L’Italia nel Settecento
Nel secolo dei Lumi, un Paese in bilico fra stagnazione e riforme

È il capodanno del 1700 e, tra i fuochi d’artificio che accendono nel cielo fontane di luce, gli Spagnoli nel Milanese e nel Napoletano brindano al futuro. Sono ancora i padroni incontrastati della Penisola anche se si avvertono, in sordina, i primi scricchiolii del loro vasto Impero: la Monarchia Spagnola non ha più soldi, ha fatto più volte bancarotta, l’oro venuto dall’America ha abituato il popolo a non lavorare e a non produrre.

Il 1700 è appena cominciato che muore il Re di Spagna Carlo II d’Asburgo. Poiché non lascia figli, si scatena fra i Sovrani Europei la lotta per succedergli, una lotta che durerà 13 lunghi anni e che ridurrà per sempre la Spagna ad una potenza di second’ordine.

La pace di Utrecht del 1713, il trattato di Rastatt dell’anno successivo e il trattato dell’Aja del 1720 segnano la fine del dominio spagnolo in Italia. La Penisola, però, non acquista l’indipendenza, ma diviene una merce di scambio fra le grandi potenze e il Paese in cui si può sempre trovare un trono per qualche principe ambizioso ma sfortunato.

Alla Pace di Aquisgrana (in Germania) del 1748, il panorama italiano è totalmente diverso da quello ch’era ad inizio secolo: gli Spagnoli se ne sono andati e i vari stati hanno cambiato padrone più volte – nel Piemonte regnano i Savoia, in Lombardia gli Austriaci, Venezia è rimasta indipendente, il Ducato di Parma è passato ai Borbone, a Firenze i Medici si sono spenti ed è succeduto loro Francesco II di Lorena, sul trono di Napoli siede un Borbone, la Sicilia è passata prima agli Inglesi, poi al Piemonte per il suo contributo nella guerra dell’Austria contro la Francia, ed infine è stata congiunta al Regno di Napoli.

Se l’Italia è divenuta una preziosa merce di scambio negli accordi internazionali e gran parte di essa è sottoposta al dominio più o meno diretto dell’Austria, è però anche rinata a nuova vita: il cinquantennio di pace consente in quasi tutti gli stati della Penisola la riparazione dei danni prodotti dalle guerre e il riordino del governo e dell’amministrazione, le città si popolano, il commercio cresce, le campagne vengono coltivate razionalmente; una corrente di novità, un soffio di freschezza la pervade tutta. Siamo nel «Secolo dei Lumi», quel secolo in cui si vuole guardare al passato con occhio critico, quel secolo in cui la cultura, il pensiero, l’economia fanno passi da gigante in tutta Europa: a questo movimento, detto «Illuminismo», l’Italia partecipa con fervore; Milano e Napoli saranno i maggiori centri propulsori dell’Illuminismo Italiano.

Nascono in ogni città riviste e giornali: riviste letterarie, di agricoltura, di medicina, riviste dedicate alle donne; i problemi del momento vengono dibattuti, le nuove idee corrono e si diffondono. Dal 1668 al 1681 esce a Roma, a cura dell’Abate Francesco Nazzari, il «Giornale dei letterati»; un altro, con lo stesso titolo, esce a Parma negli anni 1668-1679 e 1686-1690; a Venezia dal 1696 al 1717 esce la «Galleria di Minerva», che tratta di letteratura «sia sacra che profana»; altri giornali famosissimi seguono questi iniziatori: «Il giornale dei letterati d’Italia» di Apostolo Zeno (Venezia, 1710-1740), «La Frusta letteraria» di Giuseppe Baretti (1763-1765), «Il caffè» (1764-1766). I libri stranieri sono letti in Italia l’anno dopo l’edizione in lingua originale, le traduzioni si moltiplicano, i teatri mettono in scena nuove commedie, la cultura si muove verso il popolo, gli autori scrivono per un pubblico sempre più vasto: è tutto un fermento di studi, di iniziative, di discussioni, di speranze che danno al Settecento Italiano un carattere di dinamismo e di fervore quale il Paese non ha mai conosciuto prima. Non bisogna però dimenticare che, mentre da tempo in Europa si sono andati formando dei potenti stati unitari, l’Italia è purtroppo ancora divisa in tanti stati che diffidano l’uno dell’altro.

Osserviamo ora meglio, più nel dettaglio, il variegato panorama italiano.

