Francesco Sforza
Un uomo ambizioso, astuto e spregiudicato, un grande condottiero ma anche un Signore saggio e magnanimo

È l’anno 1431 e Filippo Maria Visconti, Duca di Milano, si trova in guerra con Venezia. Non è una novità. I Veneziani hanno al loro servizio il conte di Carmagnola, il grande condottiero che l’11 ottobre 1427, nella battaglia di Maclodio, ha sconfitto duramente le truppe del Duca. Filippo Maria deve rivolgersi ad un altro non meno valente condottiero, se vuole sperare in una vittoria. E il condottiero da mettere di fronte al Carmagnola è presto trovato: il giovane Francesco, figlio del grandissimo Muzio Attendolo e della sua compagna Lucia di Torsciano, detto «lo Sforza». È alto, possente, bello e coraggioso, imbattibile nel maneggiare la spada e nel tirare d’arco, il miglior corridore, saltatore e lottatore fra i suoi soldati; dorme sotto la tenda con loro, mangia alla loro mensa, va a capo scoperto d’estate e d’inverno, è il primo a cacciarsi nelle mischie e l’ultimo ad uscirne; è uno stratega nato, abituato a strepitose vittorie più con la tattica che con la superiorità del numero e delle armi, e talvolta basta la sua sola presenza per volgere in fuga il nemico. Insomma, incarna l’ideale del soldato del Rinascimento. Francesco Sforza non delude le aspettative riposte in lui: attacca battaglia contro le truppe del Carmagnola presso Soncino, nel Cremonese, e coglie una facile vittoria. Il Duca di Milano è entusiasta del successo, e al valoroso condottiero promette in sposa la sua unica figlia (illegittima) Bianca Maria. Ma chi è Francesco Sforza?

Francesco Sforza

Bonifacio Bembo, Ritratto di Francesco Sforza, Pinacoteca di Brera, Milano (Italia)

Nato a San Miniato nel 1401, viene allevato alla Corte di Ferrara, poi passa a Napoli dove opera il padre. Nel 1417 sposa Polissena Ruffo, che gli porta in dote la contea di Altomonte. Fino al 1426 rimane al servizio della Regina di Napoli Giovanna II, rivelandosi un ottimo condottiero ed ottenendo, per i suoi servigi, la carica di Viceré della Calabria. È il massimo esponente di quella «scuola sforzesca» che propugna una tattica bellica ponderata e manovriera, assai diversa da quella «braccesca» che ha il suo modello in Braccio da Montone e mira soprattutto allo scontro diretto.

Appena trentenne, dunque, Francesco Sforza non solo è reputato uno dei migliori condottieri dell’epoca, ma viene invitato a far parte della potente famiglia dei Visconti. Il Duca di Milano pensa di avvalersi dello Sforza per realizzare i suoi piani di conquista: nel 1434 lo invia nello Stato Pontificio con l’incarico di conquistargli alcuni territori. Ma Francesco bada soprattutto ai propri interessi e, secondo il costume dell’epoca, non esita a cambiar bandiera se può ricavarne utili maggiori. Quando il Papa Eugenio IV gli promette la Marca d’Ancona e il titolo di gonfaloniere della Chiesa in Umbria, a patto però che rompa ogni rapporto col Duca, accetta senza indugi. Tre anni dopo, quando Genova, Firenze e Venezia attaccano il Ducato di Milano, si pone al servizio di queste città e muove contro Filippo Maria Visconti, che ha affidato le sue truppe al condottiero umbro Niccolò Piccinino. Trova anche il tempo di schierarsi al fianco di Renato d’Angiò contro Alfonso d’Aragona, penetrando in Abruzzo e allargando i suoi domini.

Dopo quattro anni di guerra, chi ha subìto gravi perdite è il Duca di Milano. Per avere lo Sforza di nuovo al suo fianco, non v’è che un mezzo: concludere al più presto le nozze tra Bianca Maria e l’invincibile condottiero (la prima moglie dello Sforza, Polissena Ruffo, è già morta). È ciò che Francesco Sforza attende da dieci anni, tanto più che Bianca Maria Visconti gli porta in dote le città di Cremona e Pontremoli (Massa Carrara). Il 1441 vede la pace di Cremona e il matrimonio di Francesco con Bianca Maria.

