Sotto il Velo
Riflessioni sulla Cappella di San Severo in Napoli

di Carlo Rey Lacsamana
con prefazione di Roberto Pizzi

Fu grazie alla squisita ospitalità del mio caro amico napoletano, Gino Ercolino, che ebbi il piacere di istruirmi al culto della bellezza in una gita a Napoli, nell’aprile del 2016, visitando – fra l’altro – l’ affascinante, intrigante Cappella del Principe di San Severo, nel cuore della città. Potei godere, allora, della bellezza e della magia di questo tempio, nel quale «una “wouivre” di acque sotterranee» circola andando originariamente a congiungersi e a dilagare nella Cappella attraverso il pavimento di marmo, quasi a sottolineare l’Essenza divina che permea l’intero Universo.

Questa energia che scaturisce dalle profondità della terra, chiamata col nome gallico di «wouivre», è figlia di una delle correnti telluriche che serpeggiano nel sottosuolo del nostro pianeta (alcune fuoriescono da acque sotterranee, altre provengono dal più profondo magma terrestre), rappresentando il sistema sanguigno circolatorio che irrora e rende feconda la Terra. Questa suggestiva parola straniera ci richiama anche alla particolarità del nostro territorio: si è detto che Lucca vive sull’acqua e l’acqua ha umori oscillanti, ha iridescenze sotterranee, sussulti, alte e basse maree. Ciò si riflette, in qualche modo, sul carattere degli abitanti che sentono il palpito di Venere e le inquietudini di Eolo. Chi vi soggiorna, anche per poco, non è esente dai suoi influssi che generano vibrazioni e danno all’anima il brivido del transito. E poi… a Lucca abita Ilaria, l’incarnazione della poesia, dell’amore, il miracolo della nostra città. Perché escludere, allora, che la sapienza di Gino Ercolino, quasi fosse un naturale mandatario del Principe di San Severo, non voglia permetterci, con la sua corrente di energia invisibile, di ristabilire un antico collegamento dimenticato fra la storia napoletana e quella lucchese, stimolati dalla visione del magico tempio che ospita il Cristo velato?

Elena Pierotti, attenta e appassionata ricercatrice, sostiene che Lucca e Napoli ebbero contatti e relazioni antiche, a partire dalle Crociate e che successivamente vi furono innumerevoli ragioni per portare alcune famiglie partenopee a trasferirsi a Lucca, addirittura imparentandosi con notabilati locali.

Ma la prima corrente tellurica più notevole dalla quale ci facciamo avvolgere è quella legata a Francesco Xaverio Geminiani (Lucca, 1687-Dublino, 1762), grande violinista lucchese. Quarto di undici figli, ebbe i primi insegnamenti musicali dal padre Giuliano, il quale lo mandò a Napoli per perfezionare il suo talento. Qui ebbe per maestri Ambrogio Lunati (detto il Gobbo) e Alessandro Scarlatti, fondatore della Scuola Musicale Napoletana. Nella città partenopea, nel 1705 debutterà presso il Collegio dei Nobili, entrando in contatto con gli ambienti aristocratici. Nel 1706 divenne Primo Violino del Teatro dei Fiorentini di Napoli. Nel 1714, all’età di 27 anni partirà per Londra dove inizierà una nuova vita. Nella città del Tamigi, all’inizio del Settecento, non vi era una vera scuola di violino e Geminiani, anima libera, virtuoso allievo prediletto di Corelli, ebbe porte aperte, affermandosi artisticamente. Sarà di nuovo a Napoli nel 1728 per una missione particolare assegnatagli dall’Inglese lord Henry Hare di Coleraine.

Il nostro filone sotterraneo di collegamento tellurico lucchese con la città del Vesuvio si alimenta ancora intorno alla figura di un altro nostro concittadino, Giuseppe Binda, che fu agente segreto al servizio di Gioacchino Murat, Re di Napoli (1808-1815), fino alla fine dell’epopea napoleonica. Si segnala, in proposito, un intrigante recente libro dal titolo Diario di una spia, Giuseppe Binda tra Canova e Napoleone (di Adriano Amendola, Skira, Milano, novembre 2022), che fa conoscere una figura lucchese di rilievo, ai più sconosciuta. Ma oltre a Binda ecco comparire un’altra figura emblematica, il marchese napoletano del Gallo, che rappresentò un plenipotenziario di rango sia per Gioacchino Murat che per i Borbone Napoletani. Il marchese del Gallo era in simbiosi anche con il Duca Lucchese Carlo Ludovico di Borbone-Parma, cugino degli omonimi dinastici napoletani, e godeva di un personale palazzo proprio in Lucca, in una via che ancora oggi porta il suo nome. E ancora, durante i moti insurrezionali del 1820, che scoppiati a Napoli, furono i primi di una lunga serie concretizzatasi nel corso del nostro Risorgimento, ecco comparire un’altra figura lucchese: il conte Carlo Massei. Proprio in quell’anno era in Napoli, al momento dei fatti rivoluzionari; lo ritroveremo nel 1832 in Corsica, inviato dai Borbone-Parma, ufficialmente per questioni di agronomia, in realtà per ragioni politiche legate al partito bonapartista córso (fonte: Elena Pierotti).

Appurata, così, quella corrispondenza a diverse latitudini tra Lucca e Napoli, è tempo di lasciare spazio alle parole di Carlo Rey Lacsamana, che ci illustra liricamente le sue emozioni provate in una recente visita in quel tempio esoterico che è la Cappella del Principe di San Severo.