Tra tutti gli stati italiani, solo il Piemonte ha seguito fin dagli inizi del Settecento un’accorta politica diplomatica. Durante gli anni di conflitto tra le grandi Potenze Europee per le crisi dinastiche e le lotte di successione, i principi di Casa Savoia si destreggiano abilmente alleandosi via via a quelle nazioni che, per avere il loro aiuto militare, promettono grandi compensi territoriali. Dopo essere rimasto soggetto all’egemonia francese dal trattato di Cherasco (1631) alla lega di Augusta (1690), con il trattato di Pinerolo (1696) il Ducato di Savoia si libera dalle ingerenze degli stati stranieri. Conquista il Monferrato ed Alessandria; con la pace di Utrecht (1713) acquista la Sicilia e riceve il diritto al titolo regio; con la pace dell’Aja (1720), cambia la Sicilia con la Sardegna, conservando il titolo regio – nasce così il Regno di Sardegna, che tanta parte avrà nelle vicende italiane del secolo seguente! Alla Pace di Aquisgrana esso comprende la Sardegna, il Ducato di Savoia, una parte della costa ligure con Nizza e il Piemonte, il confine del quale viene portato al Ticino. Vittorio Amedeo II intraprende delle riforme: abolisce i privilegi del clero e della nobiltà, ingrandisce l’Università di Torino, distribuisce le tasse fra i ceti più ricchi, chiama attorno a sé i nobili e ne fa dei Generali, degli ambasciatori, degli amministratori. Il periodo migliore del Regno di Sardegna è quello di Carlo Emanuele III (1730-1773): egli cura soprattutto le riforme di carattere militare, con l’intento di migliorare l’efficienza dell’esercito, e dà inoltre l’avvio ad importanti opere edilizie che fanno di Torino una delle città più belle d’Italia. Sotto Amedeo III, invece, il moto di riforme si arresta: l’amministrazione piemontese resta buona, i nobili hanno incarichi nello stato, ma non circolano più idee vive, l’atmosfera si fa stagnante, pesante, il clima non è «illuministico»; molti spiriti inquieti evadono e cercano Paesi più liberi, come l’Inghilterra: uno di questi è il poeta Vittorio Alfieri che percorre vagabondando mezza Europa, dalla Francia alla Russia – nel panorama letterario italiano è il più grande tragediografo e la prima voce autentica, dopo la letteratura cortigiana del Seicento, a riportare la meditazione su grandi temi come la libertà e la tirannide.

La Repubblica di Genova, ancora indipendente, sebbene i traffici marittimi continuino ad essere fiorenti attraversa un periodo politico poco felice, continuamente sconvolta dalle lotte fra le varie famiglie aristocratiche, come già si è verificato nei secoli precedenti. Il governo dispotico dei nobili che si succedono al potere suscita in Corsica delle violente insurrezioni: quando nel 1768 Genova si rende conto di non riuscire a domare le rivolte, preferisce cedere l’isola alla Francia; l’anno dopo nasce in Corsica Napoleone, che per questo – nonostante sia figlio di genitori italiani – è considerato cittadino francese.

La Lombardia, passata dalla dominazione spagnola a quella austriaca, compie rapidi progressi economici e sociali e diventa la regione italiana più all’avanguardia nel settore delle riforme, grazie soprattutto a Maria Teresa d’Austria[1] (1740-1780) e all’Imperatore Giuseppe II (1780-1790). Intelligenti iniziative stimolano la vita commerciale lombarda, l’agricoltura è redditizia, i terreni sono bene amministrati, le colture ben scelte, l’allevamento del bestiame razionale; un Inglese che se ne intende, Arthur Young, dopo aver visto la campagna tra Milano e Lodi, scrive che l’agricoltura lombarda gli ricorda le migliori fattorie del suo Paese. Inoltre, mentre finora le tasse sono state pagate solo dal popolo, Maria Teresa introduce un nuovo sistema per cui anche la nobiltà ed il clero vengono tassati: per questo scopo, viene fatto nel Milanese il censimento di tutti i terreni e le proprietà esistenti. Tra zona e zona si aboliscono i dazi, il commercio prospera rapidamente, vengono compiuti lavori stradali, canali, argini ai fiumi. Milano vive un periodo di splendore anche sul piano culturale: nel 1778 s’inaugura il suo grande teatro, La Scala, destinato a divenire il più grande teatro lirico al mondo (qual è anche attualmente). Molti Italiani partecipano a questo rinnovamento, come Pietro Verri, Cesare Beccaria, Gian Rinaldo Carli, mentre il più grande poeta del Settecento, Giuseppe Parini (1729-1799) nel Giorno fustiga a sangue la vita ignava dei nobili; intento moralistico, unito ad una potente lirica, hanno anche le sue Odi, fra cui famosissima è La caduta.