Bianca Maria Visconti

Bonifacio Bembo, Ritratto di Bianca Maria Visconti

Ma i problemi non sono finiti: in cuor suo Filippo Maria odia questo plebeo, che è riuscito ad entrare nella sua famiglia, e pur di vederlo cadere in rovina, è disposto a scatenare una nuova guerra. È l’anno 1446, e Filippo Maria Visconti muove contro lo Sforza per togliergli Cremona e Pontremoli. Tutto preso dal desiderio di disfarsi del genero, il Duca ha purtroppo dimenticato una cosa importante, cioè che i suoi nemici avrebbero approfittato dell’occasione per schierarsi a fianco del grande condottiero. Quando s’accorge dell’errore è troppo tardi: Veneziani e Fiorentini marciano già alla volta di Milano. I Veneziani giungono fin sotto le mura della città: Filippo Maria fugge e si ritira nel suo castello di Abbiategrasso. Il 13 agosto 1447, quando già pensa di prendersi una rivincita, lo coglie la morte.

Scomparso il loro Signore, i Milanesi pensano che sia giunto il momento di restaurare l’antico Comune: troppo caro è al cuore di ciascun cittadino il ricordo dell’indipendenza e della libertà di un tempo. Ed ecco che al grido di: «Viva Sant’Ambrogio! Viva la libertà!», il popolo milanese proclama l’Aurea Repubblica Ambrosiana, ponendola sotto la protezione del Santo. Ma l’epoca dei liberi Comuni è tramontata: Tortona, Lodi, Piacenza, cioè le maggiori città del Ducato, si rifiutano di riconoscere il governo di Milano. Il Doge Veneziano Francesco Foscari, che mira ad unire alla sua Repubblica l’ex Ducato di Milano, promuove una Lega ed avanza occupando Piacenza e Lodi. Milano si trova isolata e in estremo pericolo; dopo lunghe ed accanite discussioni, i cittadini affidano proprio a Francesco Sforza la loro difesa.

Non appena la Repubblica Ambrosiana chiede il suo aiuto, lo Sforza abbandona Veneziani e Fiorentini e s’affretta a porsi al suo servizio. Il condottiero ha in mente un piano ben preciso: rovesciare la Repubblica e impossessarsi dell’intero Ducato, dopo che – su pressione del Papa e del Re d’Aragona – ha rinunciato ai suoi possessi in Italia Centrale. In fulminee battaglie, Francesco sconfigge i Veneziani a Cassano, Casalmaggiore e Caravaggio, riconquista Piacenza e Lodi. Milano è salva, ma ora è in pericolo la Repubblica: lo Sforza si è accordato in segreto coi Veneziani cedendo loro il Bresciano, la Ghiara d’Adda e Crema, e ottenendo in cambio il riconoscimento dei suoi titoli alla successione del suocero alla guida del Ducato. L’unica soluzione per salvare la Repubblica Ambrosiana sarebbe disfarsi di lui, ed infatti i Milanesi lo sostituiscono col condottiero Carlo Gonzaga, fratello del Marchese di Mantova. Ma lo Sforza, intuita la manovra, torna al servizio di Venezia, si allea col Duca Lodovico di Savoia, si unisce ad altri condottieri e passa immediatamente all’attacco: occupate Lodi, Pizzighettone e Monza, pone l’assedio alla stessa Milano. Abbandonata da Carlo Gonzaga, che preferisce schierarsi dalla parte dello Sforza, la Repubblica Ambrosiana ha ormai i giorni contati. Mentre il cerchio dell’assedio si va man mano stringendo, i Milanesi tengono una grande adunata nel Broletto. «La Repubblica è caduta!» prende a dire uno dei Capitani del popolo. «Dobbiamo di nuovo sottometterci a un Signore». C’è allora chi fa il nome del Duca di Savoia, chi del Re di Napoli e c’è persino chi vorrebbe come Signore il Re di Francia.

Se Milano deve proprio sottomettersi all’autorità di un Signore, bisogna sceglierne uno che sappia essere valente in guerra e saggio governatore in tempo di pace. Qualcuno pronuncia un nome… È un attimo, da tutto il popolo si sente urlare a gran voce: «Francesco Sforza! Francesco Sforza sia Duca!». L’invincibile condottiero è nella mente di tutti.

Francesco Sforza fa quindi trionfalmente il suo ingresso a Milano: entrato da Porta Nuova, percorre le vie della città tra i cittadini festanti. Un mese dopo, in Duomo, assume i pieni poteri; tutti i rappresentanti della città gli prestano giuramento e gli consegnano i simboli della Signoria: la spada, il sigillo, le chiavi e il vessillo. È il 26 marzo 1450: a Milano ha inizio la Signoria degli Sforza.

Subito, il nuovo Signore deve difendersi contro l’ostilità di Venezia, Napoli e Savoia collegati. Determinante è il rovesciamento di alleanze da parte di Cosimo de’ Medici, che gli offre il proprio appoggio. La lotta rimane incerta fino alla Pace di Lodi del 1454 (suggerita dalla caduta di Costantinopoli e dall’avanzata turca in Oriente) con la quale lo Sforza è riconosciuto Duca di Milano dagli altri Stati Italiani.

