Gli untori
Quando il terrore ottenebra la mente della gente

Quando l’umanità incappa in malattie di cui non sa rendersi conto, non conoscendone le cause, non di rado attribuisce la colpa a qualcuno che l’abbia diffusa per ignoranza o per vendicarsi di soprusi, dispetti, maltrattamenti. Secondo certe interpretazioni, non essendo in grado l’uomo antico di comprendere le cause di una calamità o un’epidemia che lo avesse colpito, attribuiva la colpa agli dèi, i quali offesi per qualche colpa o atto sacrilego da lui compiuto, lo punivano pesantemente, imponendogli così una ubbidienza e una penitenza religiose. Plinio il Vecchio riporta che nella prima metà del secolo I dopo Cristo apparvero alcune centinaia di nuove epidemie, come la lebbra, ma le colpe non erano addossate agli dèi, bensì alle donne, agli stranieri e agli emarginati. E pure Tito Livio ebbe a raccontare che l’origine della tremenda epidemia del 329 avanti Cristo era da ricercare nei comportamenti ritenuti troppo liberi delle matrone romane. Lo storico descrisse uccisioni di massa di untori e di questi molti erano Egizi ed Ebrei, per cui c’è da presumere che, di là della questione sanitaria, ci fossero pure implicazioni politiche, che riguardassero sia i movimenti di eserciti sia l’invadenza da parte di culti indesiderati.

Untori. Quando si parla di epidemie, pestilenze, contagi, morbi eccetera, non è difficile che emerga il termine untore. Ma, insomma, chi era l’untore? Nel XVI e nel XVII secolo, quel termine era attribuito a chi si supponeva diffondesse volontariamente la peste, stendendo in giro nei luoghi pubblici speciali unguenti mortali; cioè si trattava d’individui che erano accusati di diffondere volutamente la peste.

Un Imperatore rigido e riservato come Tiberio, in occasione dello scoppio del colera, vietò il bacio, prassi normale fra i senatori, quale misura igienica; inoltre, secondo Tacito, egli mise fuori legge la prostituzione, in particolare colpendo la vestale Sesia Vestilia, matrona di rango equestre, famosa per la sua attività di prostituta. Fra le motivazioni che hanno portato a tale decisione sembra prevalere quella di ridurre l’influenza che il sesso femminile stava acquisendo sul mondo maschile, per rimetterlo al posto che, secondo lui, era quello più adeguato. In definitiva, si trattava di tenere le donne soggette alla volontà degli uomini, secondo la mentalità diffusa di quei tempi.

Sotto l’Imperatore Marco Aurelio, si diffuse un’altra tremenda malattia sconosciuta nel continente europeo: il vaiolo. Fu una calamità talmente letale, che un buon quinto della popolazione fu cancellato; sicuramente, chi ne ha subito il danno maggiore fu lo sviluppo demografico, e di conseguenza quello urbanistico, che fece cadere Roma in una crisi faticosamente superata.

Una terribile epidemia senza scampo scoppiò nel 430 avanti Cristo, secondo anno della guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta, entrambe in lega con alleati (431-404 avanti Cristo). Delle due città quella colpita luttuosamente fu Atene. Si parlò di peste, anche se studi recenti sembrano propendere per una forma emorragica di febbre violentissima. Ma che la causa sia stata l’una o l’altra, non cambia nulla: purtroppo le morti si verificarono in massa. Che, comunque, l’epidemia fosse dovuta a contatti fra la gente già nell’antichità si era pensato, come del resto si ritrova in Tucidide: egli riteneva che si fosse trattato di contagio proveniente dal centro dell’Africa (dall’Etiopia per la precisione) e sbarcato nel porto del Pireo. Da qui l’ingresso in città di merci e uomini, il sovraffollamento, i contatti malsani, la scarsità di igiene trovarono campo libero nella diffusione del contagio. A complicare l’intricata situazione contribuì l’afflusso di campagnoli che fuggivano dalla guerra per cercare rifugio all’interno della città. Il terrore per la terribile malattia, che falciava ogni giorno grandi quantità di persone, fece sì che la città di Atene divenisse una zona senza leggi e tradizioni, sostanzialmente allo sbando. Tornando a Tucidide e ad altri, secondo il loro parere l’epidemia era da ricercare in una forma di punizione degli dèi; infatti, pur essendo stati trovati pozzi che, a sentire le dicerie della gente, erano stati avvelenati, lo storico si è ben guardato di affermare che il contagio fosse stato deliberatamente diffuso. E gli Spartani, pur essendo coraggiosi combattenti, restarono alla larga da Atene, evitando un nemico ignoto; si limitarono a guardare da lontano le nubi di acre fumo che si alzava dai roghi acesi per cremare i corpi dei deceduti.

