Gli Stati Uniti e la Shoah. Politica dell’immigrazione, crisi dei rifugiati e opinione pubblica nell’America degli anni Trenta e Quaranta
«La distanza che vi è tra voi / e il vicino che non vi è amico è / in verità più grande di quella / che è tra voi e la persona / che amate e che vive al di là / delle sette terre e dei sette mari. Giacché / nel ricordo non vi sono lontananze; / e nell’oblio vi è un abisso che né / la voce né l’occhio potranno / mai accorciare» (Kahlil Gibran, Il giardino del profeta, 1933)

Durante la persecuzione e lo sterminio per molti Ebrei Europei l’America rappresentò una ambita e quasi irraggiungibile meta di emigrazione, un’ancora di salvezza in quegli anni terribili e devastanti. Al contempo, per le amministrazioni Roosevelt il destino degli Ebrei Europei divenne una vera e propria «questione ebraica», di difficile soluzione e fonte di innumerevoli scontri nell’arena politica. Nonostante le rassicurazioni formali, gli Stati Uniti non misero mai in atto delle serie iniziative per salvare l’Ebraismo Europeo; diversi fattori politici contribuirono a rafforzare le restrittive Leggi sull’immigrazione, inoltre, i problemi sociali ed economici del tempo plasmarono l’opinione pubblica e diedero spazio all’antisemitismo che influenzò, altresì, le decisioni riguardanti i rifugiati.

Le Leggi sull’immigrazione furono elaborate nel 1921 e nel 1924 durante le presidenze Harding e Coolidge. Una formula complicata utilizzava il numero di persone di una origine specifica che vivevano in America nel 1890 come base per il confronto. La severità della regolamentazione era rivolta soprattutto verso l’Europa Orientale, in particolare Polonia e Russia. Il numero totale di immigrati ammessi ogni anno era stato fissato in 153.774 unità; i due Paesi che avevano la quota maggiore di immigrati erano l’Inghilterra e la Germania, con rispettivamente 65.721 e 25.957 ingressi. A causa della depressione economica questi numeri rimasero stagnanti per anni.

Negli anni Trenta il tema dell’immigrazione, che alla fine si sarebbe intrecciato con la «questione ebraica», fu molto dibattuto nell’opinione pubblica americana, rinforzato dalla politica sistemica di persecuzione razziale, politica e religiosa del regime nazista. Con l’inasprimento della grande depressione, l’immigrazione di elementi stranieri divenne un tema molto sensibile per molti Americani; nel 1932 si stimava che la disoccupazione colpisse 15 milioni di persone, per questo vi era un forte consenso nell’opinione pubblica che qualsiasi lavoro disponibile dovesse essere prerogativa degli Americani, senza alcuna competizione da parte degli immigrati. Durante la campagna presidenziale del 1932, Franklin Roosevelt concordava con l’ordine esecutivo di Hoover del 1930 volto a limitare l’immigrazione. Già nel 1932 gruppi di Ebrei Americani prevedevano dei seri problemi se avessero spinto per politiche di immigrazione illimitate. La perdita di occupazione derivante dalla grande depressione era stata molto ampia, e gli Stati Uniti non potevano sostenere la propria forza lavoro senza un minor afflusso di immigrati europei.

È possibile individuare tre fattori alla base della resistenza degli Stati Uniti verso i rifugiati europei: restrizionismo, nazionalismo nativista e antisemitismo. Il restrizionismo si sviluppò alla fine dell’Ottocento e aumentò durante la grande depressione con l’incremento della disoccupazione durante gli anni Trenta. All’inizio del Novecento gruppi come l’American Protective Association, l’American Federation of Labor di Samuel Gompers, e i restrizionisti del Congresso guidati da Henry Cabot Lodge spingevano per una riduzione dell’immigrazione. Questi uomini e gruppi influenti furono irremovibili sulla limitazione dell’immigrazione, ma per la maggior parte non ebbero successo nel periodo antecedente la depressione economica. Nel decennio precedente la Prima Guerra Mondiale, furono ammessi nel Paese 900.000 immigrati; gli Ebrei rappresentavano circa il 10% dei nuovi arrivi, tendevano a concentrarsi nei centri urbani dell’Est, che a loro volta avevano una maggiore concentrazione di immigrati europei rispetto ad altre città. Gli Ebrei non erano sottoposti a molte delle restrizioni sull’immigrazione, come il superamento di un test di alfabetizzazione, a causa di una disposizione speciale che esonerava le persone in fuga dalla persecuzione razziale o religiosa. A causa di queste esenzioni, i restrizionisti non potevano limitare l’ingresso degli Ebrei, potendo, comunque, limitare l’immigrazione degli altri gruppi etnici; da qui, la loro frustrazione per l’incapacità di tenere fuori dall’America gli Ebrei.

Nel 1924 il Congresso rispose alle immense pressioni dei restrizionisti facendo passare il Johnson-Reed Bill, meglio conosciuto come il National Origins Act, che stabiliva che il 2% dell’immigrazione, circa 120.000 visti, fossero destinato agli Europei del Nord e dell’Ovest; questi gruppi di Europei erano percepiti come i popoli che avevano creato gli Stati Uniti e che avrebbero preservato la «linea di sangue americana». Le popolazioni dell’Europa Meridionale ed Orientale erano virtualmente escluse da questo atto. Samuel Gompers, che rappresentava il lavoratore americano, sostenne questa Legge nonostante fosse emanata in un periodo di crescita economica. I membri del Congresso ed eugenisti Madison Grant e Harry Laughlin ebbero una forte influenza, avvertendo che un numero maggiore di immigrati avrebbe diluito il «flusso sanguigno americano». L’attuazione delle più severe disposizioni del National Origins Act coincise con il collasso dell’economia americana che fece precipitare gli Stati Uniti nel baratro della depressione. La stretta applicazione di questa Legge peggiorò la depressione economica poiché agli immigrati non era stato permesso di assicurarsi dei posti di lavoro prima del loro ingresso nel Paese come era previsto dalla Alien Contract Law del 1885. Circa 300.000 immigrati giunsero nel Paese dopo l’approvazione della Legge, ma non avevano posti di lavoro sicuri e finirono quindi per aggravare ancora di più il tasso di disoccupazione. In retrospettiva, il National Origins Act causò più danni che benefici all’economia e contribuì ad esacerbare la grande depressione.

I veterani delle guerre erano un altro gruppo chiaramente posto su posizioni contrarie all’immigrazione durante questo periodo. Iniziarono la loro lotta contro l’immigrazione negli anni Venti e, insieme a organizzazioni come il Junior Order of United American Mechanics e il Padre Charles Coughlin, posero questa forma di antisemitismo all’attenzione dell’opinione pubblica americana nei primi anni Trenta. Era la prima volta che i restrizionisti utilizzavano un forum pubblico per far avanzare le loro opinioni personali.

Padre Charles Coughlin, un prete cattolico di Detroit, avrebbe utilizzato le trasmissioni radio e la pubblicazione «Social Justice» per istigare l’opinione pubblica contro le proposte di immigrazione per diversi anni, diffondendo le sue teorie su ciò che era ingiusto e sbagliato negli Stati Uniti. Coughlin sviluppò la teoria del «banchiere internazionale», che negli anni Venti avrebbe distrutto l’ambiente sociale ed economico americano e causato la grande depressione; chiaramente, Coughlin usava il termine «banchiere internazionale» per riferirsi agli Ebrei, e adoperò questo tema costantemente. La chiusura delle banche nell’area di Detroit negli anni Trenta consolidò la sua convinzione che i banchieri fossero i malvagi responsabili della grande depressione. Data la retorica basata sulle paure degli Americani durante gli anni Trenta, Coughlin riuscì a convincere molti ascoltatori del suo punto di vista. I restrizionisti credevano anche che gli stranieri stessero togliendo posti di lavoro ai lavoratori americani; il tema del lavoro era un argomento molto delicato per gli Americani in questo periodo, e i rifugiati erano considerati «concorrenza sleale» per ogni lavoro disponibile. La grande depressione ebbe un profondo effetto sull’atteggiamento dell’opinione pubblica americana verso i rifugiati di ogni Paese, non soltanto verso gli Ebrei.

Padre Coughlin formulò i suoi pregiudizi politici e personali al di fuori della grande depressione. Il religioso temeva la progressiva concentrazione della ricchezza e del potere in un piccolo gruppo di persone, mentre piccoli commercianti e piccoli banchieri erano lentamente eliminati. Il problema con le conclusioni di Coughlin era la sua ricerca di capri espiatori come causa della depressione, dato che non considerava il processo generale di centralizzazione che inghiottì il sistema economico americano. I critici hanno sottolineato il fatto che Coughlin non riuscì a rendersi conto che la grande depressione andava al di là delle relazioni economiche e sociali sviluppate all’interno di una comunità[1]. Il religioso riteneva i banchieri di Wall Street e di Londra fautori della depressione. Padre Coughlin usò l’atteggiamento del pubblico americano per convincere molti ascoltatori che i grandi banchieri del mondo, cioè gli Ebrei, stavano distruggendo la società americana. Si riferiva all’uso americano del «gold standard» per scopi monetari e spesso usava il nome dei Rothschild, e altri nomi ebraici, come prova della loro influenza per mantenere il «gold standard». Coughlin diede ai restrizionisti, ai nativisti e agli antisemiti una voce e un’ulteriore prova di una grande cospirazione ebraica.

Coughlin trascorse la maggior parte della sua vita nel Midwest Americano, dove l’antisemitismo aveva radici profonde. Il movimento populista degli anni Novanta dell’Ottocento, il revival del Ku Klux Klan negli anni Venti, e la stessa Chiesa Cattolica avevano plasmato gli anni formativi del religioso, che era percepito dai colleghi come un antisemita e aveva una grande biblioteca sull’argomento. Padre Coughlin fu cruciale nell’accendere le paure degli Americani negli anni Trenta, poiché fornì ai restrizionisti anti-rifugiati una forte voce attraverso due importanti organi di informazione, la stampa e la radio.

Il nazionalismo nativista influenzò anch’esso gli Americani durante questo periodo. Molti membri del Congresso, influenzati da un atteggiamento virulento, erano molto espliciti nella loro opposizione all’immigrazione. Questi primi semi gettati nella mente dell’opinione pubblica americana avrebbero avuto conseguenze nefaste nell’immediato futuro. L’obiettivo principale dei nativisti era eliminare gli stranieri dalla società americana per preservare le risorse americane per i cittadini americani. Inoltre, temevano che gli immigrati portassero una cultura diversa in America capace di cambiarne lo status quo. Le persone e le organizzazioni che stavano promuovendo questo atteggiamento non erano soltanto gruppi di odio, come il Ku Klux Klan, ma anche membri del Congresso e ministri cristiani, che esercitarono un’immensa influenza sulla società, data la loro posizione, specialmente durante gli anni Trenta e Quaranta.

La terza influenza sulle politiche di immigrazione e l’atteggiamento dell’opinione pubblica, e probabilmente la più dannosa, fu l’antisemitismo presente negli Stati Uniti. L’antisemitismo aveva sempre avuto un posto nella società americana, ma era più sotterraneo e non così ovvio come in altri Paesi. Gli Ebrei, come altri gruppi minoritari negli Stati Uniti, erano esclusi da club, da certe cerchie sociali e dalle scuole. Tra la fine degli anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta l’antisemitismo era prevalente e apertamente conosciuto. Padre Coughlin era stato uno dei più influenti fautori dell’antisemitismo negli Stati Uniti; fondatore del Social Justice Movement, emulato da William Dudley Pelley con le sue «Silver Shirts» e dal Bund Tedesco-Americano, composto da Tedeschi della classe medio-bassa residenti negli Stati Uniti. Questa organizzazione fondò il movimento nazista americano in America e incorporò le uniformi militari naziste, i bracciali a forma di svastica e la marcia militare. Il Bund ricevette la sua ispirazione e direzione dal Ministero della Propaganda nazista, ebbe l’adesione di 25.000 membri, gestiva 24 campi di ritiro, distribuiva opuscoli e sponsorizzava un programma radiofonico cittadino. Il Bund Tedesco-Americano, che controllava la stampa tedesco-americana, stimava che il 90% dei suoi lettori fosse filo-nazista dal 1940. Il Bund raggiunse il suo apice nel 1939 e nel 1940, quando organizzò manifestazioni patriottiche al Madison Square Garden. L’antisemitismo divenne più organizzato e pericoloso con la crescita di questo tipo di gruppi, che diffondevano alle masse il loro odio antiebraico attraverso mezzi di comunicazione come la radio e la stampa. Anche se l’influenza del Bund Tedesco-Americano svanì dopo l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, contribuì a gettare le basi per i gruppi anti-immigrazione.