La Pace di Lodi, stipulata fra Stati situati «infra terminos italicos» e «per la pace et quiete de l’Italia et per la defensione della santa fede cristiana», rivela l’intento dei contraenti di considerare l’Italia come entità politica, ma dimostra anche l’impossibilità da parte di ogni singolo Stato di modificare l’ordine costituito senza provocare danni irreparabili per tutti: sono così assicurati quarant’anni di pace alla Penisola, condizione senz’altro favorevole per la fioritura del Rinascimento. Il sistema, però, aumenta il frazionamento politico poiché, più che sulla solidarietà, si fonda sulla diffidenza delle potenze, impedendo il formarsi non solo di uno Stato Nazionale unificato, ma anche di un organismo di tipo federativo. La base dello «statu quo» viene fissata nella Lega Italica, costituita nello stesso 1454 fra le grandi potenze di Milano, Venezia, Firenze, Roma papale, Napoli e fondata sul principio dell’«equilibrio», cioè l’impegno a rispettare i confini esistenti, attraverso un sistema di alleanze che impedisca ogni tentativo di predominio all’interno ed escluda ogni velleità, da parte dei Sovrani stranieri, di intervenire nelle cose d’Italia. La Lega non congela del tutto il quadro politico e non crea un equilibrio solido: non funziona quando Alfonso d’Aragona attacca Genova, né quando lo stesso Alfonso e il Papa Pio II disfanno la Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesta, né quando Ferrante a Napoli deve affrontare l’attacco di Giovanni d’Angiò e l’opposizione dei baroni, né quando Pio II bandisce la crociata nella dieta di Mantova, né quando scoppia il conflitto fra Firenze e Sisto IV, né quando i Turchi sbarcano a Otranto, né quando Venezia e il Papa attaccano Ferrara. È indubbio che, comunque, la Lega Italica per un quarantennio riesce ad evitare qualsiasi urto frontale tra le grandi potenze e ad impedire tentativi di espansione angioini e veneziani; la «lunga pace» italiana è garantita dall’abile diplomazia di Lorenzo il Magnifico.

Ma torniamo a Francesco Sforza: egli, una volta a capo della città, non delude i Milanesi; dopo essere stato un grande condottiero, si dimostra un Signore saggio e magnanimo. Sotto di lui, Milano comincia a divenire una grande capitale, una splendida metropoli. Tra le molte e importanti opere pubbliche da lui volute, rimane ancora oggi la Ca’ Granda (= la Casa Grande), l’Ospedale Maggiore di Via Festa del Perdono. La costruzione di questo edificio è fatta iniziare nell’anno 1456 dall’architetto toscano Antonio Averulino, detto il Filarete.

Francesco Sforza comincia anche i lavori per i numerosi canali della città, e nel 1460 dà l’avvio alla costruzione del Canale della Martesana: esso deriva dall’Adda, a Cassano e raggiunge Milano dopo un percorso di 38,7 chilometri.

Nel periodo dell’Aurea Repubblica Ambrosiana, i Milanesi hanno distrutto la rocca viscontea, considerandola un brutto ricordo della dominazione dei Visconti. Francesco Sforza la fa ricostruire: al nuovo castello, che viene detto sforzesco, l’architetto Filarete aggiunge una splendida torre, che verrà distrutta nel 1522 da un’esplosione e sarà ricostruita nel 1904 dall’architetto milanese Luca Beltrami.

Francesco Sforza ospita alla sua Corte i migliori pittori e architetti dell’epoca. A questi ultimi, dà l’incarico di proseguire le costruzioni del Duomo di Milano e della Certosa di Pavia. Invita a Milano l’umanista Filelfo, protegge le lettere e le arti, stimola le scienze, finanzia una scuola di pittura e chiama a dirigerla Vincenzo Foppa da Brescia. La sua politica dissangua l’erario, ma i prestiti dei banchieri fiorentini salvano il Ducato dalla bancarotta.

Inoltre favorisce l’immigrazione, proibisce l’esodo della manodopera locale, premia i cittadini più prolifici, bandisce campagne demografiche contribuendovi con otto figli legittimi ed una ventina illegittimi (la moglie si vendicherà dei continui tradimenti uccidendogli l’amante).

Con l’avanzare dell’età si ridestano i reumatismi, che l’hanno afflitto fin dall’infanzia. Ogni estate passa le acque in quel di Bormio, adotta diete rigorose, si sottopone a salassi. Non cessa comunque di perseguire una politica di prestigio e di rafforzamento del suo potere, pacificandosi con Alfonso d’Aragona e alleandosi con il Re di Francia: questo gli permette di occupare pacificamente Genova, Savona e la Corsica nel 1464. Muore nel 1466 d’idropisia, lasciandosi dietro una montagna di debiti, ma anche un coro di rimpianti.

(agosto 2014)

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