerdoti ha affermato: «Da niente ero ritornato nella mia personalità», c’era un rapporto «con persone alla pari», l’ambiente era antifascista.

Il dottor Sacerdoti al Fatebenefratelli

Il dottor Sacerdoti nel laboratorio analisi del Fatebenefratelli (Isola Tiberina a Roma), 1942

Difficoltà e nuovi eventi

In fase di ingresso si verificò comunque un fatto. A raccontarlo è lo stesso Sacerdoti. Un commissario di Polizia, di origine veneta, lo fermò. Si rese conto di aver davanti un perseguitato. Per aiutarlo, gli fece capire che si doveva presentare come uno studente di medicina che faceva pratica in corsia. L’Ospedale era privato. Da qui, una certa tolleranza delle autorità fasciste.

Comunque Sacerdoti, tramite Elio Ottolenghi (un parente), usò anche documenti falsi. Divenne in tal modo Vittorio Salviucci, nato a Salerno in Corso Vittorio Emanuele.

I medici che lavoravano al Fatebenefratelli erano pochi. Nel reparto medicina c’era solo il dottor Sacerdoti con il collega dottor Lorenzo Lapponi.[7] In seguito si aggiunse il dottor Paolo Santambrogio, reduce dall’Albania. Nell’area della chirurgia operava il dottor Giuseppe Rizzi. L’oculista era il dottor Riccardo Galeazzi Risi.[8]

I compiti da espletare, poi, erano numerosi. Sacerdoti racconta, ad esempio, che si doveva occupare pure di alcuni esami radiologici e del laboratorio analisi.

Unitamente alle attività interne, il dottor Sacerdoti si rese disponibile anche per effettuare delle endovenose a domicilio. Fu il professor Alfredo Calò, altro medico ebreo (che era pure chirurgo primario del carcere Regina Coeli), a segnalarlo a più famiglie ebree. In tal modo, poco alla volta, il dottor Sacerdoti divenne il medico di fiducia di varie persone.

Nel frattempo seguiva le vicende del tempo leggendo alcuni giornali: «La Tribuna» di Losanna, «Le Temps» di Parigi, e l’«Osservatore Romano» (specie la rubrica Acta Diurna). Partecipava pure a incontri amichevoli con Ebrei ove fu presente anche la figlia del rabbino Israel Anton Zoller[9]. E di quest’ultimo ascoltò alcune conversazioni sull’Ebraismo.

Dopo il cosiddetto «armistizio breve» (8 settembre 1943), la realtà italiana fu segnata da uno sconvolgimento. Anche Roma subì l’occupazione tedesca.

Il Fatebenefratelli divenne a questo punto un luogo strategico per più persone. Si trattava di fuggiaschi, carabinieri che avevano rifiutato l’internamento in Germania, membri della polizia coloniale (PAI), disertori, combattenti della resistenza, politici, e alla fine, dopo la liberazione, anche fascisti che avevano fatto parte della Repubblica Sociale Italiana.

Unitamente a ciò, il nosocomio dovette essere pronto a curare le vittime dei bombardamenti. Al riguardo il dottor Sacerdoti ricorda l’incursione su Frascati avvenuta l’8 settembre del 1943 (500 civili morti). Molti feriti vennero trasportati nell’Ospedale dell’Isola Tiberina.


Le realtà emergenti

In tale contesto, per il nosocomio, oltre all’espletamento dei normali compiti istituzionali, si aggiunsero altre tre realtà operative: 1) la protezione dei ricercati, 2) la cura di quanti erano rimasti feriti a seguito di conflitti a fuoco con i Tedeschi, 3) la pianificazione di progetti resistenziali.