Nel XVIII secolo, l’antica e gloriosa Repubblica di Venezia, pur rimanendo indipendente, comincia a dare chiari segni di decadenza: di fronte all’Austria, che dal porto di Trieste cerca di dominare sull’Adriatico, la Serenissima non è in grado di reagire – la sua flotta, un tempo padrona dei mari, è ormai troppo modesta e quasi del tutto inoperosi sono i suoi cantieri. La società non è più capace di slanci e di innovazioni: i nobili vivono ritirati nelle loro ville, ogni città è quasi autonoma, manca un governo centrale autoritario, la vita economica è lenta, pesante, asfittica; nel corso del secolo ci sono alcuni Dogi che tentano di introdurre delle riforme per ridare alla Repubblica la gloria di un tempo, ma il Consiglio dei Dieci stronca inesorabilmente ogni tentativo. È sul piano artistico che Venezia continua a brillare: la pittura malinconica e sognante di Antonio Canal detto il Canaletto (1697-1768) che inizia la serie dei grandi vedutisti, il grande musicista Vivaldi (1677-1741) detto «il prete rosso» che ha composto – tra gli altri – Il cimento dell’armonia e dell’invenzione e le migliori pagine di musica descrittiva di paesaggi ed emozioni campestri, le grandi commedie di Carlo Goldoni (1707-1793) che trionfa su Pietro Chiari (1711-1785) e Carlo Gozzi (1720-1806). A Venezia lavorano anche i pittori Sebastiano Ricci (1659-1734), Rosalba Carriera (1675-1757), Giambattista Piazzetta (1682-1754), Giambattista Tiepolo (1696-1770) e suo figlio Giandomenico Tiepolo (1727-1804), Pietro Longhi (1702-1785) e suo figlio Alessandro Longhi (1733-1813), i vedutisti Francesco Guardi (1712-1793) e Bernardo Bellotto (1720-1780).

Il Granducato di Toscana, estintasi nel 1737 la famiglia dei Medici, passa sotto la dinastia austriaca dei Lorena-Asburgo. È lo stato italiano in cui vengono attuate le maggiori riforme, soprattutto grazie al Granduca Pietro Leopoldo, figlio di Maria Teresa d’Austria (c’è una linea comune che collega la Toscana al Milanese): durante i suoi 25 anni di regno, dal 1765 al 1790, egli s’adopera per migliorare le condizioni economiche del suo stato, con provvedimenti quali la bonifica di vaste zone della Maremma, o l’abolizione delle leggi che impediscono l’esportazione del grano. La legge della libera circolazione dei grani viene votata in Toscana nel 1775, e introdotta anche a Milano nel 1786; è la realizzazione della tesi sostenuta fra gli altri anche dall’Abate Ferdinando Galiani (1728-1787) nel dialogo Il commercio dei grani. Su tutti i terreni viene messa un’imposta, i bilanci dello stato sono resi pubblici. Il Granducato di Toscana è anche il primo stato, nel mondo, ad abolire la tortura e la pena di morte, per l’impressione suscitata in Pietro Leopoldo dal libro Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria![2] In pratica, tutti i territori retti dagli Asburgo d’Austria godono di una perfetta amministrazione, una burocrazia efficiente, funzionari onesti e capaci.

