Scelte per la vita
L’obbligo di scegliere, tipico della dimensione esistenziale, comporta un adeguato grado di maturità, non senza talune importanti rinunzie, ma nello stesso tempo, con la disponibilità di nuove strade, e in ogni caso, con un ruolo decisivo della volontà

L’uomo è per definizione una creatura limitata, il cui compito è di valutare, quasi senza soluzione di continuità, una lunga serie di alternanze e di obiettivi. I condizionamenti di tipo fisiologico, economico e sociale sono sotto gli occhi di tutti, imponendo a ciascun essere umano di normale intelligenza la necessità di scegliere, che nessuno è in grado di mettere in discussione. Caso mai, il vero problema consiste nel farlo in maniera corretta, e per quanto possibile, razionale.

È stato detto che ciascun uomo è diverso da tutti gli altri per un grande numero di ragioni, ma fra le più importanti si deve porre in luce il diverso grado di volontà, e prima ancora la vocazione a orientarla in funzione del bene comune. Da questo punto di vista, si può dire che la filosofia medievale, con particolare riguardo a quella di Giovanni Duns Scoto, aveva già proposto un’anticipazione di Benedetto Croce nell’ordine di parecchi secoli, proprio nel momento in cui aveva affermato che gli uomini si differenziano tra di loro, in primo luogo proprio per un’incidenza alternativa dei loro livelli d’impegno volitivo: di qui, l’esigenza di potenziarlo e di valorizzarlo. Non a caso, per il pensatore scozzese appartenente all’Ordine Francescano, la fede non è una rivelazione né tanto meno una forma di conoscenza, ma una manifestazione di volontà fondata sull’evidenza della «teofania» e nello stesso tempo, sul carattere inconfutabile della dimostrazione.

Quando Albert Schweitzer decise di abbandonare l’Europa e di trasferirsi in Africa Equatoriale dove avrebbe fondato, tra problemi di ogni genere, l’ospedale di Lambarenè, fece una scelta di altissimo valore morale, che coincideva col desiderio di soddisfare pienamente le sue esigenze umanitarie, nell’ambito di un apporto volontaristico di straordinario valore morale, perché finalizzato al perseguimento del bene comune. A questo proposito, giova rammentare che in parecchi casi la volontà non opera in funzione del bene, ma del suo opposto: cosa che pone in termini icastici il problema di un orientamento della volontà in chiave etica.

Quello di Schweitzer, tra l’altro, è un caso tipico di rinunzia: nella fattispecie, agli agi e alle comodità della vita universitaria e di una professione di successo. Nello stesso tempo, è un caso tipico di nuove strade aperte alla cooperazione. In proposito, giova ricordare che sin dal 2002 i Paesi sviluppati avevano deciso, nella conferenza di Monterrey, di destinare lo 0,7% del proprio reddito nazionale al finanziamento delle iniziative di sviluppo nel terzo mondo: ebbene, quella delibera è rimasta in buona misura sulla carta, ma ciò non significa che non sia sempre valida, come quando si vogliano onorare la lezione di Schweitzer e la sua permanente attualità.

In ogni caso, le scelte di vita sono espressione di carattere, e della capacità di subordinare le decisioni all’esercizio della volontà. Tante buone intenzioni, in effetti, rimangono tali, perché manca il passaggio dalla teoria alla pratica, anche quando le condizioni oggettive lo consentirebbero, in assenza di ostacoli esterni.

Qualche altro esempio? In Italia, tutti conoscono e apprezzano la storia eroica di Salvo D’Acquisto, che non esitò a immolarsi, durante la Seconda Guerra Mondiale, per salvare da sicura morte un gruppo di ostaggi che stavano per essere sacrificati all’agghiacciante legge della rappresaglia. Ebbene, Salvo D’Acquisto volle rinunciare al massimo bene dell’uomo, che è la sua stessa esistenza, ma quella che si aprì davanti a lui fu la strada della santità! L’eroismo non è per tutti: eppure, in quella stagione plumbea non mancarono casi analoghi, come quelli di Padre Massimiliano Kolbe, già salito alla gloria degli altari, o del Commissario di Polizia Giovanni Palatucci – ultimo Questore di Fiume italiana – di cui è nota la causa di beatificazione per avere salvato da morte sicura un numero assai alto di cittadini inermi, in prevalenza di fede ebraica.

Gli esempi si potrebbero moltiplicare in progressione geometrica, ma nella vita di tutti i giorni sembra difficile potersi elevare a simili livelli, sebbene esistano eroismi della quotidianità che nessuno conosce, e che l’aggravamento dei problemi economici ha reso più frequenti nelle famiglie e nelle comunità, in Italia come altrove. La popolazione in condizioni ufficiali di povertà cresce quasi dovunque nel mondo, talvolta con tassi molto alti, tanto da ridurre sensibilmente le attese di vita: ne scaturiscono rinunzie tanto più dolorose perché obbligate, ma nello stesso tempo ne derivano scelte – potenziali e reali – in favore del buono e del giusto, che devono misurarsi con la capacità di governare all’insegna dei principi morali, ma nello stesso tempo, con la volontà maieutica di singole persone, perché, come fu detto da tempi lontani ma contraddistinti da riflessioni etiche di perenne valore, la goccia scava la roccia.

Il verbo consumista, oggi sempre più di moda, fa presumere che la rinunzia sia sinonimo di frustrazione, e quindi di dolore, ma senza pensare che fa parte ineliminabile della storia umana, ed è conseguenza diretta della «finitudine» cara al pensiero di Nicola Cusano, in cui opera da sempre. La gioia autentica non consiste nel sogno impossibile di avere tutto, o comunque di possedere sempre di più: secondo il grande insegnamento di Erich Fromm, sta nella capacità di essere piuttosto che di avere, di conoscere pienamente se stessi, e di operare nella società umana alla luce di tale matura e responsabile consapevolezza.