Uno dei personaggi più pericolosi dei gruppi antisemiti e anti-immigrazione era William Dudley Pelley, che sviluppò una forte organizzazione con le sue «Silver Shirts» che raggiunsero i 100.000 aderenti. La vera influenza di Pelley risiedeva non solo nella prolifica letteratura, ma nella sua associazione con riviste e film di propaganda. Pelley sfruttò vantaggiosamente una casa editrice di Asheville, nel Nord Carolina, che pubblicava opuscoli come What Every Congressman Should Know, per promuovere il suo punto di vista. Nel suo periodico di maggior successo, «Liberation», sosteneva l’esistenza di una cospirazione ebraico-comunista volta alla conquista degli Stati Uniti; il periodico sottolineava continuamente la presunta origine ebraica di Roosevelt, riferendosi al New Deal come al «Kosher New Deal».

Nel 1933 il Partito Nazionalsocialista sotto la leadership di Adolf Hitler ottenne legalmente il potere in Germania, e non passò troppo tempo prima che iniziasse la persecuzione degli Ebrei. La violenza antisemita scatenata da attivisti del Partito Nazionalsocialista nel marzo del 1933 in diverse regioni della Germania incluse l’imbrattamento e la chiusura dei negozi appartenenti agli Ebrei e l’aggressione ai giuristi ebrei nei tribunali per impedire lo svolgimento della loro attività. Subito dopo, fu indetto da parte del Partito Nazista un boicottaggio dei negozi ebraici fissato per il 1° aprile; il boicottaggio fu giustificato in quanto risposta ai primi tentativi esteri di ostacolare il commercio dei prodotti tedeschi, inoltre, i vertici del Partito cercarono di imputare agli Ebrei Tedeschi la responsabilità per le crescenti critiche al nuovo Governo. Il regime nazista varò subito dopo il boicottaggio una prima serie di leggi antiebraiche che escludevano gli Ebrei dall’esercizio dell’avvocatura e da altre professioni regolamentate dallo Stato, introducendo successivamente delle quote che limitavano il numero degli studenti ebrei. Il fine ultimo di una simile linea politica era chiaramente l’espulsione degli Ebrei Tedeschi dalla vita pubblica, che si estrinsecò nei mesi seguenti con il varo di svariate misure burocratiche vessatorie e l’allontanamento dalla vita culturale[2].

Non molto tempo dopo, l’American Jewish Commitee organizzò la prima significativa protesta contro la persecuzione degli Ebrei Tedeschi; il comitato era nato per proteggere i diritti degli Ebrei, e chiedeva al Governo Statunitense di indagare adeguatamente su ciò che stava accadendo in Germania. Anche l’American Jewish Congress iniziò delle proteste ottenendo una forte adesione, che, nelle intenzioni, avrebbe aiutato ad informare il resto del Paese del peggioramento delle condizioni della comunità ebraica in Germania. È interessante notare come fosse difficile per gli Stati Uniti protestare contro il trattamento riservato da un Paese straniero ai propri cittadini durante l’era delle Leggi segregazioniste di Jim Crow; infatti, l’America non aveva le basi per criticare un altro Stato per l’ingiustizia razziale quando esso stesso praticava una politica discriminatoria. Nondimeno, le proteste coinvolsero anche associazioni cristiane, come gli American Christians, con il supporto di influenti personaggi pubblici come Alfred E. Smith, Newton D. Baker e John W. Davis. Lentamente le informazioni sulla persecuzione degli Ebrei Tedeschi iniziarono a filtrare negli Stati Uniti[3]; il Dipartimento di Stato invitò l’Ambasciata Americana a indagare su queste accuse. Il rapporto dell’Ambasciata riferiva che presumibilmente i nazisti stavano nascondendo qualcosa. Quando le autorità tedesche furono interrogate sulla persecuzione degli Ebrei, spiegarono che la retorica e gli attacchi antisemiti erano episodi isolati e presto sarebbero stati fermati.

Per tutto il 1933 continuarono le segnalazioni di maltrattamenti degli Ebrei Tedeschi. H. R. Knickerbocker, corrispondente da Berlino per il «New York Evening Post», riferì nell’aprile del 1933 che un numero indefinito di Ebrei era stato ucciso, o era fuggito o era stato privato del suo sostentamento in Germania[4]. In questo articolo il giornalista faceva due osservazioni interessanti. La prima era che non riusciva a capire il perché i Tedeschi avessero un tale odio verso gli Ebrei e, in secondo luogo, affermava che i Tedeschi erano invidiosi dei successi ebraici in Germania. Entrambe le argomentazioni si sarebbero dimostrate molto astute negli anni seguenti, quando poche persone negli Stati Uniti avrebbero compreso che cosa stava accadendo agli Ebrei in Germania; infatti, dal comune cittadino fino agli incarichi più importanti del Governo, questo odio non fu pienamente compreso fino a quando non fu troppo tardi.

Il 1933 vide un incremento sia delle informazioni sia delle proteste, la rivista «The Christian Century» iniziò a pubblicare una serie di articoli sugli Ebrei Tedeschi. La rivista era una pubblicazione non confessionale, e fu la prima ad indagare su ciò che stava accadendo in Germania. Il 15 maggio del 1933, «The Christian Century» riferiva che due dozzine dei più noti ministri del culto negli Stati Uniti si erano unite ad una protesta contro la persecuzione degli Ebrei in Germania. Fu la prima grande protesta di un gruppo cristiano contro il regime nazista. Con il coinvolgimento del gruppo cristiano, le organizzazioni religiose negli Stati Uniti iniziarono a prendere la «questione ebraica» più seriamente. Un altro segnale del progressivo degenerare della situazione in Germania emerse quando la National Conference of Jews and Christians rilasciò una dichiarazione congiunta che condannava la persecuzione degli Ebrei[5]. Sebbene gruppi organizzati cristiani avessero protestato contro la politica antiebraica nazista non vi fu alcuna protesta o movimento per liberalizzare le restrittive politiche immigratorie in vigore negli Stati Uniti. L’atteggiamento ricorrente era il protestare da lontano senza fare nulla per aiutare gli Ebrei Tedeschi a trasferirsi negli Stati Uniti o in un altro Paese.

Nel maggio del 1933 la Società delle Nazioni recepì una petizione di Franz Bernheim, un rifugiato ebreo tedesco dell’Alta Slesia, che era ricorso all’organismo sovranazionale sottolineando che le leggi e gli atti amministrativi antiebraici tedeschi violavano la convenzione polacco-tedesca del 1922 che proteggeva i diritti delle minoranze in questa regione[6]. I leader del Congresso Ebraico Americano furono così turbati dalle dichiarazioni che tennero delle riunioni di emergenza, esortando l’amministrazione Roosevelt a condannare queste azioni. Tuttavia, la politica governativa sembrava ignorare volutamente queste proteste; gli Stati Uniti erano ancora alle prese con i problemi derivanti dalla depressione e nel Congresso la maggioranza era favorevole alla limitazione dell’immigrazione.

Il dibattito sulla condizione degli Ebrei Tedeschi cominciò ad emergere in primo piano nei giornali americani dal luglio del 1933. Il rabbino Stephen Wise e molti dei suoi colleghi iniziarono ad attirare l’attenzione del «New York Times». Wise era uno dei più attivi oppositori della persecuzione degli Ebrei. Il rabbino Wise riuscì a portare la protesta anche nelle università, infatti, insieme a 142 rettori di università e a 77 scienziati di alto livello redasse una protesta formale contro le politiche antisemite e la inviò in Germania[7]. Ciò rappresentò un primo segnale della preoccupazione dei leader e degli intellettuali ebrei americani per la situazione della comunità ebraica in Germania, ma non del Paese nel suo complesso. Le difficoltà economiche ebbero un effetto smorzante sull’opinione pubblica riguardo alla condizione degli Ebrei Tedeschi; infatti, molti Americani erano preoccupati della propria situazione socio-economica, non della politica estera degli Stati Uniti. Per quanto riguardava l’amministrazione Roosevelt, essa aveva accesso a tutte queste informazioni, ma decise opportunamente di ignorare la situazione.

Sebbene ci fosse una evidente mancanza di interesse da parte dei funzionari governativi, un’alta personalità parlò chiaramente della condizione degli Ebrei Tedeschi. James McDonald, Presidente della Foreign Policy Association di New York, condannò apertamente ciò che aveva visto in Germania. McDonald ribadì che l’affermazione che gli Ebrei non erano perseguitati era semplicemente un insulto alla sua intelligenza[8], dato che aveva assistito alla persecuzione nel 1933 e la situazione stava peggiorando. Il diplomatico criticava il popolo e gli Ebrei Americani per la loro indifferenza per l’argomento. Era, inoltre, apertamente critico nei confronti dei leader ebrei e si chiedeva retoricamente come potessero gli intellettuali ebrei concludere che il peggio delle persecuzioni naziste fosse passato. Nel 1935 rimase così colpito dalle Leggi di Norimberga da rivolgersi al Joint Distribution Commitee, eludendo la leadership ebraica, invitando tutti gli Ebrei Americani ad aiutare i loro fratelli in Europa. McDonald era preoccupato per la rivalità esistente tra i leader ebrei negli Stati Uniti e per l’opposizione al sionismo, che potevano causare un serio conflitto all’interno della comunità ebraica. Questo problema peggiorò nel momento in cui la questione dei rifugiati divenne prevalente; McDonald capì che senza un’unità ebraica in America il resto della popolazione non avrebbe sostenuto la loro causa, inoltre, la parte più difficile di ogni sforzo di salvataggio era far cooperare tra loro i diversi gruppi ebraici. McDonald era stato nominato Presidente dell’Alta Commissione per i profughi delle Nazioni Unite, ma dopo anni di vane promesse e frustrazioni[9] fu costretto a dimettersi nel 1935[10].

Nell’agosto del 1933 fu la «Christian Century» ad essere estremamente critica della mancanza di interesse e attenzione da parte degli Stati Uniti per la situazione in Germania[11]. Reinhold Niebuhr si dimostrava molto severo nei confronti del non coinvolgimento dell’America e la sua palese retorica era necessaria per rendere l’opinione pubblica più consapevole di ciò che stava accadendo in Germania. Diverse pubblicazioni iniziarono ad affrontare il problema e lentamente molti Americani incominciarono a scoprirne l’esistenza.

Nel dicembre del 1933 vi furono alcuni segnali che stavano per avvenire dei cambiamenti nel Dipartimento di Stato per quanto concerneva la questione dell’immigrazione. Alcuni funzionari sollecitarono delle quote speciali per particolari gruppi di rifugiati; ciò avrebbe risolto solo temporaneamente il problema dell’immigrazione, inoltre, sebbene ritenute necessarie, i legislatori non volevano dei cambiamenti permanenti alle Leggi sull’immigrazione. I leader ebrei non difesero l’attuazione di questi provvedimenti, poiché temevano una reazione antisemita. Il procuratore Homer S. Cummings stabilì che i consolati erano obbligati a rilasciare un visto quando il Ministero del Lavoro avesse accertato un legame con una persona garante negli Stati Uniti. Nel 1933 l’America fissò le quote di immigrazione a 153.774 unità; nel 1934 vi furono 23.068 ingressi e solo 1.798 erano Tedeschi; nel 1935 il numero di immigrati tedeschi salì a 5.117 e solo un terzo era costituito da Ebrei. La nuova politica attuata dal procuratore generale non cambiò significativamente l’immigrazione ebraico-tedesca. Dopo il 1933, le quote di immigrazione favorirono gli Europei del Nord e dell’Ovest, inoltre, il National Origins Act del 1924 era stato pesantemente influenzato dalla minaccia del comunismo, associato all’Ebraismo Polacco.

Con la promulgazione delle Leggi di Norimberga del 1935 la condizione degli Ebrei Tedeschi peggiorò sensibilmente, limitando severamente tutti gli aspetti della vita ebraica in Germania. La prima fase delle Leggi di Norimberga fu privare gli Ebrei Tedeschi di tutti i loro diritti e il secondo stadio fu di rimuoverli del tutto dalla società tedesca. Questo non passò inosservato agli occhi delle organizzazioni ebraiche negli Stati Uniti. Secondo il «New York Times», il rabbino Wise aveva iniziato a protestare contro la mancanza di coinvolgimento del Dipartimento di Stato. Il rabbino era comparso davanti al Comitato investigativo della Camera per protestare contro la mancanza di iniziative da parte dei funzionari governativi. Wise aveva sicuramente fornito importanti informazioni ai funzionari del Dipartimento di Stato, ma di nuovo queste proteste caddero nel vuoto.