1) La protezione dei ricercati fu decisa in modo unanime pur conoscendo i rischi. Il Fatebenefratelli – Ospedale accessibile a tutti – era un luogo ove potevano entrare anche delle spie. Inoltre, il nosocomio era posizionato tra due aree urbane[10] che, per motivi legati alla presenza di famiglie e di lavoratori ebrei, costituivano luoghi frequentati assiduamente da delatori.[11] Di questi, oggi si conoscono i nomi.[12] Unitamente a ciò, era anche necessario tentare di attivare una rete di solidarietà nel territorio in grado di creare dei «corridoi» di salvezza in più quartieri dell’Urbe. Su questo punto il dottor Sacerdoti, nell’intervista del 1988, ricorda l’aiuto che gli Ebrei ricevettero dal clero e l’apertura dei conventi. E sottolinea che certamente una mobilitazione cattolica così articolata non poteva sussistere senza «un ordine dall’alto».

2) Gli scontri a Porta San Paolo (settembre 1943) tra Tedeschi e oppositori registrarono un alto numero di morti e di feriti. I casi gravi trovarono accoglienza anche al Fatebenefratelli. In questo nosocomio morì ad esempio, sul tavolo operatorio, l’ufficiale Enzo Fioritto (1921-1943).[13] Non aveva più un braccio e presentava una grave ferita a una spalla. Il dottor Sacerdoti fu tra coloro che tentarono di salvarlo.

In tale contesto, un medico coinvolse in segreto alcuni colleghi del Fatebenefratelli per curare quanti, colpiti dal fuoco nazista, rimanevano nascosti nei più diversi ripari. Si trattò di una scelta coraggiosa. I sanitari dovettero raggiungere i ricercati nei loro nascondigli. Lo fecero rischiando la vita. Al riguardo, nell’intervista del 1988, Sacerdoti afferma che anche lui aiutava i partigiani feriti. Su questa vicenda non fornisce ulteriori dettagli.

3) I progetti resistenziali espressero una comune esigenza: ideare delle risposte militari all’occupazione tedesca, e preparare la popolazione a un possibile sollevamento.

Alcuni membri della resistenza chiesero ai frati del nosocomio il permesso di posizionare una radio rice-trasmittente per collegamenti con le forze anti-tedesche. La richiesta fu accolta. Con l’aiuto dell’inserviente Scarabotti l’apparecchio venne collocato in uno scantinato accanto alle caldaie della cucina.

Nel laboratorio analisi si organizzarono anche degli incontri. Furono discusse linee politiche e attività operative. Tra i partecipanti: l’economo Fra’ Maurizio Bialek[14], alcuni Generali che si erano dati alla macchia (Sabato Martelli e Roberto Lordi), Edoardo Volterra[15] (che si presentò un giorno avvolto da un mantello che celava dei mitra[16]), il primario Borromeo (vicino alla Democrazia Cristiana), esponenti dell’area repubblicana e liberale. Ogni tanto si vedeva anche il conte Dalla Torre[17] che lavorava in Vaticano. In seguito, come ricorda il dottor Sacerdoti, ci fu l’arrivo «dei giovani». Tra questi, Adriano Ossicini[18] (dei Cristiano Comunisti).


Il movimento dei Cristiano Sociali

In tale contesto, si deve ricordare che nel 1941 venne fondato il Movimento Cristiano Sociale.[19] Ne furono promotori Silvestra Tea Sesini[20], Gerardo Bruni[21], Anna Maria Enriques Agnoletti[22] e il dottor Lorenzo Lapponi. Quest’ultimo era chirurgo al Fatebenefratelli. Tale Movimento costituiva una formazione di sinistra dei Cattolici Italiani.[23] Divenne poi Partito Cristiano Sociale. I suoi membri cominciarono a riunirsi in clandestinità e ad attivare azioni resistenziali soprattutto nel Lazio e in Toscana.


16 Ottobre 1943

Il 16 ottobre del 1943, intorno alle 5,30, iniziò il rastrellamento degli Ebrei di Roma. Il dottor Sacerdoti fu subito informato da un frate della Comunità: «Dottore venga, stanno portando via gli Ebrei». Dal nosocomio fu possibile vedere sia un soldato tedesco che trascinava un ragazzo, sia piccoli gruppi di Ebrei che erano spinti verso dei camion che Sacerdoti considerò «strani». Erano infatti coperti da un tipo di telone che non consentiva di vedere all’interno.

