Megalodonte: il terrore acquattato negli abissi
È stato il più forte predatore mai vissuto sul nostro pianeta; secondo qualcuno non si è estinto, ma vive ancora, in agguato negli abissi del mare

Una bocca larga un metro e mezzo con un’apertura della mandibola di oltre due metri, tanto da poter inghiottire un uomo senza masticarlo o una piccola auto, denti lunghi anche 17 o persino 20 centimetri capaci di mordere con una forza dieci volte maggiore di quella dell’odierno squalo bianco, un corpo che poteva raggiungere i 18 metri di lunghezza (alcuni parlano di 30 o 40 metri) ed un peso di circa 50-60 tonnellate: questo è l’identikit del megalodonte («Carcharocles megalodon» è il suo nome scientifico), forse il più grande e feroce predatore della storia.

Megalodonte

Illustrazione di Julius Csotonyi che mostra un megalodonte che attacca un platibelodonte,

pubblicata sulla rivista Wired

Nonostante siano stati fatti numerosi studi in proposito, sappiamo ancora pochissimo sulla vita e sulla fine di questo enorme squalo, possibile parente dell’odierno squalo bianco. Di lui non ci restano infatti che denti fossili, qualche vertebra e qualche segno di morso rimasto impresso nei frammenti ossei delle sue prede predilette – foche e cetacei –. Il suo nome, megalodonte, deriva proprio dai denti: in greco, infatti, «megalodon» significa «grande dente».

Nella lunga storia dei pesci, il megalodonte rappresenta un capitolo di grande successo, non solo a causa della sua mole e della sua (supposta) ferocia. Questa specie ha abitato le acque costiere dell’Oceano Indiano, dell’Atlantico e del Pacifico per circa 20 milioni di anni ed ha attraversato due ere, il Miocene e il Pliocene: poche creature possono vantare un record simile.

Il megalodonte era adatto a più ambienti e più climi, tendenzialmente prediligendo quelli caldi e temperati e le zone costiere, in cui era facile incontrare i grossi mammiferi marini di cui si nutriva. Reperti di questo grosso squalo sono però stati rinvenuti anche in zone all’epoca di mare aperto, oppure in giacimenti situati in piccole isole remote dell’Oceano Pacifico e dell’Oceano Indiano, che testimoniano come l’animale vivesse anche in ambienti di mare aperto, pur essendo un predatore specializzato nella caccia a poca profondità. Da alcuni siti di ritrovamento sulle coste orientali degli Stati Uniti d’America e nei Caraibi si è ipotizzato che le femmine di megalodonte partorissero le loro uova in baie protette, con acque particolarmente basse, e solo quando i piccoli raggiungevano dimensioni ragguardevoli si avventuravano nell’oceano.

Poi, circa 2 milioni e mezzo di anni fa, l’ultimo megalodonte morì. Le cause della scomparsa di un predatore che non doveva temere nulla non sono ancora del tutto note. Secondo la teoria più diffusa questo squalo mostruoso si sarebbe estinto a causa del passaggio ad un clima più freddo: era un cacciatore in acque calde e quindi, quando alla fine del Pliocene le temperature precipitarono, cetacei, foche e altri mammiferi marini di cui si cibava migrarono verso mari ancora più freddi, dove lo squalo non poteva seguirli. Per scoprire se il megalodonte era così condizionato dalle temperature, la paleontologa Catalina Pimiento e i suoi colleghi hanno consultato il Paleobiology Database per analizzare la presenza di megalodonte nel tempo relativamente al clima. Hanno così scoperto che appena comparso, circa 23-20 milioni di anni fa, il megalodonte abitava soprattutto le acque dell’emisfero settentrionale; la sua popolazione si diffuse in quasi tutti gli oceani attorno a 15 milioni di anni fa, ma da allora in poi andò costantemente calando. Tutto ciò però accadde indipendentemente dal clima: non vi è correlazione tra le testimonianze fossili di megalodonte e i picchi sia verso l’alto che verso il basso delle temperature, senza parlare del fatto che il megalodonte sembrava perfettamente a suo agio in acque la cui temperatura variava dagli 11 ai 27 gradi, temperature sempre presenti sul pianeta dai suoi tempi ad oggi.