Dal 1935 le organizzazioni ebraiche in America avevano iniziato a riconoscere che i tentativi per aumentare l’immigrazione ebraica avrebbero trovato dei forti oppositori. Durante il 1935 David MacCormack, commissario generale per l’immigrazione, aveva dichiarato che uno dei migliori modi per promuovere l’antagonismo razziale e religioso era quello di sostenere una maggiore immigrazione durante un periodo di depressione economica e di disoccupazione. Un’affermazione che riassumeva efficacemente il pensiero di molti Americani durante la depressione.

In un editoriale del 1936 del «B’nai B’rith Magazine», i leader ebrei avevano pregato i correligionari di non fornire giustificazioni all’antisemitismo negli Stati Uniti; facendo tale richiesta, gli Ebrei Americani insinuavano che stavano attirando l’antisemitismo su loro stessi. Molti Ebrei Statunitensi conclusero che l’aumento dell’immigrazione era stata la principale ragione dell’incremento dell’antisemitismo. Si potrebbe supporre che molti Ebrei Americani non volessero che gli Ebrei immigrati attirassero un’attenzione indesiderata.

Anche la stampa protestante contribuì alla mancanza di interesse dell’opinione pubblica americana verso la condizione degli Ebrei in Germania. È interessante notare come vi fu un calo significativo di interesse per l’argomento, infatti, nel 1936 nei 32 periodici presi in esame la condizione degli Ebrei Tedeschi fu discussa 49 volte, mentre soltanto un anno dopo, l’argomento fu trattato 29 volte nei 33 periodici esaminati. Sempre nel 1936, 44 articoli, recensioni di libri e lettere al direttore erano relativi a questo argomento, ma nel 1937 vi erano soltanto cinque voci relative a tale tema[12]. La stampa americana protestante non ebbe molto interesse verso gli Ebrei dopo il 1937. È possibile affermare che dal 1936 al 1938 l’antisemitismo dilagasse nella stampa protestante; «Citizen Times», una rivista di Asheville in North Carolina di proprietà di William Dudley Pelley, «The Advance», «The Christendom», «The Churchman» e «The Lutheran» erano tutte pubblicazioni protestanti che non nascondevano il loro disprezzo verso gli Ebrei, contribuendo all’astio dell’opinione pubblica americana.

Alla fine del 1937 sembrava che il dilemma dei profughi potesse stabilizzarsi e gli Stati Uniti credevano erroneamente che la situazione stesse risolvendosi spontaneamente.

Il 1938 vide il varo di Legislazioni antiebraiche in molti Paesi Europei, ciò comportò che un numero crescente di Ebrei fosse «ridotto a una massa di paria, non solo senza status sociale o simbolico ma soprattutto senza Stato, ossia senza protezione giuridica, una massa di paria fragile e in balia delle nubi minacciose che si stavano addensando all’orizzonte»[13]. Si venne quindi a creare in Europa un vasto movimento migratorio; il fallimento della Conferenza di Evian[14] nell’estate del 1938, un’iniziativa del Presidente Americano Roosevelt per trovare una soluzione al problema dei profughi ebrei, dimostrava quanto la drammatica condizione degli Israeliti non fosse propriamente al centro dell’interesse dell’opinione pubblica internazionale. Questa Conferenza internazionale offrì pochissimi vantaggi al Presidente Americano; i limitazionisti non avrebbero permesso il varo di nessuna nuova Legge sull’immigrazione, inoltre, era all’epoca inconcepibile la modifica delle Leggi esistenti per instaurare una distinzione tra rifugiati e immigrati. La discussione su come attuare tale distinzione si sarebbe prolungata per tutti gli anni Trenta.

Durante la Conferenza, Roosevelt fu fortemente influenzato da due persone. La giornalista Dorothy Thompson, che aveva una posizione prominente nel mantenere informato il pubblico americano sulla situazione dei rifugiati, e il rabbino Stephen Wise, per il quale il Presidente nutriva affetto e rispetto. Queste due persone erano probabilmente la ragione per cui Roosevelt aveva richiesto la Conferenza di Evian in un momento storico in cui gli Americani erano interessati soltanto agli eventi interni. Altri consideravano questo un modo sottile da parte del Presidente di informare il pubblico americano della crescente minaccia dei nazisti. Le vere intenzioni di Roosevelt erano poco chiare; probabilmente il suo era un modo per essere coinvolto senza prendere direttamente una posizione sulla questione. La Conferenza di Evian trovò un ampio consenso tra i leader ebrei e Roosevelt ricevette molte lodi per questa iniziativa, ma tutte le domande sui rifugiati furono demandate al Dipartimento di Stato, che difficilmente avrebbe modificato il suo punto di vista.

Dal momento che le porte dei Paesi democratici erano chiuse per i profughi ebrei che fuggivano dal Terzo Reich, il luogo di riparo più realistico rimaneva la Palestina. In effetti, negli anni precedenti, la Palestina mandataria aveva accolto il più alto numero di profughi rispetto a qualsiasi altra Nazione; l’immigrazione aveva raggiunto un picco nel 1935, quando erano stati accolti circa 61.000 Ebrei[15]. Risolvere il problema dei profughi ebrei con il loro reinsediamento in Palestina significava fare decisi passi in avanti nella creazione di uno Stato Ebraico; ciò era decisamente chiaro non soltanto per la potenza mandataria, la Gran Bretagna, ma anche per il Dipartimento di Stato Americano e per Roosevelt che, durante questo periodo, attuò una netta separazione tra il problema dei profughi ebrei e la questione mediorientale[16]. L’Ebraismo Europeo, che avrebbe potuto salvarsi emigrando in Palestina, fu così lasciato solo, davanti al suo tragico destino.

Mentre si teneva la Conferenza di Evian, due membri del Congresso, Emmanuel Celler e Samuel Dickstein, cercarono di implementare le quote di immigrazione per consentire ad altri rifugiati di entrare negli Stati Uniti. Dickstein voleva aumentare la quota di immigrazione utilizzando i contingenti inutilizzati, che ammontavano a 120.000 unità. La sua proposta non avrebbe modificato le quote di immigrazione, poiché queste quote erano inattive e avrebbero potuto essere riservate ai rifugiati. Il progetto di Dickstein incontrò l’opposizione dell’opinione pubblica del Sud e dell’Ovest degli Stati Uniti; un sondaggio della rivista «Fortune» su questo argomento rivelava che l’83% degli Americani era contrario all’aumento delle quote di immigrazione. Il sondaggio dava una forte indicazione del fatto che l’opinione pubblica non aveva alcun interesse ad espandere le quote, qualunque fosse la circostanza storica contemporanea.

È interessante prendere in esame anche gli atteggiamenti della società ebraica americana. Il «B’nai B’rith Magazine» non fece mai menzione delle nuove Leggi sull’immigrazione negli editoriali del 1938, come nel 1935 quando fu proposta un’altra normativa. La situazione in Germania e in Austria era peggiore nel 1938 rispetto al 1935, quindi, ci si sarebbe aspettati un numero maggiore di articoli nel 1938. Sembrava che perfino la maggior parte degli Ebrei Americani non fosse interessata ad alcun aumento delle quote di immigrazione. Il giornale pubblicava periodicamente editoriali intitolati Old America, affermando che le porte degli Stati Uniti erano sempre state aperte a chiunque volesse entrare, ma dopo il 1938 queste sottili critiche editoriali cessarono. Alla fine degli anni Trenta, questa sembrava essere la risposta tipica delle influenti riviste ebraiche americane.

Nel 1938 un altro provvedimento influenzò l’immigrazione dei rifugiati: l’amministrazione Roosevelt decise di unire le quote tedesche e austriache. Essenzialmente, quando i Tedeschi invasero l’Austria, la quota di quest’ultimo Paese fu eliminata, in questo modo più di 190.000 Ebrei divennero rifugiati e il Dipartimento di Stato non aumentò le quote per andare incontro alle loro richieste. Chiaramente l’amministrazione Roosevelt stava cercando di evitare ogni rischio politico; i restrizionisti erano divenuti più forti a causa della depressione economica e molte comunità ebraiche erano immensamente fedeli al Presidente e alla sua amministrazione. Roosevelt lasciò nelle mani del Dipartimento di Stato il problema dell’immigrazione dei rifugiati, e in particolare nella competenza del suo Segretario di Stato, Cordell Hull. Fu evidentemente una mossa politica: ogni volta che vi era una reazione pubblica negativa alla politica sull’immigrazione il Dipartimento di Stato e Hull assorbivano il peso delle critiche, permettendo a Roosevelt di mantenere il sostegno degli Ebrei Americani e apparire agli occhi dell’opinione pubblica come un simpatizzante dei rifugiati. In realtà, Roosevelt mostrava soltanto un interesse passeggero per l’argomento, anche se i suoi elettori lo consideravano ancora un sostenitore degli Ebrei. Permettere che fosse il Dipartimento di Stato il responsabile della crisi dei rifugiati fu un’eccellente mossa politica, che non portò, tuttavia, nessun aiuto agli Ebrei Europei. In effetti, tra il 1938 e il 1939, i restrizionisti inondarono la Commissione della Camera sull’immigrazione e sulla naturalizzazione con proposte anti-rifugiati. La Sottocommissione per l’approvazione della Camera rifiutò di finanziare il programma che consentiva ai rifugiati di avere dei permessi di visitatori per stabilire la residenza in Canada, che avrebbe qualificato tali visti come regolari anche per gli Stati Uniti. Questi vincoli posero enormi ostacoli davanti ai rifugiati e il Congresso fu il centro di essi. L’opposizione al Congresso non era limitata a pochi membri, ma comprendeva l’intero organismo nel suo insieme; rappresentanti di diversi Stati paventavano il pericolo per gli Stati Uniti di essere coinvolti negli affari europei. Gruppi patriottici e di veterani, e l’opinione pubblica erano ostili nei confronti dei rifugiati. Un sondaggio della rivista «Fortune», elaborato nell’estate del 1938, mostrava che il 67% delle persone non voleva dare alcun aiuto ai rifugiati, una percentuale che era ben oltre la maggioranza dei cittadini americani intervistati. Questi atteggiamenti derivavano dai problemi economici negli Stati Uniti e dall’influenza dei limitazionisti nel Congresso.

Il 1938 fu un anno cruciale per quanto riguardava la questione dei rifugiati. L’antisemitismo aveva raggiunto il suo apice nel 1938 e la Conferenza di Evian non aveva fatto assolutamente niente per risolvere il problema dell’immigrazione. I leader ebrei americani conclusero che gli Ebrei Statunitensi dovevano essere più patriottici di prima, divenendo quindi più passivi nella denuncia del nazismo. I leader ebrei costituirono il General Jewish Council, composto dall’American Jewish Committee, dall’American Jewish Congress, dal B’nai B’rith, e dal Jewish Labor Committee, per controllare le proteste dopo la «notte dei cristalli» in Germania[17]. Nel 1938 i leader ebrei si erano posti come priorità di non porre alcuna attenzione sulla situazione dei rifugiati. L’influenza e il potere dei restrizionisti al Congresso erano molto forti anche se delle personalità ebraiche presiedevano le tre Commissioni per l’immigrazione e il salvataggio: Sol Bloom presiedeva la Commissione per gli affari esteri; Samuel Dickstein la Commissione della Camera per l’immigrazione e la naturalizzazione; Emmanuel Celler la Commissione giuridica. Sebbene i tre avessero un’influenza considerevole all’interno delle Commissioni non fu possibile approvare o modificare alcuna Legge sui rifugiati o cambiare il National Origins Act del 1924.