Gli arrestati erano soprattutto bambini, donne e anziani. Giovani e adulti erano fuggiti nella convinzione che i Tedeschi cercassero solo gli uomini.

Non fu così. Vennero deportate intere famiglie. Anche neonati.

Quelli che si salvarono caddero in seguito nella rete degli arresti a causa dei delatori.

Ormai la notizia del rastrellamento in corso si era diffusa. Per tale motivo più Ebrei telefonarono ad altri correligionari per avvisare del dramma in atto. Iniziò la ricerca disperata di un rifugio.

Diversi perseguitati che conoscevano il dottor Sacerdoti corsero verso il nosocomio. Chiesero aiuto. Erano circa 27. Trovarono protezione insieme ad altri.[24] L’intera manovra di accoglienza ebbe l’appoggio incondizionato dei frati del nosocomio.

Il movimento frenetico non passò comunque inosservato. Per questo motivo, un medico della Wehrmacht con altri Tedeschi, poco dopo la razzìa, volle ispezionare i locali del Fatebenefratelli.

In tale occasione, il professor Borromeo fece riunire gli Ebrei protetti in una corsia ricavata dividendo la sala dell’Assunta. Venne detto che in tale ambiente c’erano i pazienti colpiti da un morbo di tipo neurodegenerativo e contagioso. Tutto era stato inventato dal primario. Quest’ultimo descrisse i caratteri del morbo ai militari che, alla fine, non procedettero a ulteriori riscontri. Cessato il pericolo, cominciò a girare una battuta. Erano stati salvati i «malati» affetti dal «morbo di K». In questo caso, «K» stava a indicare Kesserling.[25]

Nell’intervista del 1998, Sacerdoti fornì una serie di dettagli interessanti.

1) Raccontò che il riferimento al «morbo di K» non venne usato solo per gli Ebrei ma per chiunque era in fuga da Tedeschi e fascisti.

2) Ricordò il pericolo che gravò sull’Ospedale Israelitico (posizionato sull’Isola Tiberina), e la figura dell’infermiera Teodora (Dora) Focaroli. Quest’ultima affrontò con molto coraggio il dramma del 16 ottobre 1943. Alcuni infermi ebrei trovarono accoglienza al Fatebenefratelli. Altri vennero accompagnati all’Ospedale Littorio (attuale San Camillo).[26] Gli anziani della casa di riposo furono nascosti in una torre inserita nel complesso che accoglieva anche l’Ospedale Israelitico.

Dopo il 16 ottobre 1943, Sacerdoti, che viveva in un appartamento vicino all’Isola Tiberina, si trasferì nel nosocomio. I frati gli assegnarono una stanza che il medico condivise con il dottor Giuseppe Rizzi.

È da ricordare inoltre il fatto che il dottor Sacerdoti fu chiamato anche a curare gli Ebrei rimasti nascosti nell’edificio che accoglieva l’Ospedale Israelitico. I medici che vi lavoravano erano stati costretti a nascondersi altrove.

Pure nei mesi del 1944 il Fatebenefratelli continuò a rimanere un luogo di rifugio. Il dottor Sacerdoti, nell’intervista del 1988, ricorda la partigiana dei GAP Carla Capponi.[27] Quest’ultima stette per qualche tempo nel nosocomio dopo l’attentato di Via Rasella e il successivo eccidio delle Fosse Ardeatine.


Dopo la liberazione di Roma

Il 4 giugno del 1944 il dottor Sacerdoti si trovava assegnato dal servizio medico della Resistenza a svolgere attività professionale al Testaccio, presso la farmacia del dottor Amoroso. In quel giorno le prime truppe alleate fecero ingresso a Roma. Nell’intervista del 1988 egli ricorda un fatto: malgrado il ribaltamento della situazione militare all’interno dell’Urbe, alcuni fascisti continuarono a sparare dall’Aventino. Ci fu qualche ferito. Comunque la situazione venne presto riequilibrata.