Tra tutte le nazioni nelle quali è suddivisa l’Italia nel Settecento, lo Stato Pontificio è economicamente il meno prospero: tanto l’agricoltura quanto l’industria vengono quasi completamente trascurate. Pio VI, al secolo Giovanni Angelo Braschi di Cesena, uno dei migliori Papi del periodo illuminista, tenta subito, l’anno stesso dell’elezione (il 1775), un mutamento di rotta: fa prosciugare una parte delle paludi pontine e completa il Museo Pio-Clementino; ma la riforma tributaria iniziata sotto buoni auspici si arresta poco dopo per la forte resistenza incontrata fra la nobiltà, solo a Bologna il Cardinale Boncompagni-Ludovisi porta a termine – fra notevoli difficoltà – il censimento delle proprietà fondiarie; deportato, per ordine di Napoleone, prima a Siena, poi a Firenze e infine a Valenza, in Francia, Pio VI muore in terra straniera il 29 agosto 1799. In questo periodo lo Stato Pontificio è però il maggior centro artistico d’Italia: la città è tutta racchiusa nel cerchio delle sue mura, disseminata di antichi monumenti, cosparsa di verdi ville cardinalizie e dei palazzi nobiliari sorti nel Seicento; la vita è tranquilla, quasi ferma nel tempo. Per questa atmosfera incantata, la città sta diventando la capitale dell’arte, un centro cosmopolita, un luogo di convegno per scrittori, poeti, pittori, mercanti d’arte; quasi tutti i Papi sono grandi protettori delle lettere e delle arti e invitano alla loro Corte i migliori artisti del secolo per abbellire le chiese, i palazzi e gli edifici pubblici di Roma: venire a Roma diventa un obbligo per ogni persona colta, una moda. La bellezza della città invita alla contemplazione, per molti il viaggio a Roma è una rinascita spirituale, e non si tratta solo dei pellegrini che giungono numerosi nei giubilei celebrati periodicamente, ma anche degli artisti: il grande poeta Goethe (1749-1832) vi resta un anno e mezzo, il pittore Vernet 19 anni, Raffaello Mengs – anche lui pittore – si fa trasportare malato e stanco a Roma per morirvi, Byron la celebra come «città dell’anima», i maggiori artisti dell’epoca vi mettono su studio per qualche anno ed affinano qui la loro vocazione. Prendono alloggio ai migliori alberghi romani: Corona di Francia in Via Condotti, i Tre Gigli a Sant’Andrea delle Fratte, Hotel dei Tre Re a Via del Babuino e l’Albergo Monte d’Oro in Piazza di Spagna. Rientrati in patria, gli artisti narrano le loro esperienze: una delle opere più fortunate, accanto al Viaggio in Italia e alle Elegie romane di Goethe, è il Voyage d’Italie di Misson, del 1688.

Il Regno di Napoli e di Sicilia, dopo la lunga dominazione spagnola, nel 1738 passa nelle mani di Carlo III di Borbone, imparentato con la famiglia reale spagnola: il nuovo Sovrano, che regna fino al 1759, riesce a migliorare di molto lo stato di miseria in cui gli Spagnoli hanno lasciato il Regno, facendo costruire nuove strade per favorire il traffico commerciale, dando nuovo impulso all’agricoltura e cercando di migliorare le condizioni dei contadini, oppressi dalle prepotenze dei grandi proprietari terrieri; costruisce anche la grande reggia di Caserta. Purtroppo lui e i suoi successori non riescono a vincere la resistenza della nobiltà e del clero: i terreni restano in maggioranza nelle loro mani, inoltre nobiltà e clero godono di grossi privilegi; il risultato è che anche i membri del popolo più capaci non riescono a prendere in mano le redini dello stato. I prodotti agricoli, prima di giungere sui mercati, passano per molti intermediari e i prezzi salgono alle stelle. Chi specula sulle disfunzioni della società meridionale sono gli avvocati, che in nessun’altra parte d’Italia sono numerosi come nel Mezzogiorno.


Note

1 Donna sicuramente capace, ma notoriamente austera, un aneddoto racconta che Maria Teresa d’Austria abbia sorriso solamente dinanzi ad una pastiera napoletana – un tipico dolce pasquale – provocando il commento ironico e sconsolato del marito, che si dolse di dover aspettare, per vederla sorridere nuovamente, la... Pasqua dell’anno successivo.

2 Per fare un paragone, in Spagna la pena di morte viene abolita nel 1978 (le ultime esecuzioni avvengono nel 1975); in Francia, nel 1981 (con l’ultima condanna eseguita nel 1977); in Germania, nel 1949 nella Repubblica Federale Tedesca (con l’ultima esecuzione nello stesso anno) e nel 1987 nella Repubblica Democratica Tedesca (con l’ultima esecuzione nel 1981); nel democraticissimo Regno Unito, la pena di morte viene abolita solo nel 1998 (con l’ultima condanna eseguita nel 1964). Attualmente, la pena di morte è ancora in vigore in alcuni stati del mondo quali per esempio la Cina (il Paese al mondo con più esecuzioni), l’Iran, l’India, il Giappone e in più della metà degli Stati Uniti d’America (14 stati non la prevedono nel loro statuto; lo stato con maggiori esecuzioni è il Texas).
Per quanto riguarda l’Italia, la pena di morte è abolita nel Regno d’Italia già nel 1889 per opera del Ministro liberale Giuseppe Zanardelli (tranne che per il regicidio, l’alto tradimento e i delitti commessi in tempo di guerra). Reintrodotta dal fascismo, è stata espressamente vietata dalla Costituzione della Repubblica Italiana del 1948 (eccettuati i casi previsti da leggi di guerra); nel 1994 viene abolita completamente anche nel codice penale militare di guerra; l’ultima esecuzione risale al 1947, a Torino.

(dicembre 2016)

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