Nel 1939 il dibattito sulla crisi dei rifugiati cominciò ad aumentare. La «notte dei cristalli» nel novembre del 1938 in Germania aveva provocato un terrore senza eguali tra gli Ebrei Tedeschi e l’invasione della Polonia nel settembre del 1939 aveva profondamente colpito l’opinione pubblica americana. Giornalisti di periodici come «The Nation» e «New Republic» scrissero degli editoriali per protestare contro le severe Leggi sull’immigrazione vigenti negli Stati Uniti, accusando i restrizionisti di antisemitismo; un giornalista sosteneva come chiudere le porte dell’immigrazione significasse ammettere che la democrazia americana aveva fallito in passato e adesso non esisteva più. I limitazionisti reagirono con veemenza: Henry Pratt Fairchild avvertì che l’ammissione di un gran numero di Ebrei avrebbe causato un’eruzione violenta dell’antisemitismo americano; Will Taylor del Tennessee sostenne che il «New Deal» aveva mostrato più preoccupazione verso i rifugiati europei che verso i 10 milioni di «profughi americani» che avevano camminato nelle strade delle città americane in preda alla disperazione. La pubblica opinione era di nuovo a favore dei restrizionisti in quel periodo, infatti, un sondaggio della rivista «Fortune» mostrò che l’83% degli Americani era contraria all’innalzamento delle quote di immigrazione. Era palese per la maggior parte degli Statunitensi come, alla fine degli anni Trenta, il New Deal non avesse ancora risolto il problema della disoccupazione, in contrasto con la Germania nazista che aveva un tasso di occupazione molto alto e un massiccio arsenale militare. In generale, gli Americani credevano che gli immigrati avrebbero avuto un effetto positivo insignificante o nullo sull’economia e avrebbero sottratto loro possibilità di lavoro. Per questo l’amministrazione Roosevelt non voleva un afflusso di Ebrei Europei nel Paese.

Durante il 1939, sempre più membri del Congresso iniziarono a proporre progetti di Leggi che avrebbero dovuto mettere fine o ridurre significativamente le quote di immigrazione. La proposta più composita contro l’immigrazione comprendeva un gruppo di cinque misure presentate al Senato da Robert Reynolds della Carolina del Nord. Il progetto prevedeva di ridurre le quote del 90% e fermare l’immigrazione permanente per 10 anni o fino a quando la disoccupazione negli Stati Uniti non fosse diminuita a meno di tre milioni. È interessante notare come la Sottocommissione per l’immigrazione studiasse questa proposta per tre giorni; in retrospettiva, è difficile comprendere come potesse essere soltanto presa in considerazione una proposta che intendeva eliminare totalmente l’immigrazione.

Il Wagner-Rogers Bill fu l’unica proposta che tentò seriamente di liberalizzare il National Origins Act del 1924. Questo disegno di Legge era stato presentato per aiutare 20.000 bambini rifugiati tedeschi di età inferiore ai 14 anni. Anche questo disegno di Legge incontrò una forte opposizione negli Stati Uniti; un sondaggio Gallup, condotto nel 1939, indicava come il 69% degli Americani intervistati si opponesse all’ammissione dei bambini[18]. I restrizionisti sostenevano che l’America avrebbe dovuto prendersi cura dei bambini americani e lasciare che fosse l’Europa a prendersi cura dei propri. Solo 45 senatori erano disposti a rivelare la propria opinione sulla questione, 21 avevano votato a favore e 24 contro[19]. La maggior parte dell’opposizione proveniva dal Sud degli Stati Uniti; meno del 15% dei membri del Sud del Congresso era favorevole alla Legge, nella parte occidentale e nel Nord-Est circa il 25%, mentre vi era stata una forte maggioranza tra i senatori del Midwest. Il sostegno al progetto di Legge nel Midwest era sorprendente, data l’influenza in questa parte del Paese dell’isolazionismo e del nativismo. Il 25% dei democratici e meno del 10% dei repubblicani era favorevole a questa Legge. Ciò mostrava la forza dei restrizionisti, dei nativisti e degli antisemiti al Congresso in quel momento storico. Il Wagner-Rogers Bill era un disegno di Legge volto ad aiutare i bambini al di sotto dei 14 anni che ancora non potevano ottenere alcun supporto. Ancora una volta, non vi era stata alcuna reazione da parte dell’amministrazione Roosevelt.

Con l’inizio della guerra in Europa, i limitazionisti svilupparono una nuova politica per sostenere la necessità di scoraggiare l’immigrazione; l’argomento dei membri del Congresso e di altri rappresentanti concerneva la sicurezza nazionale, che sarebbe stata messa in pericolo dall’ammissione nel Paese dei rifugiati, che i nazisti avrebbero usato per rafforzare la loro economia e infiltrare delle spie. Il tema ebbe una vasta ripercussione sul pubblico americano, che era terrorizzato dal fatto che i nazisti usassero proprio i rifugiati per infiltrarsi negli Stati Uniti. Inoltre, i sostenitori dei diritti dei rifugiati ebbero una battuta d’arresto, poiché non volevano mettere a repentaglio le loro credenziali di leali Americani sostenendo l’immigrazione a prescindere dai rischi per la sicurezza nazionale.

Il Presidente Roosevelt non fece nulla per dissuadere l’opinione pubblica da questa presunta minaccia. In una delle sue conversazioni al caminetto del maggio 1940 dichiarò che le armi non erano le uniche minacce, infatti, anche traditori, sabotatori e spie erano minacce alla sicurezza nazionale. Le osservazioni di Roosevelt erano esattamente ciò che i limitazionisti volevano sentire. Durante la sua conversazione, Roosevelt si riferiva anche al cavallo di Troia e alla quinta colonna come nuovi metodi di attacco contro gli Stati Uniti. La sua analogia con il cavallo di Troia fu rafforzata dalla retorica del Dies Committee, inoltre, la similitudine era stata utilizzata anche da Leland Stowe, un editorialista anti-rifugiati del «Washington Evening Star». I limitazionisti scoprirono rapidamente che il problema della sicurezza nazionale poteva essere sfruttato per ottenere un vantaggio politico.

La ragione per cui il tema dello spionaggio tra i rifugiati acquisì sempre più forza all’interno degli Stati Uniti derivava dalla relativa inesperienza del personale dei servizi di intelligence del Dipartimento di Stato; l’agenzia di intelligence era arrivata a rivendicare di possedere delle prove inequivocabili dell’attività della quinta colonna, affermando che la German Jewish Children’s Aid e l’Hebrew Immigration Aid Society (HICEM), le più antiche e importanti agenzie di salvataggio ebraiche americane, erano in realtà centri di spionaggio[20]. Una simile affermazione era di per sé abbastanza ridicola per il grande pubblico, ma vi erano persone all’interno del Dipartimento di Stato che la credevano plausibile. Il buon senso avrebbe dovuto dire a questi funzionari che gli Ebrei Americani non sarebbero divenuti spie per un Paese che li perseguitava. I commenti del personale del Dipartimento erano una prima indicazione dell’isteria che si sarebbe sviluppata negli anni successivi. William C. Bullitt, ex Ambasciatore in Francia, affermò che più della metà delle spie catturate erano rifugiati tedeschi. «The Nation» pubblicò una lettera di Heinz Pol, un giornalista rifugiato conoscitore del contesto francese, che sottolineò come non un solo rifugiato fosse stato coinvolto in casi di spionaggio in Francia. I giornali più influenti non fecero niente per alleviare la paura degli Americani che i rifugiati costituissero un rischio per la sicurezza; l’ansia generalizzata esistente tra gli Statunitensi in questo momento era in aumento anche a causa della facilità con cui la Germania aveva invaso la Polonia e la Francia.

Circolavano anche altre voci su fantomatiche spie ebree in America Latina e sulla creazione, secondo l’articolo di Samuel Lubell del «Saturday Evening Post», di una speciale scuola a Praga in cui i nazisti avrebbero addestrato gli agenti a farsi passare per Ebrei. Sebbene vi fossero stati dei tentativi in tal senso, non era né una modalità diffusa, né quella preferita. Nella pratica, era un altro sistema dei restrizionisti, dei nativisti e degli antisemiti di usare le paure dell’opinione pubblica americana e la mancanza di informazione per fermare l’immigrazione.

Per tutto il 1940, l’idea di uno spionaggio nazista attraverso i rifugiati imperversò negli Stati Uniti nel loro complesso. Il Presidente Roosevelt alimentò l’insicurezza della popolazione americana quando diede una attenzione significativa al tema.

La stampa americana si focalizzò sul sospetto e sull’insicurezza dell’opinione pubblica quando prestò particolare attenzione alle infiltrazioni tedesche in America, dopo che il Presidente aveva dichiarato la sua ferma convinzione che la quinta colonna rappresentasse una seria minaccia per gli Stati Uniti. Nell’estate e nell’autunno del 1940, il «New York World Telegram», la «Pittsburgh Press», il «New York Post», e il «New York Journal American» furono le testate che pubblicarono una serie di articoli che descrivevano come la quinta colonna ottenesse potere e funzionasse su vasta scala in tutti gli Stati Uniti. La stampa americana affermava l’esistenza di infiltrati in Paesi come la Cecoslovacchia, la Francia, la Polonia e la Norvegia. Gli articoli paventavano che anche gli Stati Uniti fossero preda di queste spie. Gli autori erano giornalisti rispettati che ebbero un vasto pubblico di riferimento durante gli anni Quaranta. Quotidiani come «America» tentavano di confutare e persino di ridicolizzare queste accuse scandalose, ma tali tentativi caddero nel vuoto, infatti, la maggior parte dei lettori americani credeva a ciò che leggeva nelle principali testate giornalistiche. Un sondaggio Roper del luglio del 1940 indicava che il 71% degli intervistati era certo che la Germania avesse creato una quinta colonna negli Stati Uniti. Un articolo sul numero di novembre di «McCall» mostrava in dettaglio come la preoccupazione americana per la quinta colonna producesse moltissimi cacciatori di spie, mentre un portavoce del Dipartimento di Giustizia dichiarava che il compito più difficile del Dipartimento fosse proprio quello di sgonfiare l’isteria dello spionaggio. Secondo una relazione dell’ufficio del procuratore generale la stampa americana era più preoccupata della quinta colonna che della guerra, un dato che mostrava chiaramente la portata dell’isteria legata alla quinta colonna e quanto la stampa americana ne fosse preda, come la popolazione americana nel suo complesso. La ferma convinzione di Roosevelt dell’esistenza della quinta colonna ne acuì il fascino nella stampa nazionale.

Durante il 1940 l’antisemitismo si diffuse in tutti gli Stati Uniti; anche se la maggior parte degli Americani non era d’accordo con il fascismo e il nazismo, era molto ricettiva verso l’antisemitismo. L’American Institute of Public Opinion scoprì che Padre Charles Coughlin aveva un pubblico d’ascolto molto vasto e il suo programma radiofonico attaccava gli Ebrei regolarmente. Il religioso aveva un pubblico di ascolto di circa 15 milioni, di cui tre milioni e mezzo quotidiani. Il 67% dei suoi ascoltatori regolari approvava il suo violento messaggio antisemita, apprezzato anche da un 51% degli ascoltatori occasionali. La dimensione del pubblico di Coughlin e il fatto che due terzi dei suoi ascoltatori fosse d’accordo con lui dimostravano quanto l’antisemitismo non fosse più limitato a piccoli gruppi specifici, ma si fosse allargato ad una fetta di opinione pubblica più ampia. La predicazione dei nazisti da un lato e i seguaci di Coughlin e i membri del Bund Tedesco-Americano dall’altro avevano convinto molti Americani che la loro antipatia per gli Ebrei e gli immigrati era giustificata. Nei sondaggi condotti tra il 1940 e il 1946, gli Ebrei erano visti come una maggiore minaccia per il benessere degli Stati Uniti rispetto a qualsiasi altro gruppo nazionale, religioso o razziale; sarebbe stato più plausibile che Tedeschi e Giapponesi fossero percepiti come minacce, tuttavia, erano i rifugiati ebrei ad essere considerati una minaccia, non una questione umanitaria.

Parecchie voci della ragione si pronunciarono contro l’accusa di spionaggio verso i rifugiati. I redattori di «The Nation» e «The New Republic» facevano parte di quella stampa liberal che voleva che il Dipartimento di Stato mostrasse le prove delle accuse rivolte contro i rifugiati. Quando i giornalisti di «The Nation» sfidarono il Dipartimento di Stato a provare un singolo episodio di spionaggio operato da rifugiati ebrei, il Dipartimento non produsse prove sufficienti a sostegno delle sue accuse. Un giornalista di «The New Republic» affermò che i nazisti avevano trovato pochi ostacoli quando avevano chiesto l’ammissione negli Stati Uniti, mentre ciò era quasi impossibile per i rifugiati politici. Il giornale «PM» accusò l’assistente del Segretario di Stato Breckinridge Long, una figura importante nella politica sui rifugiati, per questo atteggiamento. La stampa, la radio, i cinegiornali, i libri, le chiese e i gruppi patriottici avevano contribuito ad alimentare la paura della quinta colonna; ogni forma di comunicazione di massa negli Stati Uniti supportava la teoria del rifugiato come spia.