Nel dopoguerra il dottor Sacerdoti si mise alla ricerca dei propri cari (passò per Tolentino, Macerata…). Alla fine li ritrovò. Anche loro si erano rifugiati fuori Ancona per non essere catturati dai nazi-fascisti. In questi anni il dottor Sacerdoti ebbe modo di conoscere e di curare anche alcuni Ebrei che erano sopravvissuti ai campi di sterminio. Erano rimasti in pochi. Uno morì a Roma per tifo. Un altro cadde in depressione. Una donna, pur avendo subito degli esperimenti nazisti sul proprio corpo, riuscì a diventare madre. L’attività di medico di famiglia del dottor Sacerdoti venne svolta in un ambulatorio che si trovava in Via Catalana, 10.

L’impegno medico presso l’Ospedale Fatebenefratelli durò fino al 1950. In seguito, con il ritorno di diversi medici al nosocomio, il dottor Sacerdoti lavorò con il dottor Giuseppe Rizzi in un ambulatorio territoriale alla Garbatella. Disponeva anche di un apparecchio radiologico e di un laboratorio analisi. Tale scelta rispondeva a un certo suo «spirito indipendente», ma anche al desiderio di essere operativo in zone ancora non urbanizzate, ove la popolazione era numerosa. In zona si trovavano anche dei pastori.

Pur trascorrendo il tempo, le persone che il dottor Sacerdoti aveva contribuito a proteggere con l’aiuto dei frati del Fatebenefratelli non lo dimenticarono. Ne è prova il fatto che Luciana e Claudio Tedesco fecero piantare in Israele dieci alberi in suo onore a memoria dell’aiuto prestato da Sacerdoti alla loro famiglia durante le persecuzioni razziali.[28]


Alcune sottolineature

Vittorio Sacerdoti è deceduto il 3 agosto del 2005, all’età di 90 anni. È stato seppellito nel cimitero ebraico di Ancona. Era ben noto nella Comunità Ebraica di Roma per la generosità con la quale aveva prestato la sua opera di medico, per l’operato antifascista, e per aver salvato la vita a più Ebrei nel 1943-1944.

1) Di lui è intanto da ricordare quella venatura umoristica che non abbandonò neppure in periodi difficili. Nell’intervista del 1988, ad esempio, ricordò un dettaglio: le analisi delle urine di Pio XII[29] erano effettuate nel laboratorio del Fatebenefratelli (se ne occupava direttamente il primario). In quel caso, sulla fialetta, l’etichetta non riportava il nome e cognome del paziente ma solo l’espressione «Pastor Angelicus».

2) Oltre a questo aspetto esiste, ancora, un dato storico non debole. Nell’intervista del 1988 il dottor Sacerdoti ha ricordato la presenza al Fatebenefratelli di due personaggi: il conte Dalla Torre e l’oculista Galeazzi Lisi.

Giuseppe Dalla Torre fu chiamato nel 1920 alla direzione dell’«Osservatore Romano». Nel 1934 affidò al giovane Guido Gonella[30] una rubrica di commento della politica internazionale: nacquero così gli Acta Diurna.[31] La presenza di Dalla Torre al Fatebenefratelli, confermata due volte dal dottor Sacerdoti, aiuta a evidenziare un dato non debole: il Vaticano poteva conoscere alcune manovre alleate e taluni dati sulle operazioni tedesche grazie anche a coloro che, dentro il Fatebenefratelli, usavano la radio rice-trasmittente. Dalla Torre, in pratica, acquisiva notizie dai resistenti e le trasmetteva a Pio XII e a Guido Gonella.