Nel Medioevo, la peste portò via circa 30 milioni di abitanti dei 75 della popolazione europea (vedere La Peste Nera, www.storico.org, maggio 2020). Si trattò sicuramente di peste, trasmessa all’uomo dalle pulci che dimoravano e si moltiplicavano nelle pellicce dei ratti. Anche in questo caso, secondo i pareri dell’epoca, si trattava di un castigo divino e le due religioni monoteiste, che avevano soppiantato il politeismo, diedero due versioni diverse del fatto: per i musulmani, non c’era altro da fare che accettare l’epidemia con rassegnazione, mentre i Cristiani erano dell’avviso che qualcosa si poteva ottenere con il pentimento per i propri peccati. Infatti, a questo proposito si avviò la pratica dell’autoflagellazione, però disapprovata dalla Chiesa quando divenne eccessiva. L’imperversare della peste fece scoppiare un’isteria collettiva, che sfociò in tantissimi atti di violenza, orientata soprattutto a colpire gli Ebrei, perché ritenuti colpevoli di aver avvelenato i pozzi d’acqua.

Purtroppo, la peste fu un’indesiderata compagna nel viaggio dell’uomo europeo per diversi secoli.

A Milano, nel 1576 il Ducato era governato dallo Spagnolo Antonio de Guzmàn. E in quell’occasione un possibile collegamento fra peste e untori prese piede: infatti, correva voce che c’era gente in giro che si dava da fare «ongendo i cadenacci e ferri delle porte delle case», usando unguenti pestilenziali. Lo scopo? Era parere comune che ci fosse qualcuno che favoriva il morbo per accaparrarsi i beni dei defunti; compresa, finalmente, la gravità delle accuse, per individuare i colpevoli furono promesse ricompense di 500 scudi, il che non era poco per quell’epoca.

Famosa fu la peste che si accanì contro la popolazione del Nord dell’Italia tra il 1629 e il 1633, a complicare la vita della gente, essendo già in atto in Germania la Guerra dei Trent’Anni. Che questa epidemia sia molto nota si deve alla descrizione che ne fece Alessandro Manzoni nel suo romanzo I Promessi Sposi. Si racconta della guerra e dei profughi che cercavano la salvezza in città, mentre l’intero Ducato di Milano era in rovina. Nello stesso tempo, furono rilevati i primi casi di peste, non ancora riconosciuta come tale, ma egualmente temibile, mentre le autorità erano indecise sul da farsi; finché, temendo il peggio, queste preferirono dileguarsi, piantando tutti in asso. In tal modo, in città rimasero solamente i frati cappuccini, da buoni Cristiani impegnati ad assistere gli appestati nel lazzaretto, mentre la libera circolazione era riservata ai monatti, che avevano il compito di raccogliere sui loro carretti le vittime del morbo e di provvederne il seppellimento. Anche durante questa peste si parlò di untori, persone che erano sospettate di diffondere il contagio stendendo in giro e ungendo i passanti con unguenti tossico-nocivi; spesso erano attaccate ferocemente e non di rado si giungeva all’esecuzione seduta stante. Sicuramente fra gli untori molti erano monatti che, per far prolungare il loro ben pagato servizio, diffondevano la peste con l’aspersione in giro delle cose appartenute ai morti appestati; alcuni furono scoperti mentre lasciavano in giro indumenti infetti e altro lerciume (erano «unti», come si diceva allora), affinché i cittadini li raccogliessero, propagandando ancora di più la pestilenza.

Non solo Milano fu la città in cui il «dai all’untore» era una manovra diffusa, anche se fu quella che maggiormente si diede da fare in tal senso. Anche nella vicina Repubblica di Venezia, in modo particolare a Bergamo e Brescia, la caccia agli untori fu intensa ed esiziale, perché si scoprirono «ungimenti» vari.

Un episodio a dimostrazione del terrore che spargevano fra la popolazione gli untori fu riportato dal Manzoni, nel 1842, in un suo scritto minore: Storia della colonna infame. Questo faceva riferimento alle accuse e al processo intentato contro una coppia di persone che, sicuramente innocenti, furono accusate da altri di diffondere la peste.

Ecco come si svolsero i fatti, che successero nel 1630, quando Milano era governata dagli Spagnoli. La peste era sparsa, oltre che a Milano, in buona parte dell’Italia e, mentre da un lato si trovava la popolazione terrorizzata dall’epidemia in atto, le autorità non sapevano che cosa fare, impreparate com’erano ad affrontare un simile flagello. Inizialmente non fecero nulla per fermarlo, ma poi, essendo insistenti le voci secondo le quali il morbo era diffuso di proposito, decisero di intervenire, purtroppo in notevole ritardo, cioè quando tanti cittadini erano già morti e la peste si era abbondantemente diffusa, non risparmiando nemmeno il contagio negli ambienti signorili, per «par condicio». Ascoltarono, pertanto, le accuse secondo le quali erano in giro individui (gli untori, appunto) che spandevano per la città sostanze venefiche atte a divulgare la pestilenza. A questo proposito il Manzoni, riferendosi alle cronache del Ripamonti, ebbe a scrivere nel capitolo XXXI dei Promessi Sposi che il giorno 18 maggio, in molti quartieri cittadini molte porte e mura furono sporcate da ignoti con una «sostanza oleosa e giallognola», non meglio identificata: da ciò, la caccia all’untore si infiammò.