Fino al 1940 Roosevelt riuscì a tenersi pubblicamente lontano dalla questione dei rifugiati. Nondimeno, questo cambiò con l’affermazione sulla quinta colonna e la paranoia che ne seguì. Nel maggio del 1940, il Presidente trasferì il servizio di immigrazione e naturalizzazione dal Dipartimento del Lavoro al Dipartimento della Giustizia perché riteneva che quest’ultimo avrebbe controllato la situazione dei rifugiati in modo più efficace[21]. Durante una conferenza stampa Roosevelt giustificò l’atto in quanto necessario per la difesa nazionale, essenziale per ridurre il sabotaggio e lo spionaggio.

Il Congresso fece la sua parte per aiutare il Presidente quando approvò l’Alienation Act del 1940, noto come Smith Act, che stabiliva sanzioni penali per chi avesse sostenuto il rovesciamento del Governo degli Stati Uniti e richiedeva a tutti i residenti stranieri sopra i 14 anni di registrarsi. La Legge fu abrogata nel 1952. Il passaggio della nuova normativa, considerata una immensa vittoria per i restrizionisti, fu il diretto risultato dei timori del Presidente Roosevelt della presunta quinta colonna. Un sondaggio Roper sul numero di luglio di «Fortune» convalidò la posizione restrizionista affermando che il 71% dei suoi intervistati credeva all’esistenza di una quinta colonna tedesca.

Tra la fine del 1941 e l’inizio del 1942, le notizie di massicci massacri di Ebrei in Polonia trapelarono anche negli Stati Uniti. Le motivazioni per le quali nessuno nel Dipartimento di Stato volle sincerarsi di queste informazioni è una questione che merita un’attenzione particolare. La figura principale nell’amministrazione Roosevelt riguardo all’immigrazione era l’assistente Segretario di Stato Breckinridge Long, un amico di lunga data del Presidente fin dai tempi del New Deal. L’amicizia con il Presidente permise a Long di influenzare la politica sull’immigrazione e l’attuazione di quote più severe per i rifugiati. Con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, i funzionari del Dipartimento di Stato crearono una divisione speciale per i problemi del conflitto, con Long come responsabile. L’impegno principale di Long era la nuova divisione che includeva anche la sezione visti del Dipartimento di Stato; ciò significava che Long era nella posizione di prendere decisioni critiche nei confronti dei rifugiati. Nel 1943 supervisionò 23 delle 42 divisioni all’interno del Dipartimento di Stato relative all’immigrazione; una quantità immensa di potere per un uomo che nutriva sentimenti antisemiti.

Breckinridge Long era un limitazionista fin dagli anni Trenta e considerava gli immigrati una minaccia. Ammiratore di Hitler e Mussolini prima che gli Stati Uniti fossero coinvolti nel conflitto, valutava l’«Anschluss» del 1938 accettabile in quanto i Tedeschi erano le uniche persone con sufficiente intelligenza e coraggio per portare la pace tra il Reno e il Mar Nero. Ciò rappresentava un segnale inquietante per i gruppi ebraici, in quanto Roosevelt e Long non avevano un’opinione favorevole verso di loro, non avendo quindi alcun interesse significativo nei tentativi di salvataggio. Tale indifferenza si rivelò fatale per l’immigrazione dei rifugiati durante la Seconda Guerra Mondiale.

Con difficoltà gli storici hanno cercato di decifrare l’esatta opinione di Long sugli Ebrei, dato che il personaggio era abbastanza intelligente da non criticare l’Ebraismo apertamente. Le sue memorie private sono introspettive, ma non rivelano mai il suo giudizio definitivo sull’argomento. Era un tipico burocrate del suo tempo, risentito dall’«intrusione» degli Ebrei nelle alte sfere dell’amministrazione pubblica durante il New Deal[22]. Long non si riferì mai direttamente agli Ebrei; usava termini come «i liberal di New York», e ammirava l’amministrazione Wilson che era andata incontro alla ricca America. Long adoperò l’idea dei rifugiati come rischio per la sicurezza degli Stati Uniti; nel 1941 aveva convinto il Presidente che chiunque avesse un parente in un Paese sotto controllo nazista rappresentasse un pericolo per la sicurezza nazionale. Long fu un elemento chiave nella costruzione del «muro di carta», la metafora utilizzata da David Wyman per descrivere la politica del Dipartimento di Stato nei confronti dei rifugiati. Un’altra ragione, e probabilmente la più importante, era che Long credeva che il comunismo fosse legato all’internazionalismo ebraico[23]. È possibile affermare che la mancanza di cambiamento nella politica di Washington abbia contribuito a formare la sua opinione sugli Ebrei; la sua incomprensione degli Ebrei si nutriva delle paure di un Governo comunista e plasmava la sua politica sull’immigrazione, coerente, nondimeno, con l’opinione della società americana durante gli anni Trenta e Quaranta.

Nel luglio del 1941, il Dipartimento di Stato ricevette nuovamente un’attenzione negativa quando la questione dell’antisemitismo all’interno del Ministero degli Esteri fu pubblicamente messa in discussione, divisione in cui Long era direttamente coinvolto. Dopo essere stato costretto alle dimissioni in circostanze misteriose per il suo coinvolgimento con la Dominican Republic Settlement Association, Alfred Wagg iniziò a scrivere una serie di articoli su «New Republic» in cui sosteneva che l’antisemitismo era ampiamente diffuso all’interno del Dipartimento. Long e il Segretario di Stato Cordell Hull prepararono una spiegazione accettabile per il Presidente, secondo la quale il Dipartimento di Stato aveva lavorato diligentemente per aiutare i rifugiati ad emigrare negli Stati Uniti. Roosevelt, preoccupato del suo status politico, non voleva alienarsi le simpatie del Congresso; con problemi diplomatici irrisolti con il Giappone e la Germania, egli accettò le conclusioni del Dipartimento di Stato e non si preoccupò mai veramente dell’accuratezza dei rapporti inviati. Solo pubblicazioni liberal come «New Republic» e «The Nation» si interrogarono sulle responsabilità del Dipartimento di Stato. Non vi furono pubbliche prese di posizione da parte dei maggiori gruppi ebraici, e persino il rabbino Wise rimase insolitamente silenzioso sulla questione. Nel 1941 Breckinridge Long ottenne l’autorità assoluta sulle politiche di immigrazione verso i rifugiati. Il suo primo ordine del giorno fu la fine delle sovvenzioni al Presidential Advisory Committee on Political Refugees (PACPR) perché in contrasto con le sue restrittive politiche di immigrazione. Garantì che i visti concessi dai consolati nei Paesi occupati non sarebbero stati accettati; Long poteva rimuovere gli Ambasciatori, per ciò nessuno poteva decidere il destino di un rifugiato senza la sua approvazione. Le politiche sull’immigrazione si svilupparono in una modalità così restrittiva che nel 1941 su 985 richieste ne furono accettate soltanto 121; entro l’ottobre dello stesso anno su 9.500 richieste di visto soltanto 4.800 furono autorizzate.

Nel 1941 Long attuò nuove iniziative per mantenere basse le quote di immigrazione e il numero dei rifugiati negli Stati Uniti. La maggior parte degli storici concorda sul fatto che questo fu l’ultimo anno in cui l’America e qualsiasi altro Paese interessato avessero una qualche possibilità di salvare un numero significativo di Ebrei Europei; infatti, gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra, quindi un piano di salvataggio era ancora un’opzione praticabile. Long fermò efficacemente la maggior parte degli sforzi rafforzando le politiche sull’immigrazione. Di nuovo, l’indifferenza di Roosevelt per la situazione si dimostrò costosa: avrebbe potuto rimuovere Long, ma scelse di non farlo, ignorando il problema.

Quando gli Stati Uniti entrarono nella Seconda Guerra Mondiale a dicembre, la questione dei profughi ebbe un significato irrilevante per l’amministrazione Roosevelt.

Per enfatizzare la sua posizione sulla questione dell’immigrazione nel giugno del 1941, il Presidente firmò il Bloom-Van Nuys Bill che consentiva ai consolati americani di respingere chiunque potesse rappresentare una minaccia per la società americana.

Dal settembre del 1941 i funzionari militari alleati sentivano notizie sullo sterminio sistematico degli Ebrei. L’esercito britannico aveva ricevuto dei rapporti dall’ottobre del 1941 sulle uccisioni di massa in Unione Sovietica; nei rapporti era descritta l’uccisione di circa 45.000 Ebrei. È possibile che la Gran Bretagna non abbia condiviso in quel momento le informazioni con gli Stati Uniti, dato che questi ultimi non erano ancora entrati in guerra. È importante ricordare altresì che l’Inghilterra, fino a questo punto, non aveva mostrato il minimo interesse per i rifugiati ebrei, infatti, il Libro bianco del 1939 aveva sostanzialmente chiuso la Palestina all’immigrazione ebraica. Dal 1938, la Gran Bretagna aveva modificato la sua politica in Medio Oriente; il progressivo insediamento di Israeliti in Palestina aveva già provocato delle rivolte, con un deciso sostegno al nazionalismo palestinese da parte di quasi tutti i Paesi Arabi. L’amicizia araba era indispensabile all’Inghilterra per conservare la sua influenza nella regione, soprattutto, in considerazione del crescente potere della Germania, appariva vitale per gli interessi inglesi mantenere buoni rapporti con l’Egitto e la Palestina, e controllare il Mar Rosso[24]. Il risultato di tale scelta politica fu un allontanamento dalle precedenti posizioni favorevoli al sionismo e l’inizio di severe restrizioni all’emigrazione ebraica in Terra Santa e alla vendita di terreni all’Agenzia Ebraica. Gli Stati Uniti appoggiarono pienamente le iniziative prese dall’Inghilterra, infatti è possibile affermare che durante questo periodo l’America non fu convolta nella complessa questione mediorientale.

Nel 1942 la situazione degli Ebrei Europei peggiorò ulteriormente, con la trasformazione dei campi di concentramento in campi di sterminio; il numero degli Ebrei deportati e uccisi era così grande che i nazisti non furono in grado di nascondere le informazioni a riguardo alle agenzie di intelligence presenti in Europa.

Le notizie più importanti sullo sterminio furono ricevute nell’estate del 1942: il dottor Gerhard Riegner, capo dell’Ufficio di Ginevra del Congresso Mondiale Ebraico, riferì che i nazisti avevano pianificato di sterminare gli Ebrei d’Europa in una sola volta[25]. Riegner affermava che l’informazione non poteva essere confermata, ma il suo confidente aveva connessioni con le più alte cariche naziste. Anche se Riegner non poteva avvalorare in modo definitivo i piani nazisti, le sue informazioni provenivano da una fonte affidabile all’interno della gerarchia nazista. Riegner inviò i dettagli del piano ai più importanti leader ebrei negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Sebbene gli fosse stata inviata l’informazione, il rabbino Wise non ne ricevette una copia prima di due mesi: non è noto se ciò fu intenzionale o meno. Quando finalmente il rabbino ricevette questa informazione, la portò immediatamente all’attenzione del Sottosegretario di Stato Sumner Wells. Il Dipartimento di Stato, seguendo la prassi del tempo, ritardò la verifica del rapporto. Mentre il rapporto era ancora in attesa di verifica da parte del Dipartimento di Stato, testate giornalistiche come «Newsweek», il «New York Times» e «Jewish Frontier» diedero notizia dell’esistenza delle camere a gas. Ormai l’amministrazione Roosevelt non poteva ignorare ancora il rapporto o giustificare il ritardo sulla sua verifica. Prima di intraprendere qualunque azione, Wise dovette attendere che il Dipartimento di Stato verificasse il rapporto. Il rabbino poté presentarlo al «New York Times» solo dopo un mese, quando erano già morti due milioni di Ebrei.

Il rabbino Wise fu criticato per il suo silenzio durante la verifica del rapporto da parte del Dipartimento di Stato, ma queste critiche non erano giustificate, poiché vi erano due punti politici che dovevano essere considerati: in primo luogo, in mancanza della autenticazione del Dipartimento di Stato, il rapporto non era credibile; in secondo luogo, Wise aveva bisogno del Dipartimento di Stato per riuscire a salvare gli Ebrei Europei. David Wyman ha evidenziato le critiche rivolte a Wise dai leader ebrei, sottolineando come anche il Congresso Mondiale Ebraico e il Foreign Office britannico fossero a conoscenza del rapporto e non avessero fatto niente, pertanto la colpa per la ritardata risposta non poteva essere attribuita esclusivamente al rabbino Wise.