Ma c’è di più. Anche Riccardo Galeazzi Risi non è una figura anonima. Era il medico personale del Papa.[32] Questo significa che ogni informazione che Galeazzi ascoltava dai resistenti presenti al Fatebenefratelli arrivava poi in tempi rapidi al Pontefice.

Tutto questo, a cui si aggiunge il fatto che il Vicario del Papa per la Diocesi di Roma era protettore dell’Ordine di San Giovanni di Dio, e carissimo amico di Pio XII (si davano del tu)[33], avvalora un dato: Pacelli sapeva delle attività che si svolgevano al Fatebenefratelli, le sosteneva, le seguiva attraverso propri fiduciari, e partecipava con propri fiduciari all’erogazione di generi di prima necessità attraverso i canali caritativi vaticani. Tutto questo avveniva a poca distanza dai centri di comando tedeschi, dalle sedi del Fascio e dai luoghi che furono teatro di crudeli persecuzioni.

3) È interessante, infine, ricordare il fatto che il dottor Sacerdoti, nell’intervista del 1988, ha riconosciuto in Papa Pacelli una vicinanza al popolo tedesco ma non un’altrettanta prossimità al regime nazista. Inoltre, ha evidenziato l’esigenza in Pio XII di mantenere, tra opposti fronti, una politica di «equilibrio», capace di non estendere il numero dei drammi già in atto.


Conclusione

L’attenzione rivolta alla figura del dottor Vittorio Emanuele Sacerdoti rimane a tutt’oggi significativa perché fornisce una serie di dati che fanno meglio comprendere alcune dinamiche. Da una parte egli fu testimone delle discriminazioni razziali e delle persecuzioni (rastrellamento del 16 ottobre 1943). Dall’altra, nell’intervista del 1988, egli sottolinea due volte che nel periodo di Roma «città aperta» non si aveva notizia degli stermini che si stavano realizzando nell’Est. Tutto questo attesta l’esistere di un clima di incertezza che si accentuava con le notizie fornite dagli uffici propaganda degli opposti eserciti. Malgrado ciò, egli conferma l’opera svolta da una rete di solidarietà che unì tra loro Cattolici ed Ebrei e che rimane un segno di luce in un contesto di drammi e di rovine.


Bigliografia

Autori Vari, Roma durante l’occupazione nazifascista. Percorsi di ricerca, Franco Angeli, Milano 2009

P. L. Guiducci, Il III Reich contro Pio XII. Papa Pacelli nei documenti nazisti, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013

A. Ossicini, Il Fascismo al di là del ponte, in: Autori Vari, Chiesa, mondo cattolico e società civile durante la Resistenza, Edizioni di Storia e Letteratura, volume 12 della collana «Ricerche per la storia religiosa di Roma», Roma 2009, pagine 133-150

R. Vommaro, La Resistenza dei Cattolici a Roma (1943-1944), Odradek, Roma 2009.


Ringraziamenti

Fra’ Angelo Lopez, o.h., Priore Comunità Fatebenefratelli, Isola Tiberina (Roma). Dottoressa Laura Brazzo, Responsabile dell’Archivio Storico della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, CDEC (Milano). Dottoressa Giulia Mannelli, Responsabile della Biblioteca della Fondazione Basso (Roma).


Documento

Ospedalieri di San Giovanni di Dio (Fatebenefratelli). Testimonianza di Fra’ Fabiano Secchi, Roma, 14 novembre 2003.

Egli ricorda una lettera di ringraziamento che sarebbe stata inviata dal rabbino di Roma al termine della guerra alla comunità religiosa, e che venne letta ai novizi dal maestro. La ricerca negli archivi (grazie al professor Canestrini) non ha finora dato riscontro positivo, neppure per i registri dei degenti. Nel documento che segue sono stati evidenziati in grassetto alcuni passaggi significativi.

Verso la fine del 1943 iniziavo il noviziato. All’Isola Tiberina, insieme all’ospedale, c’era la curia generalizia e provinciale, oltre alla casa di formazione. In tutto eravamo una sessantina. Durante il giorno noi giovani aiutavamo per qualche ora in corsia.

