Indiani del Nordamerica
Riflessioni sul genocidio degli Amerindi e sull’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo

La teoria del selvaggio «sporco brutto e cattivo» ha fatto registrare qualche imprevedibile colpo di coda in occasione di talune reviviscenze iconoclastiche manifestatesi recentemente negli Stati Uniti, in Canada e in altri Stati Americani, fino al punto di coinvolgere le statue in memoria di Cristoforo Colombo, di cui qualcuno è giunto a proporre ed eseguire la distruzione, in quanto il grande navigatore italiano sarebbe «responsabile» delle successive campagne contro i popoli autoctoni, sebbene a oltre mezzo millennio dal fatidico 1492 quei monumenti appartengano alla storia e non certo alla propaganda elettorale di taluni disinvolti protagonisti della vita pubblica americana.

Gli Indiani superstiti hanno finito per farne le spese involontarie, a fronte dell’accusa oggettivamente opinabile – e di tutt’altra estrazione etnica e culturale – secondo cui si vorrebbe ravvisare nel grande navigatore genovese la matrice della loro tragedia, le cui origini sono state ben diverse, e ormai ben documentate dalla storiografia.

Il furore anti-colombiano ha prodotto un risultato di particolare visibilità, e di risonanza mondiale, con la rimozione della statua di Colombo dal centro di Los Angeles (California) avvenuta alla fine del 2018 – a mezzo secolo dalla sua installazione – per iniziativa del consigliere comunale Mitch O’ Farrell. Peraltro, anche a New York il sindaco Bill De Blasio si è fatto promotore di una ulteriore analoga iniziativa, per non dire di Houston (Texas), dove la statua è stata imbrattata di vernice rossa, e di Detroit (Michigan), come di altre città statunitensi, dove non sono mancate analoghe ipotesi di rimozione, precedute dalla cancellazione del «Columbus Day». Insomma, il furore va crescendo, sulle ali di una «moda» con motivazioni davvero labili.

Eppure, una forte maggioranza «silenziosa» parrebbe contraria a queste manifestazioni inconsulte – che hanno assunto inevitabili connotazioni anti-italiane tutt’altro che nuove nella storia americana – come è stato dimostrato da Enza Antenos, docente di origine europea della Monclair State University, quando ha posto in evidenza i risultati di una sua indagine da cui è emerso che circa quattro quinti degli studenti sono favorevoli alla conservazione delle statue (comprese quelle di altri grandi navigatori come Vespucci e Magellano non meno «colpevoli» di Colombo per la scoperta dell’America e delle nuove vie di comunicazione marittima mondiale, e quindi per nuovi impulsi alla cooperazione civile e mercantile).

Come spesso accade in circostanze del genere, la protesta si è rapidamente estesa, raggiungendo anche l’Argentina dove la statua colombiana di Buenos Aires è stata oggetto di analoghe prese di posizione, motivate dalla medesima fallace ipotesi secondo cui la scoperta dell’America, dall’Alaska a Capo Horn, sarebbe stata «colpevole» dello sterminio amerindio a opera dei colonizzatori europei: cosa a cui il Governo Italiano, rispondendo a tutti tramite la Farnesina, ha potuto formalmente eccepire che l’opera di Colombo, lungi da ogni polemica pretestuosa, appartiene al «patrimonio dell’umanità». Pur non dovendosi mai scordare, per la verità e per la giustizia nei confronti delle vittime, che a fronte di quello sterminio, secondo valutazioni della storiografia contemporanea, scomparvero almeno 55 milioni di Amerindi (ma per altre fonti la cifra potrebbe essere quasi doppia).

Oggi sarebbe necessario guardarsi con più matura consapevolezza critica dalla strumentalizzazione di una grande tragedia storica come quella degli Indiani che riemerge regolarmente quale strumento di lotta politica, e non certo quale spunto di riflessione sulle attuali condizioni dei popoli autoctoni, ormai ridotti a numeri scarsamente influenti nella diuturna vicenda degli Stati Americani, ma protagonisti loro malgrado di un richiamo etico alle «alte non scritte e inconcusse leggi» di memoria precristiana che i colonizzatori, salvo commendevoli eccezioni, si guardarono bene dall’onorare.

In questo senso, la semplice ipotesi di abbattere qualche statua di Colombo, che fu Uomo del Rinascimento animato da uno spirito d’avventura coniugato felicemente con l’intuizione di nuove ipotesi di sviluppo civile e mercantile rese possibili dalla navigazione oltre le Colonne d’Ercole, appare decisamente surreale, per non dire colpevole come quando si è passati dalla teoria alla prassi della distruzione: a più forte ragione, se fatta propria dalla politica, come se le responsabilità storiche nei confronti degli Indiani potessero essere cancellate dalla scomparsa di qualche memoria bronzea o lapidea, senza curarsi affatto di coloro che, pur da cittadini dei grandi Paesi Nordamericani, continuano a languire nelle riserve nonostante la loro dignità giuridica e morale, che per quanto riguarda gli Stati Uniti venne codificata nel riconoscimento del diritto di voto, nemmeno un secolo fa (1924).