Catalina Pimiento e i suoi colleghi hanno sostenuto un’altra ipotesi, che oggi è la più probabile, proprio in virtù del fatto che sappiamo che il megalodonte ha imboccato la strada che porta all’estinzione alla metà del Miocene. In questo periodo si verificarono due eventi importanti, ricordati anche in precedenza dal paleontologo Dana Ehret: mentre crollava la diversità fra i cetacei, comparirono concorrenti formidabili del megalodonte, grandi squali antenati dello squalo bianco e capodogli che cacciavano e si comportavano come le orche odierne. Questa tendenza continuò per tutto il Pliocene, con un numero sempre inferiore di specie di prede e una sempre maggiore varietà di predatori con cui i giovani megalodonti competevano per il cibo. Insomma, sempre meno cibo a disposizione per un numero maggiore di predatori, e dobbiamo pensare che il megalodonte aveva bisogno di mangiare in media un quinto del suo peso ogni giorno, cioè 8 tonnellate di carne.

Il Miocene era stato il periodo di massima diversificazione dei cetacei di grossa taglia (20 generi di balene contro i 6 attuali), ed aveva conosciuto anche una grande diffusione di altre prede del megalodonte (dugonghi e grossi sirenidi, tartarughe marine, pinnipedi di grossa taglia, pinguini di grossa taglia, altri squali predatori, squali balena, tonni). Alberto Collareta, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra all’Università di Pisa, spiega che gli studi smentiscono «la credenza secondo cui questo animale gigante si nutriva esclusivamente di grandi balene: la “Piscobalaena nana” era un mammifero marino di dimensioni relativamente piccole, che presumibilmente non superava i 4-5 metri di lunghezza»: proprio come lo squalo bianco di oggi, il megalodonte attaccava solo quei cetacei considerevolmente più piccoli di lui. «È possibile ipotizzare che l’estinzione delle balene di dimensioni ridotte […] alla fine del Pliocene (intorno ai 3 milioni di anni fa) abbia privato questo grande predatore delle sue prede predilette [...] favorendone l’estinzione», continua Collareta. «Si può inoltre osservare una relazione fra l’aumento delle dimensioni nella linea evolutiva che porta a Carcharocles megalodon e la diversificazione dei mammiferi marini a livello globale. La scomparsa delle linee evolutive di misticeti di piccole dimensioni (come i cetoteridi di cui fa parte “Piscobalaena nana”), infine, è coincisa con l’imposizione del gigantismo come taglia “standard” per i misticeti e con la scomparsa di Carcharocles megalodon a livello globale». Quindi, a predatori che sottraevano il cibo al megalodonte, si aggiungevano l’estinzione di alcune prede «predilette» e l’apparire di prede comunque troppo grandi per lui. Studi simili contribuiscono in maniera rilevante non solo – spiega Giovanni Bianucci, docente di Paleontologia presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e coordinatore di ricerche in Perù – «a conoscere la biologia del più grande squalo mai esistito, ma anche a chiarire le dinamiche evolutive che hanno portato ai grandi cambiamenti nella fauna marina, spesso legati al rompersi di delicati equilibri tra prede e predatori, fino alla messa in posto della fauna attuale».

Ma non è finita qui. Già, perché alcuni criptozoologi affermano che il megalodonte potrebbe non essersi mai estinto, ed essere tuttora vivo e vegeto. L’idea di una popolazione di questi squali sopravvissuta ha stimolato l’opinione pubblica, confortata anche dalle notizie palesemente false diffuse persino da Discovery Channel, canale tematico, educativo e coinvolgente, che da un po’ di tempo ha cominciato a proporre documentari falsi (i cosiddetti «mockumentary»), per esempio sul megalodonte e le sirene, con filmati alterati al computer, false prove, false testimonianze ed attori che impersonavano improbabili scienziati, solo per creare audience.

Su un piano più strettamente scientifico, i sostenitori della sopravvivenza del megalodonte citano il ritrovamento nel 1872 di due enormi denti di squalo – lunghi poco meno di 13 centimetri – da parte dell’HMS Challenger, per i quali è stata proposta la datazione a 24.000 e a 11.000 anni fa in base alla stima del tempo impiegato dall’accumulazione del manganese sugli stessi. Si tratta di un tempo veramente minimo, un animale marino estintosi 10.000 anni fa potrebbe veramente essere ancora vivo. Tuttavia è possibile che i denti provenissero da un deposito pliocenico e siano per erosione finiti in uno strato più recente e si siano fossilizzati molto tempo prima di incrostarsi di manganese. Altri esperti ritengono che queste stime siano sbagliate, dal momento che si basano su test e metodologie datati e non più affidabili: i depositi di diossido di manganese non sono costanti e, di conseguenza, non possono essere un indicatore affidabile per la datazione dei fossili.