Per quanto concerne Cusano, così chiamato con riferimento al luogo nativo di Cusa, presso l’antica città di Treviri, si deve aggiungere che nel suo pensiero, in forte anticipazione di concezioni più vicine a quelle moderne, il problema della scelta diventa subordinato all’idea di «docta ignorantia» indotta dalla convinzione, di chiara impronta rinascimentale, secondo cui esiste una primigenia unità, peraltro inconcepibile da mente umana, fra Dio e l’universo intero, nell’ambito di una totalità inscindibile, compendiata nel «nulla proportio» dell’infinito e del finito. La conoscenza dell’infinito medesimo resta impossibile per l’essere umano, se non attraverso l’intuizione illuminata che resta un atto di fede. Nondimeno, la conoscenza scientifica diventa perseguibile nell’ambito di una pur complessa sintesi tra la molteplicità del reale e l’unità ideale dell’essere, dove si attua una vicinanza fra Dio e l’uomo che costituisce un fondamento prioritario dell’umanesimo, pur senza porre in dubbio, né tanto meno in discussione, la sua subordinazione alla trascendenza. Da questo punto di vista, la scelta è sostanzialmente obbligata, cosa che sembra quasi paradossale in una speculazione anticipatrice del pensiero rinascimentale, ma che diventa espressione di un intimo dissidio mutuato proprio dall’intuizione sovrana dell’infinito.

Al contrario, l’umanesimo di Fromm non può prescindere dalle suggestioni dell’illuminismo e del positivismo, nel frattempo intervenute con un nuovo allargamento delle divisioni fra Medio Evo e modernità. Questo convincimento si accentra sulla dignità prioritaria dell’uomo come soggetto pensante, e come tale, consapevole della naturale prevalenza dell’essere nei confronti di un avere necessariamente transeunte, e quindi, alla resa dei conti, di una rinnovata prevalenza dei valori morali che diventa definitiva anche a prescindere dalla concezione di Nicola Cusano.

Non a caso, un filosofo italiano quasi contemporaneo di quest’ultimo, Pietro Pomponazzi, avrebbe sostenuto che il bene si può fare solo «per il bene» stesso, a prescindere dalla speranza di premi o riconoscimenti futuri, e proprio per questo, particolarmente degno di essere perseguito nell’ambito di un ethos indipendente, e senza dubbio, di valore assoluto. Anche in questo senso, la scelta diventa un corollario dell’azione ma presume una matura consapevolezza critica della libertà umana, che si erge a vero e proprio «principium individuationis» di una dimensione che trascende quella delle altre creature, pur nel dovuto riconoscimento dei valori trascendenti. Conviene ricordare che, secondo Pomponazzi, l’immortalità dell’anima deve essere vista nell’idoneità di passare dal particolare all’universale attraverso il pensiero, e quale interfaccia di una moralità che prescinde integralmente dall’utile e trova in se stessa la motivazione prioritaria del suo essere, e della sua antitesi nei confronti del male e dei vizi che ne sono imprescindibile conseguenza.

Aristotele, qualche secolo prima di Gesù Cristo, aveva già sostenuto che la scienza è il solo bagaglio umano che permette di conoscere l’universalità del reale, e ne aveva tratto il convincimento secondo cui l’impegno etico dell’uomo supportato dalla ragione è di operare per il conseguimento del bene tramite la virtù, sia nella sua espressione dell’anima intellettiva, attraverso la saggezza, l’intelligenza e l’arte, sia nella sua capacità di governare i comportamenti specifici, tramite il coraggio, la temperanza e la giustizia, per opera di un’organizzazione statuale, e quindi politica, idonea a perseguire l’educazione morale dei cittadini e il loro stesso benessere, se non anche la loro «felicità» (con una scelta proposta come alternativa non soltanto ragionevole e consigliabile, ma pressoché obbligata, pur senza prescindere dalla libertà).

Da questo rapido «excursus» su alcuni momenti importanti del pensiero umano e della sua evoluzione attraverso la storia della civiltà e della filosofia, è facile rilevare che, sia pure con diverse sfumature e con varie interpretazioni delle rispettive fasi storiche, la questione della scelta, e quindi delle rinunzie, è sempre stata motivo di attenzioni e di pensieri, intendendo per tale, ben s’intende, quella tra valori autentici e le loro negazioni. In ogni caso, la scelta è sempre d’obbligo, se non si vuol fare la fine dell’asino di Buridano, che trovandosi a distanza perfettamente uguale da due opposte opportunità di cibo, non seppe scegliere, rimase immobile, e finì per morire di fame: ipotesi che costituisce un assurdo, ma sempre utile a far comprendere che nella vita, anche senza scomodare la filosofia di Kant, quello di scegliere, e di farlo per il meglio, è un perenne imperativo categorico.

(luglio 2023)

Tag: Carlo Cesare Montani, scelte per la vita, Giovanni Duns Scoto, Benedetto Croce, Albert Schweitzer, Salvo D’Acquisto, Massimiliano Kolbe, Giovanni Palatucci, Nicola Cusano, Erich Fromm, Pietro Pomponazzi, Aristotele, Gesù Cristo, Giovanni Buridano, Immanuel Kant, Europa, Africa, Lambarené, Monterrey, Fiume italiana, Cusa, Treviri.