In questo clima di terrore, una signora, che dalla sua finestra vide un cittadino che camminava lungo i muri, con una bottiglietta secondo lei contenente un «unto», lo denunciò alle autorità. Queste riuscirono a individuarlo e lo portarono al cospetto dei giudici quale untore. Si trattava del Commissario della Sanità Guglielmo Piazza il quale, ritenendosi esposto più degli altri al pericolo di contagio per le sue mansioni, aveva acquistato un unguento, preparato per combattere il morbo nel suo negozio dal barbiere Gian Giacomo Mora; unguento che andava a ruba fra i cittadini milanesi. Dopo aver negato ogni accusa, la tortura lo «convinse» a confessare di essere un untore e di aver ricevuto il prodotto dal Mora. Un sopralluogo a casa del barbiere fece rinvenire tante sostanze, lozioni, polveri che egli usava nella sua professione; di queste una parte fu ritenuta sospetta. Più di ogni altra cosa sollevò dubbi la sostanza rinvenuta in un contenitore trovato nel retrobottega: era pieno di acqua con sul fondo un deposito – secondo gli inquirenti – di secrezione di natura umana che riportarono nei loro documenti come «smoiazzo di morto». Perché quella sostanza si trovava lì, pur avendo la latrina al piano superiore? La risposta era semplicemente perché lui, per non contagiare i familiari, si era trasferito al piano terra. Per farla breve, i due furono messi a confronto e ancora torturati, giacché le risposte non corrispondevano, ma alla fine si riuscì, con la tortura, a raggiungere una «motivazione» comune, dopo che anche altri cittadini furono ingiustamente da loro accusati di essere untori. Morale della favola, tutti furono condannati a morte.

Prima dell’esecuzione della pena di morte i due cittadini dichiararono ancora una volta la loro innocenza. Questa fu raccapricciante.


Versione A

Ebbero le carni serrate da pinze arroventate, poi fu loro troncata la mano destra e rotte tutte le ossa, per finire nel supplizio della ruota, dove rimasero per ben sei ore al ludibrio dei concittadini; finalmente, se così si possa dire, quei poveretti ebbero capo alle loro crudeli, brutali, spietate, disumane sofferenze attraverso il taglio della gola. I corpi furono bruciati e le ceneri disperse nel canale. La casa del Mora fu rasa al suolo e al suo posto fu posta la cosiddetta «Colonna Infame», che vi rimase fino al 1788, quando fu tolta a seguito degli scritti di Cesare Beccaria sulla tortura.


Versione B

Traduzione dal latino dell’iscrizione della lapide apposta nei pressi della colonna infame, attualmente la lapide si trova al Castello Sforzesco di Milano, sotto il portico della Rocchetta.

Qui, ove s’apre questo largo,
sorgeva un tempo la bottega del barbiere
Gian Giacomo Mora
che, ordita con il Commissario della Pubblica Sanità Guglielmo Piazza
e con altri una cospirazione,
mentre un’atroce pestilenza infuriava,
cospargendo diversi lochi di letali unguenti
molti condusse ad un’orrenda morte.
Giudicati entrambi traditori della patria,
il senato decretò
che dall’alto di un carro
prima fossero morsi con tenaglie roventi,
mutilati della mano destra,
spezzate l’ossa degli arti,
intrecciati alla ruota, dopo sei ore sgozzati,
bruciati e poi,
perché di cotanto scellerati uomini nulla avanzasse,
confiscati i beni,
le ceneri disperse nel canale.
Parimenti diede ordine che
ad imperituro ricordo
la fabbrica ove il misfatto fu tramato
fosse rasa al suolo
né mai più ricostruita;
sulle macerie eretta una colonna
da chiamare infame.
Lungi adunque da qui, alla larga,
probi cittadini,
che un esecrando suolo
non abbia a contaminarvi!
Addì 1° agosto 1630
(Senatore Marcantonio Monti Prefetto della Pubblica Sanità
Giovambattista Visconti capitano di giustizia)

Nel 1788, come abbiamo ricordato più sopra, la colonna fu portata via, grazie agli scritti di Cesare Beccaria a proposito della tortura.

La conclusione della presente nota non può che condannare la facilità e la leggerezza con la quale sovente si possano prendere fischi per fiaschi da un lato; fatto molto grave è che ci siano sempre i furbetti di turno che riescono, sfruttando l’ignoranza popolare, a far orientare verso il proprio interesse le fobie della gente, convinta che il colpire il presunto colpevole delle loro disgrazie possa portare alla loro salvezza.

Il rivedere tale impostazione delle proprie utopie non è mai troppo tardi!

(gennaio 2021)

Tag: Mario Zaniboni, untori, epidemie, Plinio il Vecchio, lebbra, peste, colera, Tito Livio, Sesia Vestilia, vaiolo, Marco Aurelio, peste di Atene, Tucidide, Guerra dei Trent’Anni, Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, peste nera, Antonio de Guzmàn, Ducato di Milano, Storia della colonna infame, Guglielmo Piazza, Gian Giacomo Mora, Cesare Beccaria, Colonna Infame, Marcantonio Monti, Giovambattista Visconti.