Tra i medici che prestavano servizio, ce n’erano due o tre ebrei.

Per la vicinanza al ghetto, conoscevamo parecchie famiglie ebree, che spesso venivano per farsi curare.

In quei mesi vennero molti Ebrei: erano uomini, per lo più adulti, di modeste condizioni economiche.

Alcuni potevano essere ricoverati, finché c’era posto. Si attribuivano loro nomi di ex degenti, si procuravano le radiografie e le cartelle cliniche, per essere preparati alle ispezioni.

Venivano fasciati e bendati, e si fermavano alcuni giorni, finché durava il maggior pericolo. Camuffati tra gli altri, talora andavano persino a fare la comunione.

Alcuni si travestirono da frati. Quando trapelava la notizia di rastrellamenti imminenti arrivavano in gruppi numerosi.

La maggioranza, così, dalla corsia denominata Sala Assunta, che poteva ricevere una quarantina di degenti, scendeva da una botola situata dietro l’altare che si trovava in quella sala.

Con molta disinvoltura scendevano e risalivano, quando sembrava passato il pericolo.

Dalla botola arrivavano su un marciapiede che costeggiava il Tevere, attraverso un tunnel; più avanti c’erano le acque di scarico. Indietro c’era uno slargo con terra battuta, che consentiva anche di sdraiarsi.

Rimanevano lì finché durava il rischio. Poi uscivano, andavano in campagna, o tornavano anche in famiglia.

Erano loro i meglio informati dei rastrellamenti, perciò andavano e venivano senza dare nell’occhio.

In vari momenti furono più di 46, quanti ne menziona De Felice, mentre in altri momenti di calma magari non rimaneva nessuno.

Questo andirivieni durò per mesi, per tutto il tempo del pericolo.

In genere i rifugiati erano gli stessi, ma a volte se ne aggiungevano di nuovi.

Il Padre maestro dei novizi, Clemente Petrillo, era anche consigliere provinciale e fu il diretto responsabile di tale ospitalità.

Aveva varie conoscenze in Vaticano, poiché prima era stato nella farmacia vaticana.

Qualche volta era un sacerdote a raccomandare degli Ebrei. Molto spesso era anche la signora Lella, la sorella di Aldo Fabrizi, che aveva una pensione vicina a noi e all’ospedale degli Ebrei, e conosceva il maestro.

Noi non sapevamo i cognomi dei rifugiati, ma solo alcuni nomi, perché diventavamo amici. In molti casi la comunicazione era limitata al momento della distribuzione del cibo o, se erano a letto tra i degenti, si stava molto attenti, perché c’era il continuo pericolo di spie.

Il Padre maestro ci raccomandava il silenzio con tutti gli esterni.

Mentre erano lì sotto la botola, il maestro mandava i giovani a calare dei grossi panini o altro cibo.

Talvolta erano i loro familiari che portavano del pane, ma in genere non mancò il necessario, poiché l’ospedale era fornito e non tutti i malati consumavano quanto era assegnato a ciascuno. Poi c’erano i frati più anziani che si privavano per lasciare a noi giovani qualcosa in più.

Gli Ebrei in genere erano poveri, perciò nessuno pagò una pensione. Anzi qualche volta, conoscendo le famiglie, il maestro mandava qualche giovane novizio a portare una busta di cibo dove sapeva esserci dei bambini.

Non si parlava di religione, né si offrirono loro delle istruzioni e tanto meno pressioni.

Quando erano ricoverati, spontaneamente a volte si associavano alla preghiera del Rosario.

Noi Fatebenefratelli sin dall’inizio eravamo formati a considerare il malato in quanto essere umano, figlio di Dio e nostro fratello.

La cura da prestargli non era assolutamente condizionata dal credo o dalle idee politiche. Le nostre regole inculcavano questi principi e non si teneva conto di pregiudizi anti-giudaici.