(Roberto Pizzi)


Sotto il Velo

«Non si scattano foto per favore, grazie», dice la voce meccanica dell’addetto alla cappella quando si entra nella Cappella di San Severo, nel centro storico di Napoli, mentre controlla il biglietto d’ingresso. Poi ci si accorge di quanto sia piccola la cappella, circa 90 metri quadrati, circondata da opere d’arte del XVIII secolo. Dall’incombente affresco del soffitto, opera di un artista di nome Francesco Maria Russo, alle numerose sculture in marmo di vari artisti dell’epoca, ognuna delle quali merita un’attenzione particolare, si respira un’aria vertiginosa di abbondanza e di eccesso che provoca, se non si sta abbastanza attenti, un’indigestione estetica. A questo gruppo si aggiungono gli instancabili turisti che, nonostante la delusione per essere stati disarmati della loro inclinazione fotografica, si godono comunque lo scenario rococò chiuso della cappella.

Mentre iniziate a ricomporvi, la cosa che attira la vostra attenzione è il centro della cappella. I vostri occhi si dirigono verso le piante dei piedi coperte da una sottilissima coperta di un uomo apparentemente addormentato. La coperta, simile a seta, è così sottile che si può tracciare la forma delle dita dei piedi in lontananza, con un angolo di circa 45°. Avvicinandosi ci si accorge che i piedi non sono quelli di un aristocratico. Sono i piedi di chi ha conosciuto la fatica e le difficoltà, di chi ha camminato per tutta la vita, le suole callose e dure, le vene spesse e sporgenti parlano da sole.

Cristo velato

Giuseppe Sanmartino, Cristo velato, 1753, Cappella Sansevero, Napoli (Italia)

Cristo velato, particolare

Giuseppe Sanmartino, Cristo velato, particolare, 1753, Cappella Sansevero, Napoli (Italia)

Il Cristo velato dell’artista napoletano Giuseppe San Martino. È difficile credere che quest’opera, lunga circa 180 centimetri e dall’aspetto mozzafiato, sia stata completata nel giro di pochi mesi nel 1753. È inconcepibile la concentrazione e la determinazione che ci sono volute per intraprendere un lavoro del genere. La maestria della cesellatura invoglia il visitatore ad allungare la mano sulla superficie per fugare ogni dubbio sulla sua materialità. Ci si meraviglia di come un blocco di marmo possa cedere a un’abilità prodigiosa; inoltre, di come un marmo possa trasformarsi in «pathos».

Tutto è marmo e nulla sembra marmo!

La trasparenza e i dettagli del velo sono così convincenti che la leggenda vuole che l’eccentrico mecenate e inventore Raimondo di Sangro abbia usato l’alchimia sulla scultura per conferirle uno straordinario realismo visivo. Ma al di là della leggenda, ciò che commuove lo spettatore è la risonanza di questo realismo. Un realismo che ha poco o nulla a che fare con le libertà estetiche del tardo barocco e del rococò, un realismo che spesso accompagna la vita dei poveri; un realismo continuamente disegnato e ampliato da un sistema di speculazione finanziaria e di esaurimento delle risorse. Il poeta spagnolo Vicente Aleixandre scrisse:

«Notte luminosa sopra il cadavere disteso senza anima.
L’anima fuori, l’anima fuori dal corpo, in picchiata
con tanta delicatezza sulla forma triste e abbandonata.
Anima di nebbia soffice, tenuta a galla sopra il suo amato abbandonato, il corpo indifeso e pallido, che diventa sempre più freddo corpo indifeso e pallido, che diventa sempre più freddo con il passare della notte».

Perché il velo?

Il velo non serve a nascondere, ma a rivelare. Per rivelare cosa? Qualcosa della natura della sofferenza.

Osservate attentamente la figura di Cristo. Guardate l’espressione del suo viso, in particolare il modo in cui le vene sulla fronte toccano il velo, il modo in cui il suo corpo è disteso sul letto, i muscoli delle cosce ancora tesi, i fori dei chiodi come orbite oculari: tutto parla della freschezza del dolore che portava nel corpo. Sembra che sia stato tolto dalla croce non molto tempo fa. Guardandolo si comincia a sentire nelle mani la consistenza del marmo levigato e la consistenza di un dolore senza nome. La sofferenza è una presenza viva.

Per quanto riguarda l’artista, il velo gli serviva sia per diminuire la visibilità dell’orrore inflitto al soggetto, sia per aumentare il lavoro già severo della sua vita. Per l’artista Giuseppe San Martino, la fatica da schiavo dell’atto scultoreo di tale portata è al tempo stesso un omaggio e un tentativo di eguagliare la fatica del sacrificio di Cristo. L’arte presuppone un altro tipo di sofferenza.

Perché il velo?

Forse per rendere un parziale senso di anonimato del dolore. Sotto il velo potrebbe essere Cristo o Nicola o Olga; potrebbe essere un immigrato, un prigioniero politico, un indigeno, uno studente o un’infermiera; o potrebbe essere – seguendo la convinzione dello scultore e del mecenate – un artista. Il grado di sofferenza può essere diverso, ma la presenza del dolore si protende verso di noi senza imbarazzo, chiedendo, più che pietà e stupore, una generosa comprensione da parte nostra.

In questa distanza di anonimato tra noi spettatori e l’opera d’arte, tra i nostri occhi e il velo che non possiamo sollevare o sciogliere, tra il nostro dolore e quello dell’altro, ci riconciliamo con ciò che il nostro corpo ricorda e sopporta, con tutto ciò che è terreno, con tutto ciò che ci fa e ci spezza.

(Carlo Rey Lacsamana)

(luglio 2023)

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