Nel 1943, il Congresso ebraico americano, guidato dal rabbino Wise, sperava che l’opinione pubblica potesse essere più favorevole verso gli Ebrei, tuttavia la maggior parte degli Americani credeva sì che numerosi Ebrei fossero stati uccisi, ma non aveva drasticamente cambiato la sua posizione. I gruppi ebraici ricevettero scarsa attenzione da parte dei funzionari del Governo quando riferirono delle atrocità commesse contro gli Ebrei Europei, in quanto Sumner Welles, Breckinridge Long, Cordell Hull, e il Presidente Roosevelt non erano interessati ad alcuna azione di salvataggio.

La Divisione per gli Affari Europei del Dipartimento di Stato cercò per mesi di mantenere celata ogni informazione sul genocidio ebraico. Il Segretario di Stato Cordell Hull aveva inviato un telegramma all’Ufficio per gli Affari Europei affinché ignorasse ogni rapporto che doveva essere trasmesso a privati cittadini, in quanto avrebbe messo a repentaglio le relazioni con i Paesi neutrali su questioni ufficiali riservate. Questo era il cablogramma 354, che dava istruzioni a Leland Harrison di smettere di inoltrare rapporti sugli omicidi di massa[26]. Il Dipartimento di Stato fece tutto quello che era in suo potere per fermare le informazioni negli Stati Uniti riguardo al massacro degli Ebrei Europei, in ciò emulato anche dai media. Una volta che il rapporto Riegner-Lictheim, che riferiva come dall’inizio del 1943 in Polonia fossero stati uccisi ogni giorno 6.000 Ebrei, raggiunse il Congresso ebraico americano e le altre organizzazioni collegate, la stampa americana fece ben poco per diffondere le informazioni al pubblico americano. Un sondaggio del gennaio del 1943 dimostrava che quasi il 50% degli Americani intervistati riteneva che gli Ebrei avessero troppa influenza nel mondo degli affari[27]. Dato l’aumento della percentuale rispetto al sondaggio del 1942, si può dedurre che l’atteggiamento dell’opinione pubblica americana fosse inesorabilmente peggiorato, nonostante le notizie sullo sterminio.

Nel 1943 l’Ebraismo Americano attuò diverse iniziative; il rabbino Wise e altri gruppi ebraici di spicco crearono il Joint Escape Committee e organizzarono una manifestazione nella città di New York. I leader ebrei svilupparono un programma di 11 punti attraverso il quale gli Stati Uniti avrebbero potuto salvare gli Ebrei Europei; una copia del documento fu inviata ad ogni funzionario governativo di rilievo[28]. Questa era la prima volta che tutti i gruppi ebraici formulavano una proposta così articolata. «The Nation» e «New Republic» supportarono i progetti di salvataggio del Joint Emergency Committee.

In linea con la sua solita posizione, il Dipartimento di Stato non diede nessuna risposta ai leader ebrei.

Il Joint Emergency Committee si focalizzò su due punti nel 1943: una protesta pubblica formale contro la mancata politica di salvataggio degli Stati Uniti e l’ottenimento di una dichiarazione pubblica di sostegno da parte del Congresso sull’opera di soccorso. Tuttavia, il Comitato non poteva forzare il Congresso a rilasciare una dichiarazione pubblica di sostegno; David Wyman ha evidenziato come il Congresso convenisse che i colpevoli degli omicidi di massa dovessero essere puniti, ma non faceva menzione del salvataggio. Questo era un atteggiamento comune in quel periodo: la maggior parte dei funzionari governativi riteneva che fosse necessaria una punizione, ma nessuno menzionava alcun tentativo di aiuto concreto verso gli Ebrei Europei, ritenuto, inoltre, impossibile e indesiderabile. Anche il Dipartimento di Stato Americano e il Governo Britannico ritenevano ogni tentativo non solo come un peso e un pericolo, ma anche come qualcosa che doveva essere evitato.

Un esempio di non risposta da parte di Roosevelt alla crisi dei rifugiati è riscontrabile nel momento in cui il rabbino Wise e molti altri membri del Joint Emergency Committee chiesero un incontro. La Casa Bianca ricevuto questo messaggio lo inviò al Dipartimento di Stato, che rifiutò ogni contatto affermando che né il Presidente né il Dipartimento erano interessati.

Sette membri del Congresso, guidati da Emmanuel Celler, ottennero un incontro con Roosevelt in questo periodo, tuttavia, stranamente, non fecero pressioni sul Presidente per la questione del salvataggio, ma si focalizzarono sull’allentamento delle restrizioni in materia di immigrazione e per l’aumento dell’immigrazione sfruttando pienamente quanto previsto dalla normativa vigente. Quando i membri del Congresso enfatizzarono il tema della restrizione dell’immigrazione, Roosevelt fu abile nel farli rivolgere a Long, un restrizionista antisemita che non fece niente. Sembra che Roosevelt si sia interessato degli Ebrei Europei solo quando i leader ebrei americani si confrontarono con lui.

Nel 1943, Roosevelt fece un solo tentativo di facilitare una missione di salvataggio, quando organizzò la Conferenza delle Bermuda per discuterne con i Paesi alleati.

La Conferenza incontrò la feroce opposizione di Breckinridge Long, che riuscì ad esercitare la sua autorità e influenza controllandone la direzione con la selezione dei membri. Long affrontò una fiera resistenza perché entrambi i Governi, Americano e Britannico, dovevano portare a casa o tentare di portare a casa un solido piano di salvataggio, non potendo più negare pubblicamente la serietà degli intenti genocidari nazisti nei confronti degli Ebrei Europei. Testate giornalistiche note e stimate come il «New York Times» avevano riferito delle atrocità naziste ed entrambi i Paesi presenti alla Conferenza delle Bermuda avevano ammesso che i rapporti sullo sterminio in atto erano effettivamente credibili.

Sia gli Inglesi sia gli Americani concordavano sul fatto che un tentativo di salvataggio nell’Europa occupata non era fattibile, così decisero di ristabilire il Comitato Intergovernativo sui Rifugiati politici. Gli Inglesi non aderirono facilmente all’idea finché Long non usò la sua influenza per ristabilire la Commissione. In effetti, Long si era prefisso di formare un Comitato che avrebbe seguito le mozioni di salvataggio, non facendo in realtà nulla. Il potere che il Dipartimento di Stato diede a Long sull’immigrazione assicurava che non sarebbe stato fatto nulla per gli Ebrei Europei.

L’idea del trasferimento degli Ebrei in Nord Africa fu discussa in modo estremamente dettagliato alla Conferenza delle Bermuda, un’idea presto abbandonata a causa dell’insediamento degli Ebrei in una zona densamente popolata da musulmani. Fu proposto che i profughi ebrei fossero collocati in America Latina, ma anche questo progetto non si sviluppò.

Il Dipartimento di Stato usò la minaccia delle spie naziste per la sicurezza interna, convincendo così i Paesi Latino-Americani a chiudere le porte. La Conferenza delle Bermuda concluse che il modo più rapido per salvare gli Ebrei fosse vincere la guerra e niente poteva interferire con questo obiettivo. Sebbene la Conferenza delle Bermuda fosse in teoria una nobile iniziativa, non aveva un piano credibile di soccorso; infatti, i Tedeschi controllavano il continente europeo nel 1943, pertanto, anche se il Nord Africa fosse stato un luogo idoneo per trasferire gli Ebrei, non era possibile individuare un luogo sicuro da dove sarebbero potuti emigrare.

L’Ebraismo Americano e Mondiale credeva che lo scopo della Conferenza delle Bermuda fosse sviluppare un piano strategico per salvare gli Ebrei Europei; non era così, e non ci volle molto prima che comprendesse come la Conferenza fosse solo a beneficio dell’opinione pubblica. Quando la Conferenza delle Bermuda finì, la maggior parte dei funzionari governativi sapeva che le uccisioni di massa degli Ebrei avvenivano nei campi di concentramento in quanto ciò non era più un segreto. Il membro del Congresso Emmanuel Celler, una delle voci più critiche sulla Conferenza, affermò che essa era stata «un fiasco come la Conferenza di Evian, uno scherzo diplomatico che ha tradito gli interessi e le idee umanitarie»[29].

Riguardo alla Conferenza delle Bermuda, il Presidente aveva evidenziato che «nessun passo doveva essere fatto presso Hitler per il rilascio di futuri profughi»[30]. Non è noto che alla Conferenza di Casablanca del gennaio del 1943 Roosevelt parlò «della comprensibile lamentela dei Tedeschi a proposito degli Ebrei in Germania, i quali, mentre rappresentavano una piccola parte della popolazione, costituivano il 50% degli avvocati, dottori, insegnanti, docenti universitari di tutta la Germania»[30]. Per il Presidente Roosevelt il problema dei profughi ebrei aveva troppe implicazioni di politica interna e internazionale per poter essere affrontato e risolto con un atto squisitamente umanitario; infatti, la risoluzione della questione portava ad una revisione della politica sull’immigrazione e ad una presa di posizione a favore di una «National Home» ebraica in Palestina. Il timore di un riaggravarsi della depressione economica negli Stati Uniti e della perdita dell’appoggio dei Paesi Arabi in Medio Oriente, che avrebbe messo a repentaglio la futura leadership americana nell’area, resero impossibile modificare la linea politica dell’amministrazione e salvare così i profughi ebrei.

Il rabbino Wise rese pubblica la sua incredulità e rabbia verso il Dipartimento di Stato, affermando che non aveva ancora fatto nulla per aiutare i tentativi di soccorso. Gli Stati Uniti erano sempre più coinvolti nella Seconda Guerra Mondiale, un fatto che rese Roosevelt ancora meno incline verso il salvataggio dei rifugiati. Anche se il rabbino Wise fosse stato in grado di discutere con Roosevelt sul procedere della Conferenza, a questo punto non c’era nessuna possibilità di salvare un numero significativo di Ebrei. Le informazioni che Roosevelt aveva ricevuto sugli interventi di soccorso furono fornite tramite il Segretario di Stato Hull via Breckinridge Long. Long riportò numeri e informazioni inaccurati al Presidente; ad esempio, egli riferì a Roosevelt che dal 1933 al 1943 gli Stati Uniti avevano permesso l’immigrazione di 580.000 rifugiati, mentre la cifra esatta era la metà. Roosevelt accettò queste relazioni senza domande e continuò a consentire a persone con tendenze restrittive e antisemite, come Long, Hull e il senatore Reynolds, di controllare l’immigrazione nel Paese.

Molti altri ostacoli furono attivati dal Dipartimento di Stato nel 1943 per limitare l’immigrazione. Il tempo richiesto per verificare le richieste fu prolungato a nove mesi; non vi era alcuna ragione apparente per questo aumento di tempo oltre ritardare le richieste il più a lungo possibile. Long fu continuamente criticato dai fautori del salvataggio perché la domanda per il visto era lunga più di un metro e doveva essere riempita da entrambi i lati da uno dei garanti del rifugiato, sotto giuramento pena il reato di spergiuro, e presentata in sei copie. È ipotizzabile che l’unica ragione per tale farraginosità burocratica fosse ritardare il processo di candidatura e scoraggiare l’immigrazione.

Nel 1943 i funzionari del Dipartimento di Stato aggiunsero una disposizione in base alla quale il rifugiato doveva trovarsi in gravissimo pericolo prima che il tentativo di salvataggio fosse un’opzione ragionevole. Ciò permise al Dipartimento di Stato di chiudere le porte a chiunque, sostenendo che nessuno dei richiedenti il visto era in pericolo. Fu la Commissione d’appello che fece in modo di non bloccare totalmente l’immigrazione negli Stati Uniti, annullando circa un quarto delle raccomandazioni negative formulate dal Comitato di revisione dei visti. Nel 1941 era stata utilizzata il 47,5% della quota, nel 1942 solo il 19%, nel 1943 le Nazioni dell’Asse avevano un’immigrazione negli Stati Uniti limitata al 9,8% della quota assegnata, una diminuzione significativa rispetto ai due anni precedenti. Anche con il lavoro positivo della Commissione d’appello, i limitazionisti, i nativisti e gli antisemiti presenti nel Dipartimento di Stato, insieme all’occupazione tedesca della maggior parte dell’Europa, avevano ridotto drasticamente l’immigrazione.