Per questo avevamo medici ebrei e anche l’accoglienza degli Ebrei ci venne molto spontanea. Tanto più che se qualche paziente era in fin di vita, e sapevamo a quale religione aderisse, ci preoccupavamo di chiamare una persona di riferimento per lui per i conforti religiosi.

Ci furono dei momenti di grande paura, perché eravamo sempre circondati dai Tedeschi.

Una volta ci trovammo in refettorio coi mitra puntati a causa di una spiata.

Il Generale Caluso aveva individuato che in casa si trovava una radio trasmittente, ed era vero, anche se nessuno di noi lo sapeva e neppure il provinciale.

Il priore della casa, un Polacco, la usava per trasmettere informazioni sugli spostamenti dei nazisti. L’aveva posizionata sul terrazzo, e noi novizi sentivamo alcuni segnali dall’ambiente dove studiavamo.

Mise a rischio la vita di tutti noi e dei malati.

Quando arrivarono per la perquisizione, il maestro era riuscito a prendere la radio e farla sparire buttandola nel Tevere. Così non la trovarono.

Alla fine della guerra, molti Ebrei ringraziarono e si mantennero in contatto. Il rabbino scrisse al Padre provinciale una lettera di ringraziamento, che ci venne letta e forse si trova ancora in archivio.

Si scriveva la cronaca della casa, ma molto probabilmente queste cose non vennero annotate perché sarebbero state pericolose. Nei registri dei ricoverati magari potevano comparire i nuovi degenti, ma con falso nome.

Il Padre maestro ci diceva che molti istituti di suore lì vicino facevano tanto bene agli Ebrei, in particolare le Maestre Pie Filippini, che avevano ambienti sicuri, come cantine e scantinati.

Alla fine della guerra, due degli Ebrei ex rifugiati, poveri, in momenti diversi, chiesero di poter vivere con noi. Uno, di nome Giorgio, svolgeva le mansioni di inserviente, e dopo tempo, chiese anche di essere battezzato. Un altro, Righetto, fu impiegato come portiere al nuovo Ospedale San Pietro sulla Cassia, e rimase fino alla fine dei suoi giorni, restando nella sua fede.

(Fonte: G. Loparco, Gli Ebrei negli istituti religiosi a Roma (1943-1944), dall’arrivo alla partenza, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», fascicolo 1, Vita e Pensiero, Milano 2004, pagine 207-208)


Note

1 Shoah Foundation Institute (Los Angeles), Testimony of Vittorio Emanuele Sacerdoti. Oral History. VHA Interview Code: 41839. 15 maggio 1998. Intervistatrice: Elisabeth Levy Picard. Durata: 02:53:25.

2 Rodolfo Sacerdoti, nato a Modena l’11 giugno 1881. Era commerciante all’ingrosso di carboni. Celeste Dolce Almagià, nata ad Ancona il 26 agosto 1884. Il loro matrimonio venne combinato a Roma da alcuni parenti che già vivevano nell’Urbe.

3 In ordine cronologico (dal più grande al più piccolo): Sara, Enzo, Vittorio Emanuele, Cesarina.

4 Piazza Altamura 14, Ancona.

5 Marco Almagià (1877-1969).

6 Giovanni Borromeo (1898-1961). Primario ospedaliero. Antifascista. Dichiarato «Giusto tra le Nazioni». Medaglia d’argento al valor militare.

7 Lorenzo Lapponi nacque a Roma il 16 gennaio 1912. Abilitato nel 1935 come medico chirurgo alla Regia Università di Genova. Divenne tenente nel corpo sanitario degli ufficiali generali del corpo d’armata. Nel 1954 fu tra i fondatori dell’Associazione Italiana dei Centri Trasfusionali. Morì nel 1964.

8 Riccardo Galeazzi Risi (1891-1968).

9 Israel Anton Zoller (1881-1956).

10 L’area dell’antico Ghetto e Trastevere.

11 Celeste Di Porto (1925-1981), residente in Via della Reginella 2 e legata a Vincenzo Antonelli (banda Pollastrini e Bardi), operava ad esempio tra l’area dell’antico Ghetto e i quartieri limitrofi.