La questione delle statue di Colombo dimostra come l’avvitamento della dialettica politica in questioni strumentali, falsamente simboliche, e di nessun effettivo interesse pubblico, sia un fenomeno che non appartiene soltanto alla vecchia Europa, avendo trovato terreno fertile anche oltre oceano, e avendo sollevato ulteriori punti di domanda sul livello di maturità politica che presiede all’avvento del terzo millennio.

La bibliografia sulla questione amerindia e sul vero e proprio genocidio che venne perpetrato sia nell’America Settentrionale che in quella Centrale e Meridionale, è quasi sterminata e ormai generalmente concorde circa l’assunto di fondo, molto pochi furono gli indigeni nelle regioni settentrionali deliberatamente uccisi mentre la restrizione dei territori di caccia fu notevole. Certo: senza la colonizzazione e lo straordinario sviluppo dovuto allo «spirito della frontiera» la crescita economica del mondo sarebbe stata probabilmente più lenta, ma ciò non significa che si possano legittimare le persecuzioni a danno degli Indiani liberandosi la coscienza con il velleitario abbattimento di qualche statua.

A corollario, l’occasione è utile per un ricordo non effimero della viva religiosità precristiana di quei popoli infelici, fondata sulla fede nel Grande Spirito creatore e governatore del mondo, e in taluni casi con il supporto della pietra, il materiale più antico, e anche per questo di alto valore simbolico in tutte le culture. Motivo di più per escludere ogni credibilità delle iniziative iconoclastiche di cui si è detto.

In proposito giova rammentare che presso diverse tribù autoctone gli sciamani, nella loro qualità di intermediari con la trascendenza e di interpreti del mondo ultraterreno, e non di meri stregoni, utilizzavano un bastone di pietra dura rivestito di pelle a cui venivano attribuiti poteri magici, mentre altri popoli indigeni come i Sioux conferivano grande importanza al sogno delle pietre sacre, diffuse nel mondo precolombiano non già alla stregua di un totem da idolatrare quanto di un memento circa la necessità di onorare i valori della tradizione, della natura, e quindi della fede, in esse simboleggiati.

C’è di più. Soprattutto nella prima fase della colonizzazione gli Indiani dell’America, sconcertati dalla diversità e dalla potenza militare dell’uomo bianco, lo considerarono alla stregua di un dio, che peraltro ritenevano infelice in quanto era stato costretto a varcare l’oceano dalle condizioni disagiate della sua terra d’origine, dove in caso contrario avrebbe potuto vivere tranquillamente e pacificamente: di qui, anche nel continente nuovo, il mito del «buon selvaggio» che alla resa dei conti non si rivelava un primitivo privo di cultura, ma poteva impartire qualche «lezione» regolarmente ignorata (non già da Colombo, i cui primi rapporti con gli Amerindi sin dagli sbarchi ad Haiti e Cuba furono addirittura cordiali).

Eppure, le delusioni più cocenti si susseguirono senza posa per concludersi nella ghettizzazione delle cosiddette riserve, e i pochi bianchi che riuscirono a promuovere una convivenza difficile ma effettivamente costruttiva con parecchie tribù furono soprattutto i missionari, forti del nuovo Verbo cristiano: il loro dialogo fu reso possibile anche dalla paziente disponibilità indigena nei confronti di un approccio basato non più sulla conquista o sull’esproprio ma sulla comprensione e sulla collaborazione. Furono i missionari, del resto, a promuovere il progressivo ripensamento delle popolazioni autoctone circa la prassi umanamente aberrante dei sacrifici umani, e l’avvento di una nuova concezione etica della vita.

La religiosità degli Indiani, in effetti, traeva spunto dall’identificazione del Grande Spirito coi valori di un’esistenza umana in continua adesione alla natura e alla necessità di rispettarla per garantire la sopravvivenza delle future generazioni, analogamente a quanto avevano già fatto gli avi. Da questo punto di vista, il messaggio è sempre attuale: i valori spirituali hanno bisogno di un contesto immanente, e di riferimenti simbolici come quelli della pietra – ivi compresa la «sostanza» dannunziana delle statue e della loro eternità – idonei a suffragare una meditazione in cui convergano la riflessione e la poesia, come quando la spiritualità indiana aveva messo in luce che «l’uomo bianco non sarà mai solo» perché dopo la morte degli ultimi indigeni dovrà convivere con i loro spiriti e con la memoria del genocidio.

(gennaio 2020)

Tag: Carlo Cesare Montani, Indiani del Nordamerica, Cristoforo Colombo, Mitch O’ Farrell, Bill De Blasio, Enza Antenos, Amerigo Vespucci, Fernando Magellano.