Nel 1944 la pressione politica sul Presidente Roosevelt lo costrinse ad assumere un ruolo attivo nei confronti della questione dei rifugiati. Non vi era nessun modo per nascondere al pubblico e al Congresso americano ciò che stava accadendo agli Ebrei nell’Europa occupata. Il Presidente Roosevelt emanò l’Ordine esecutivo 9417 per la creazione del War Refugee Board, che aveva la finalità di ottenere dallo Stato, dal Ministero del Tesoro e dai Dipartimenti di guerra qualsiasi supporto ritenuto necessario per l’immigrazione dei rifugiati. L’amministrazione e i vari Dipartimenti trovarono il modo per aggirare le richieste del War Refugee Board, poiché erano obbligati a fornire assistenza a condizione che ciò non interferisse con le operazioni belliche.

Il Dipartimento di Stato era ancora sotto la guida di Cordell Hull, e il War Refugee Board non poté fare nulla per cambiare la sua opinione sul salvataggio dei rifugiati. In effetti, gli uomini nominati da Hull non fecero niente per fermare l’opposizione dei funzionari di medio livello del Dipartimento di Stato. Tutti gli sforzi di salvataggio che Roosevelt sostenne coinvolsero le stesse persone che si erano opposte a qualsiasi atto concreto. Il Dipartimento del Tesoro, sotto la guida di Henry Morgenthau, fu l’unico apparato statale che fornì un supporto attivo, tuttavia, gli sforzi del War Refugee Board furono gravemente compromessi dalla mancanza di cooperazione e dalla sua incapacità di spostare fisicamente i rifugiati in un luogo sicuro. È possibile affermare che Roosevelt istituì il War Refugee Board in considerazione del peso dell’elettorato ebraico in America[32].

L’atteggiamento di Roosevelt verso la questione dei profughi ebrei fu poco chiaro; definito da alcuni ambivalente, per il fatto che, nonostante importanti esponenti del Partito Democratico fossero Ebrei, soprattutto nei grandi centri urbani, egli era molto ricettivo alle argomentazioni di influenti esponenti democratici del Sud, chiaramente antisemiti[33]. Altri hanno sottolineato che «il maggior ostacolo all’azione fu Roosevelt stesso. Egli era allo stesso tempo antisemita, benché in modo blando, e male informato»[34]. Lo storico Michael Marrus ha scritto che Roosevelt «sebbene fosse bene informato sugli avvenimenti europei, non era disposto a correre rischi per gli Ebrei, riteneva che un’azione a loro favore avrebbe creato guai politici e sembra che abbia fatto in modo di non pensare affatto alla questione. Il Presidente, rispettato profondamente e addirittura idoleggiato dagli Ebrei Americani, non aveva che una conoscenza superficiale delle questioni ebraiche e adattava la sua linea di condotta ai venti mutevoli della convenienza politica»[35].

Diversi sondaggi sull’opinione pubblica condotti nel 1944 hanno rivelato che la maggior parte degli Americani non aveva compreso la portata dello sterminio. Un sondaggio svolto nel dicembre del 1944 svelò che la maggioranza degli Americani credeva che Hitler fosse crudele con gli Ebrei, ma ignorava la portata dell’Olocausto. Un altro sondaggio del dicembre del 1944 dimostrò che quasi la metà degli Americani riteneva che gli Ebrei fossero una nazionalità, non un gruppo religioso. Le indagini mostravano due punti critici: in primo luogo, l’opinione pubblica americana non aveva idea di che cosa stava realmente accadendo agli Ebrei Europei; in secondo luogo, gli Americani consideravano gli Ebrei una razza, non una religione[36]. Un’analisi dei sondaggi indica che il 12% del pubblico americano credeva che le storie di omicidi di massa non fossero vere, mentre il 27% riteneva che il totale degli Ebrei uccisi fosse solo di 100.000 unità e soltanto il 4% riteneva che cinque milioni di Ebrei fossero stati uccisi[37]. Le percentuali mostrano come la stragrande maggioranza degli Americani non avesse idea di che cosa stesse accadendo in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale; non importa quante volte fu segnalata, la tragicità dell’Olocausto non fu mai veramente compresa dalla maggior parte degli Americani, inoltre, da quando iniziò la Seconda Guerra Mondiale in Europa e contro il Giappone, i rifugiati non furono mai una priorità per l’opinione pubblica degli Stati Uniti.

L’analisi dell’opinione pubblica e dell’azione governativa americane ci ha consentito di comprendere il peso di diversi e preponderanti fattori dell’ambito politico e sociale riguardo alla «questione ebraica»: l’indifferenza e l’astio verso i rifugiati da parte della società americana nel suo complesso; l’esistenza di paradigmi di pensiero nativista, restrizionista e antisemita; le priorità di politica estera e interna dell’amministrazione Roosevelt, che resero irrealizzabile ogni tipo di aiuto per i profughi ebrei. Questi elementi si congiunsero determinando le scelte politiche americane nel momento più drammatico per l’Ebraismo Europeo.


Note

1 Brinkley, Alan. Huey Long, Father Coughlin and the Great Depression. Vintage Books: A Division of Random House, 1982, pagina 160.

2 Su questa prima fase della persecuzione antiebraica in Germania, confronta U. Adam, Judenpolitik im Dritten Reich, Düsseldorf: Droste, 1972; A. Barkai, From Boycott to Annihilation: The Economic Struggle of German Jews 1933-1943, Hanover NH: University Press of New England, 1989; S. Friedländer, La Germania nazista e gli Ebrei, volume 1: Gli anni della persecuzione, Milano: Garzanti, 1998; W. L. Shirer, Qui Berlino. 1938-1940. Radiocronache dalla Germania nazista, Milano: Il Saggiatore, 2012; W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Torino: Einaudi, 2014.

3 Confronta Protests: Nazi Anti-Semite Atrocities Denounced Here, «Newsweek», 1° April 1933; Anti-Semitism Continues Home Policy of the Nazis, «Newsweek», 15 April 1933, pagina 13.

4 Anti-Semitism Continues Home Policy of the Nazis, «Newsweek», 15 April 1933, pagina 13.

5 Hitler’s Policy Rouses Protest: «Cold Pogrom» Against German Jews Threatens World Will Return to Medievalism, Say Ministers, «The Christian Century», 24 May 1933, pagina 702.

6 Germany: Chancellor Hitler’s Anti-Semitic Laws Explosive Item on League Council Agenda, «Newsweek», 27 May 1933, pagina 16.

7 No Jewish Nazis’ Rabbi Wise Says, «The New York Times», 3 July 1933, pagina 22; 142 College Heads Appeal For Jews, «The New York Times» 3 July 1933, pagina 42.

8 Cruelty of Nazis to Jews Asserted, «The New York Times», 11 July 1933, pagina 31.

9 McDonald aveva proposto di accogliere dai 15.000 ai 20.000 Ebrei ogni anno.

10 Si veda la lettera di dimissioni pubblicata sul numero del «The Christian Century» del 15 gennaio 1936.

11 Reinhold Niebuhr, Germany Must Be Told, «The Christian Century», August 1933, pagine 1014-1015.

12 Ross, Robert. So It Was True: The American Protestant Press and the Nazi Persecution of Jews, Minneapolis: University of Minnesota Press, 1980, pagine 83-84.

13 Confronta Traverso, Enzo. Introduzione, in Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Enzo Traverso (a cura di), Storia della Shoah, Volume I, La crisi dell’Europa, lo sterminio degli Ebrei e la memoria del XX secolo, Torino: UTET, 2005, pagina 11.

14 Sulla Conferenza di Evian confronta Friedländer, Saul. La Germania nazista e gli Ebrei (1933-1938), Milano: Garzanti, 1998, pagina 253 e seguenti; Nicaut, C. L’abandon des Juifs avant la Shoah: la France et la Conférence d’Evian. «Les cahiers de la Shoah», numero 1. Éditions Liana Levi: Paris, 1994; Wyman, D. S. Paper Walls. America and the Refugee Crisis 1938-1941, Amherst: University of Massachussetts Press, 1968, pagine 43-51.

15 Litvinoff, B. Il roveto ardente. Storia dell’antisemitismo. Milano: Mondadori, 1989, pagina 329.

16 Adler, S. The United States and the Holocaust, «American Jewish Historical Quarterly», 64, 1974, pagina 23.

17 Lookstein, Haskel. Were We Our Brothers’ Keepers? The Public Response of American Jews to the Holocaust, 1938-1944. New York: Hartmore House, 1985, pagina 30.

18 Breitman, Richard and Alan M. Kraut, American Refugee Policy on European Jewry, 1933-1945, Bloomington and Indianapolis: Indiana University Press, 1987, pagina 232.

19 Divine, Robert A. American Immigration Policy, 1924-1952. New Haven: Yale University Press, 1957, pagine 83-85.

20 Feingold, Henry L. The Politics of Rescue: The Roosevelt Administration and the Holocaust, 1938-1945. New York: Holocaust Library, 1970, pagine 127-130.

21 Wyman, David S. Paper Walls: America and the Refugee Crisis 1938-1941. Amherst: The University of Massachusetts Press, 1968, pagina 187.

22 Feingold, Henry L. The Politics of Rescue: The Roosevelt Administration and the Holocaust, 1938-1945. New York: Holocaust Library, 1970, pagina 130.

23 Feingold, Henry L. The Politics of Rescue: The Roosevelt Administration and the Holocaust, 1938-1945. New York: Holocaust Library, 1970, pagina 135.

24 Cohen, M. Direction of Policy in Palestine: 1936-1945, «Middle Eastern Studies», 11, 1975, pagina 237.

25 Hilberg, Raul. The Destruction of the European Jews: Student Edition. New York: Holmes and Meier Publishers, Inc., 1985, pagina 314.

26 Feingold, Henry L. Bearing Witness: How America and Its Jews Responded to the Holocaust. Syracuse: Syracuse University Press, 1995, pagina 173.

27 Cantril, Hadley. Public Opinion 1935-1946. Princeton: Princeton University Press, 1951, pagina 383.

28 Wyman, David S, The Abandonment of the Jews: America and the Holocaust, 1941-1945. New York: Pantheon Books, 1984, pagina 89.

29 Confronta Breitman, Richard and Alan M. Kraut. American Refugee Policy on European Jewry, 1933-1945. Bloomington and Indianapolis: Indiana University Press, 1987, pagina 208.

30 Confronta Wyman, David S., The Abandonment of the Jews: America and the Holocaust, 1941-1945. New York: Pantheon Books, 1984, pagina 313.

31 Confronta Wyman, David S., The Abandonment of the Jews: America and the Holocaust, 1941-1945. New York: Pantheon Books, 1984, pagina 112.

32 Breitman, Richard and Alan M. Kraut. American Refugee Policy on European Jewry, 1933-1945. Bloomington and Indianapolis: Indiana University Press, 1987.

33 Brenner, L. Zionism in the Age of Dictators, London: Lawrence Hill, 1983, pagine 238-239.

34 Johnson, P. A History of the Jews, New York: Harper and Row, 1987, pagina 504.

35 Confronta Marrus, M. R. L’Olocausto nella storia. Bologna: Il Mulino, 1994, pagina 231.

36 Cantril, Hadley. Public Opinion 1935-1946. Princeton: Princeton University Press, 1951, pagina 384.

37 Feingold, Henry L. Bearing Witness: How America and Its Jews Responded to the Holocaust. Syracuse: Syracuse University Press, 1995, pagina 289.