Scartando le notizie false diffuse in perfetta malafede (come quella – veramente assurda – di una femmina di megalodonte che nuota placidamente nell’acquario di Genova, corredata di fotomontaggio copiato da Deviant Art), ci sono stati alcuni avvistamenti interessanti, anche se gli squali compaiono raramente nelle leggende di mare, a differenza delle piovre e di inesistenti serpenti giganti. Ma qualcosa c’è. Per esempio, l’ittiologo David G. Stead ricorda nel suo libro Sharks and Rays of Australian Seas, del 1963, che «nel 1918 i pescatori di aragoste di Port Stephens si rifiutarono per parecchi giorni di recarsi ai loro regolari siti di pesca in vicinanza della Broughton Island. Gli uomini erano andati a lavorare in quelle secche pescose, che sono a grande profondità, quando aveva fatto la propria comparsa un immenso squalo, di dimensioni quasi incredibili, che aveva saccheggiato, un contenitore dopo l’altro, molte aragoste e portato via, come hanno detto gli uomini, “contenitori, funi di attracco e tutto il resto”. […] Gli uomini erano unanimi nel ritenere lo squalo un animale che non avevano visto neppure nei loro peggiori sogni. In compagnia del locale ispettore delle zone di pesca, ho interrogato molti degli uomini e tutti si sono mostrati concordi circa le dimensioni gigantesche della bestia. Ma le lunghezze che le attribuivano erano, nel complesso, assurde. Tuttavia le riporto, come riprova dello stato d’animo suscitato da quell’insolito gigante. […] Uno dei membri dell’equipaggio affermò che lo squalo misurava “almeno 100 metri!”; altri sostennero che era lungo quanto il molo su cui ci trovavamo: circa 35 metri! […] Una delle cose che mi colpì fu che erano tutti concordi nell’attribuire all’enorme pesce uno spettrale colore biancastro». Come si vede, non viene fornita nessuna prova, ma è un semplice racconto di pescatori, che può anche esser stato provocato da un grosso squalo (nei racconti delle persone semplici spesso le dimensioni vengono ingigantite fino all’inverosimile!).

In Italia, nel 1934 due vedette della polizia costiera inseguirono uno squalo lungo circa 20 metri, nei pressi di Ischia; poco tempo dopo, nei pressi della vicina isola di Procida fu avvistato e catturato un innocuo squalo elefante, di ben di 12 metri, probabile responsabile dell’equivoco.

Alcuni avvistamenti relativamente recenti di grandi creature simili a squali, e interpretati inizialmente come avvistamenti di megalodonti, sono normalmente considerati abbagli dovuti all’avvistamento di squali elefante e squali balena, o di altri grandi animali; è improbabile (anche se non impossibile) che alcuni di questi avvistamenti siano dovuti a squali bianchi di dimensioni enormi. Di sicuro, ci accorgeremmo se – come i criptozoologi sostengono – lungo le nostre coste si aggirasse una popolazione di squali lunghi 15 metri!

Per ovviare a questo, i sostenitori della teoria che vede l’enorme predatore ancora vivo hanno effettuato dei veri e propri studi (o pseudo tali) che sostengono che il megalodonte viva in prossimità delle fosse oceaniche, aspettando di banchettare con le balene di passaggio. Ciò è piuttosto bizzarro, in quanto sappiamo che il megalodonte – pur non disdegnando attacchi in mare aperto – prediligeva acque basse e temperate e amava cacciare in prossimità delle coste. Risulta piuttosto improbabile che oggi abbia radicalmente cambiato abitudini e sia confinato a profondità mai raggiunte dall’uomo.

Insomma, ad oggi non c’è nulla di certo, nessuna tesi scientifica dell’esistenza del megalodonte si è rivelata plausibile, e tutte le prove fornite si sono mostrate delle enormi bufale. Viene da chiedersi come sia possibile che, con le nuove tecnologie, quali sonar, eco scandagli, radar, posizionatori satellitari, robot subacquei e via dicendo, nessuna nave riesca ad avvistare questo mostro mangia balene. Sono queste, probabilmente, le stesse persone convinte che la scomparsa dei grandi cetacei, ormai a rischio di estinzione, sia da ricercarsi nel profondo degli abissi, ma oggigiorno l’unico «mostro» in grado di distruggere una specie è l’uomo: le baleniere, la pesca incontrollata e l’inquinamento sono il vero megalodonte per i grandi mammiferi marini.

(agosto 2018)

Tag: Simone Valtorta, megalodonte, criptozoologia, squali preistorici, Catalina Pimiento, Carcharocles megalodon, Dana Ehret, Miocene, Alberto Collareta, Piscobalaena nana, HMS Challenger, Pliocene, Giovanni Bianucci, David G. Stead.