12 Gli Ebrei a Roma: occupazione, resistenza, accoglienza e delazioni (1943-1944), a cura di S. Haia Antonucci  e C. Procaccia, Viella, Roma 2017.

13 Medaglia d’oro al valor militare.

14 Maurizio Bialek (1912-2009). Polacco. Economo dell’Ospedale dell’Ordine del Fatebenefratelli, Isola Tiberina (Roma). Medaglia d’argento al valor militare (1946).

15 Edoardo Volterra (1904-1984). I suoi genitori furono Vito e Virginia Almagià.

16 Fu capo di zona militare nella regione dei Castelli Romani, ove organizzò bande armate e piccoli Comitati di resistenza contro i Tedeschi. Fu denunciato da una spia e ricercato dalle polizie tedesca e fascista.

17 Giuseppe Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto (1885-1967).

18 Adriano Ossicini (1920-2019).

19 Fondato nel 1941. Confronta anche: V. Tedesco, Il contributo di Roma e della provincia nella lotta di liberazione, Amministrazione Provinciale di Roma, Roma 1967, pagina 53 e pagina 262.

20 Silvestra Tea Sesini (1887-1960).

21 Gerardo Bruni (1896-1975). Fu l'unico rappresentante del Partito Cristiano Sociale nell'Assemblea Costituente della Repubblica Italiana.

22 Anna Maria Enriques Agnoletti (1907-1944). Partigiana. Fucilata dai nazisti. Insignita di medaglia d'oro al valor militare alla memoria.

23 Confronta anche: R. Vommaro, La resistenza dei Cattolici a Roma (1943-1944), Odradek, Roma 2009, pagina 77.

24 Si arrivò a una cinquantina di Ebrei. In realtà il numero delle persone nascoste è superiore se si considera il fatto che molti perseguitati usarono il Fatebenefratelli come tappa intermedia. Adriano Ossicini redasse, in tempi successivi, un elenco degli Ebrei registrati come degenti: 62 tra uomini, donne e alcuni bambini. Sei furono registrati due volte, perché rientrarono. Confronta A. Ossicini, Un’isola sul Tevere. Il fascismo al di là del ponte, Editori Riuniti, Roma 1999, pagine 219-222. Anche il dottor Sacerdoti, nell’intervista del 1988, fa riferimento a Ebrei che uscivano e che poi tornavano.

25 Albert Konrad Kesselring (1885-1960). Generale tedesco. Grado di Feldmaresciallo. Dall'estate 1943 ebbe il comando di tutte le forze tedesche in Italia. Evidentemente si giocava su diversi significati. La lettera K poteva anche significare morbo di Koch (tubercolosi), morbo di Krebs (problemi di metabolismo), e altri.

26 F. Giansoldati, Dora Focaroli, l’infermiera che ha salvato decine di Ebrei all’Isola Tiberina, in «Il Messaggero», lunedì 27 maggio 2019.

27 Carla Capponi (1918-2000). Medaglia d’oro al valor militare.

28 Si conserva ancora al CDEC di Milano copia della locandina del Keren Kayemeth Leisrael: «10 alberi in onore del dottor Vittorio Sacerdoti».

29 Pio XII: nato nel 1876 (Eugenio Pacelli). Pontefice dal 2 marzo 1939 al 9 ottobre 1958 (anno della morte).

30 Guido Gonella (1905-1982).

31 Acta Diurna: rubrica di informazione su fatti internazionali.

32 Il fratello, Enrico Pietro Galeazzi (1896-1986), ebbe da Pio XII il titolo di architetto dei sacri palazzi apostolici e le cariche di direttore generale dei servizi tecnici e di quelli economici.

33 Cardinale Francesco Marchetti Selvaggiani (1871- 1951).

(settembre 2019)

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