Bibliografia

Abzug, Robert H. Inside the Vicious Heart: Americans and the Liberation of the Nazi Concentration Camps. Oxford: Oxford University Press, 1985

Abzug, Robert H. America Views the Holocaust, 1933-1945: A Brief Documentary History. Boston: Bedford/St. Martin’s, 1999

Adam, U. Judenpolitik im Dritten Reich, Düsseldorf: Droste, 1972

Adler, S. The United States and the Holocaust, «American Jewish Historical Quarterly», 64, 1974

Arad, G. N. America, its Jewish and the Rise of Nazism. Indianapolis: Indiana University Press, 2000

Barkai, A. From Boycott to Annihilation: The Economic Struggle of German Jews 1933-1943, Hanover NH: University Press of New England, 1989

Baron, Lawrence. Haven from the Holocaust: Oswego, New York, 1944-1946. «New York History», 1983

Bauer, Yehuda. American Jewry and the Holocaust: The American Jewish Joint Distribution Committee, 1939-1945. Detroit: Wayne State University Press, 1981

Bower, Tom. Blind Eye to Murder: Britain, America and the Purging of Nazi Germany-a Pledge Betrayed, London: Granada, 1981

Braham, Randolph L. The Holocaust as Historical Experience: Essays and Discussion. Yehuda Bauer and Nathan Rotestreich, eds. New York: Holmes, Meier Publishers, Inc., 1981

Belth, N. A Promise to Keep. A Narrative of the American Encounter with Anti-Semitism. New York: Times Books/Anti-Defamation League of B’Nai B’rith, 1979

Bergamini, O. Storia degli Stati Uniti. Roma-Bari: Laterza, 2002

Brecher, Frank W. Reluctant Ally: United States Foreign Policy Towards the Jews from Wilson to Roosevelt. Westport, CT: Greenwood Press, 1991

Breitman, Richard and Alan M. Kraut. American Refugee Policy on European Jewry, 1933-1945. Bloomington and Indianapolis: Indiana University Press, 1987

Breitman, Richard. Official Secrets: What the Nazis Planned, What the British and Americans Knew. New York: Hill and Wang Publishing, 1998

Brenner, L. Zionism in the Age of Dictators. London: Lawrence Hill, 1983

Brinkley, Alan. Huey Long, Father Coughlin and the Great Depression. Vintage Books: A Division of Random House, 1982

Brugioni, Dino A. The Aerial Photos Of The Auschwitz-Birkenau Extermination Complex. Michael J. Neufield and Michael Berenbaum, eds. New York: St. Martin’s Press, 2000

Cantril, Hadley. Public Opinion 1935-1946. Princeton: Princeton University Press, 1951

Cattaruzza Marina, Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Enzo Traverso (a cura di). Storia della Shoah, Volume I, La crisi dell’Europa, lo sterminio degli Ebrei e la memoria del XX secolo, Torino: UTET, 2005

Cohen, M. Direction of Policy in Palestine: 1936-1945, «Middle Eastern Studies», 11, 1975

Dawidowicz, Lucy. The War Against the Jews. New York: Holt, Rhinehart and Winston, 1975

Dinnerstein, L. Anti-Semitism in America. New York: Oxford University Press, 1994

Divine, Robert A. American Immigration Policy, 1924-1952. New Haven: Yale University Press, 1957

Donno, Antonio. Gli Stati Uniti, il sionismo e Israele: 1938-1956. Roma: Bonacci, 1992

Donno, Antonio. Gli Stati Uniti, la Shoah e i primi anni di Israele. Firenze: Giuntina, 1995

Elson, John and Daniel S. Levy. DID F.D.R. DO ENOUGH? Some Believe that U.S. Failed to Save Jews During the Holocaust. «Time Domestic», 18 April 1994, 48

Erdheim, Stuart G. Could the Allies Have Bombed Auschwitz-Birkenau?, «Holocaust and Genocide Studies» 11 (Fall 1997): 130

Feingold, Henry L. Bearing Witness: How America and Its Jews Responded to the Holocaust. Syracuse: Syracuse University Press, 1995

Feingold, Henry L. The Politics of Rescue: The Roosevelt Administration and the Holocaust, 1938-1945. New York: Holocaust Library, 1970

Feingold, Henry L. The Jewish People in America. Baltimora: The John Hopkins University Press, 1992

Fenrich, Robert Lane. Imagining Holocaust: Mass Death and American Consciousness at the End of the Second World War, Doctoral Thesis, Northwestern University, 1992

Finger, Seymour Maxwell. American Jewry During the Holocaust. New York: Holmes and Meier Publishers, Inc., 1984

Flanzbaum, Hilene. The Americanization of the Holocaust. Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1999

Friedlander, Henry and Sybil Milton, eds. The Holocaust: Ideology, Bureaucracy, and Genocide. Millwood, N.Y.: Kraus International Press, 1980

Friedländer, S. La Germania nazista e gli Ebrei. Volume 1: Gli anni della persecuzione, Milano: Garzanti, 1998

Friedman, Saul S. NO HAVEN for the Oppressed: The United States Policy Toward Jewish Refugees 1938-1945. Detroit: Wayne State University Press, 1973

Gellately, Robert. Backing Hitler: Consent and Coercion in Nazi Germany. Oxford: Oxford University Press, 2001

Genizi, Haim. American Apathy: The Plight of Christian Refugees from Nazism. Jerusalem: Bar-Ilan University Press, 1983

Gilbert, Martin. Auschwitz and the Allies. New York: Holt, Rhinehart, and Winston, 1981

Grossmann, Atina. Shadows of War and Holocaust: Jews, German Jews, and the Sixties in the United States, Reflections and Memories. «Journal of Modern Jewish Studies» 13 (2014), 99-114

Hamerow, Theodore S. Why We Watched: Europe, America, and the Holocaust, New York: WW Norton & Company, 2008

Hilberg, Raul. The Destruction of the European Jews: Student Edition. New York: Holmes and Meier Publishers, Inc., 1985

Johnson, P. A History of the Jews. New York: Harper and Row, 1987

Israel, Fred. The War Diary of Breckinridge Long: Selections from the Years 1939-1944. Lincoln: University of Nebraska Press, 1966

Kitchens III, James H. Auschwitz Reexamined. «Journal of Military History» 58 (January 1994): 264-265

Korman, Gerd. The Holocaust in American Historical Writing, «Societas» 2 (1972), 251-270

Kushner, Tony. Britain, The United States and the Holocaust: In Search of a Historiography. Dan Stone, ed., The Historiography of the Holocaust. New York: Palgrave Macmillan, 2004

Kushner, Tony. The Holocaust and the Liberal Imagination: A Social and Cultural History, Oxford: Blackwell, 1994

Laqueur, Walter. The Terrible Secret: Suppression of the Truth about Hitler’s «Final Solution». Boston: Little, Brown, and Company, 1980

Lawrence, Bill. Six Presidents, Too Many Wars. New York: Saturday Review Press, 1972

Leff, Laurel. Buried by the Times: The Holocaust and America’s Most Important Newspaper. Cambridge: Cambridge University Press, 2005

Leff, Laurel. When the Facts Didn’t Speak For Themselves: The Holocaust in the New York Times. «Harvard International Journal of Press Politics» 5:2, Spring 2000, 52-72

Levin, Nora. The Holocaust Years: The Nazi Destruction of European Jewry, 1933-1945, Malabar, Florida: Robert E. Krieger Publishing Company, 1990

Levy, Richard H. The Bombing of Auschwitz Revisited: A Critical Analysis. «Holocaust and Genocide Studies» 10 (Winter 1996): 276

Lipstadt, Deborah E. Beyond Belief: The American Press and the Coming of the Holocaust 1933-1945. New York: The Free Press, A Division of MacMillan, 1986

Lipstadt, Deborah E. America and The Holocaust. «Modern Judaism» 10 (October 1990): 283-296

Litvinoff, B. Il roveto ardente. Storia dell’antisemitismo. Milano: Mondadori, 1989

Lookstein, Haskel. Were We Our Brothers’ Keepers? The Public Response of American Jews to the Holocaust, 1938-1944. New York: Hartmore House, 1985

Maga, Timothy P. Holocaust Studies Annual: America and the Holocaust. Volume 1. Jack Fischel and Samford Pinkser, eds. Greenwood, FL: The Penkeville Publishing Company, 1983

Marrus, M.R. L’Olocausto nella storia. Bologna: Il Mulino, 1994

Martellone, A. La questione dell’immigrazione negli Stati Uniti. Bologna: Il Mulino, 1980

Mintz, Alan L. Popular Culture and the Shaping of Holocaust Memory in America. Seattle: University of Washington Press, 2001

Medoff, R. The Deafening Silence: American Jewish Leaders and Holocaust. New York: Shalpolsky, 1987

Michael, R. A Concise History of American Anti-Semitism. Lanham (Maryland): Rowman & Littlefield Publishers, 2005

Morse, Arthur D. While Six Million Died: A Chronicle of American Apathy. Random House, 1967

«Newsweek». Anti-Semitism Continues Home Policy of the Nazis. 15 April 1933, 13

«Newsweek». Germany: Chancellor Hitler’s Anti-Semitic Laws Explosive Item on League Council Agenda. 27 May 1933, 16

«Newsweek». Protests: Nazis Anti-Semite Atrocities Denounced Here. 1° April 1933, 5

Nicaut, C. L’abandon des Juifs avant la Shoah: la France et la Conférence d’Evian. «Les cahiers de la Shoah». Numero1. Éditions Liana Levi: Paris, 1994

Niebuhr, Reinhold. Germany Must Be Told! «The Christian Century» (August 1933): 1014-1015

Novick, Peter. The Holocaust in American Life. New York: Houghton Mifflin, 1999

Penkower, Monty Noam. The Jews Were Expendable: Free World Diplomacy and the Holocaust. Urbana and Chicago: University of Illinois Press, 1963

Ramsay, Debra. American Media and the Memory of World War II. New York: Routledge, 2015

Richardson, John E. Analysing Newspapers: An Approach from Critical Discourse Analysis. New York: Palgrave Macmillan, 2006

Ross, Robert. So It Was True: The American Protestant Press and the Nazi Persecution of Jews. Minneapolis: University of Minnesota Press, 1980

Roth, Mitchel P. Historical Dictionary of War Journalism, Westport: Greenwood Publishing Group, 1997

Salisbury, Harrison. Without Fear or Favor: An Uncompromising Look at the New York Times. New York: Times Books, 1980

Shandler, Jeffrey, The Testimony of Images: The Allied Liberation of Nazi Concentration Camps in American Newsreels, in Why Didn’t the Press Shout? American and International Journalism During the Holocaust, edited by Robert Moses Shapiro, Hoboken: Yeshiva University Press in Association with KTAV Publishing House, Inc, 2003, 109-125

Shapiro, Robert Moses, ed. Why Didn’t the Press Shout? American and International Journalism During the Holocaust. Jersey City, NJ: KTAV Publishing House, 2003

Shirer, W. L. Qui Berlino. 1938-1940. Radiocronache dalla Germania nazista. Milano: Il Saggiatore, 2012

Shirer, W. L. Storia del Terzo Reich. Torino: Einaudi, 2014

Stone, Dan. Ed., The Historiography of the Holocaust. New York: Palgrave Macmillan, 2004

The Stars and Stripes: World War II Front Pages. New York: Hugh Lauter Levin Association, Inc, 1985

«The Christian Century». Hitler’s Policy Rouses Protest: «Cold Pogrom» Against German Jews Threatens World Will Return to Medievalism, Say Ministers. 24 May 1933, 702

Voss, Frederick S. Reporting the War: The Journalistic Coverage of World War II, Washington DC: Smithsonian Institution Press, 1994

Warren, D. Radio Priest: Charles Coughlin, the Father of hate radio. New York: Free Press, 1996

Wyatt, Clarence R, and Martin J Manning. Encyclopedia of Media and Propaganda in Wartime America, Santa Barbara: ABC-CLIO, 2011

Wyman, David S. Paper Walls: America and the Refugee Crisis 1938-1941. Amherst: The University of Massachusetts Press, 1968

Wyman, David S. The Abandonment of the Jews: America and the Holocaust, 1941-1945. New York: Pantheon Books, 1984

Zelizer, Barbie. Remembering to Forget: Holocaust Memory Through the Camera’s Eye. Chicago: University of Chicago Press, 1998.

(maggio 2018)

Tag: Daniela Franceschi, gli Stati Uniti e la Shoah, Quota Laws, Leggi sull’immigrazione, opinione pubblica americana durante la Seconda Guerra Mondiale, grande depressione, Seconda Guerra Mondiale, l’America e l’Olocausto, gli Stati Uniti e l’Olocausto, Franklin Delano Roosevelt, l’America e la Shoah, Stephen Wise, l’America e l’Olocausto, Cordell Hull, Breckinridge Long, Sumner Wells, nativismo, restrizionismo, l’antisemitismo negli Stati Uniti, gli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, la crisi dei rifugiati 1933-1938, il problema dei profughi ebrei negli Stati Uniti, gli Stati Uniti e gli Ebrei, gli Stati Uniti e i rifugiati ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, l’Ebraismo Americano e la Shoah, l’Ebraismo Americano e l’Olocausto, gli Stati Uniti e lo sterminio degli Ebrei, gli Stati Uniti e la persecuzione degli Ebrei, l’Ebraismo Americano e la persecuzione degli Ebrei Europei, la politica estera degli Stati Uniti verso gli Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, la questione dell’immigrazione negli Stati Uniti, gli Stati Uniti e la persecuzione nazista degli Ebrei, l’Ebraismo Americano e la persecuzione nazista degli Ebrei.