Le sofferenze di Torquato Tasso
Ulteriori approfondimenti

Come abbiamo già visto nell’articolo precedente[1], Tasso soffriva probabilmente di un «grappolo» di motivi che lo avrebbero portato alle crisi mentali iniziate intorno al 1575, al termine della stesura del suo poema. Probabilmente era innanzitutto esaurito, come rivelano accenni del suo epistolario, quindi sotto forte stress; inoltre, soffriva di una nevrosi ossessiva o comunque di un problema ossessivo-compulsivo, aggravatosi in questa situazione di fragilità; a questo si possono aggiungere tendenze all’ipervigilanza, cioè alla paura continua per minacce, vere o presunte, simile, ma non identica alla paranoia. Tutto questo rinvia a problemi di carattere post-traumatico, cioè a fragilità psicologiche di cui il poeta avrebbe sofferto soprattutto per una serie di traumi subiti nel corso della sua vita e aggravatisi in quel delicato momento. Lui, del resto, interpretava le proprie disgrazie – così come i suoi contemporanei – come una manifestazione di «malinconia», l’affezione tipica degli intellettuali. Ma vediamo ora di giungere a una diagnosi specifica. Nel seguito tratterò:

– La possibilità di una sindrome maniaco-depressiva o di problemi connessi all’umore.

– La dissociazione post-traumatica.

Ma prima una premessa. Come è noto, soprattutto durante il Romanticismo è nata la leggenda del Tasso vittima innocente (e tutt’altro che folle) degli iniqui provvedimenti punitivi degli Estensi, soprattutto dell’ultimo Duca, Alfonso II, il quale avrebbe preferito rinchiudere il Tasso per motivi di «ragion di Stato»[2]. In realtà Tasso mostrava segni reali di squilibrio mentale e poteva essere pericoloso. Per esempio, abbiamo notizia che tra il settembre e l’ottobre 1583 il poeta fu visitato al Sant’Anna da due gentiluomini in corrispondenza con lui, Torquato Rangoni e Livio Rovellio; ma durante la visita, in un accesso di diffidenza, egli riuscì a impadronirsi della spada di uno dei due (incomprensibilmente portata dentro il Sant’Anna!) con intenzioni tutt’altro che pacifiche; con molta fatica i visitatori e gli inservienti dell’ospedale riuscirono a sottrargliela. Come vedremo nel seguito, egli giunse addirittura a minacciare un servo col coltello e fu proprio questo episodio a determinare gli Estensi a internarlo. Tra l’altro anche le caratteristiche della sua prigionia sono state largamente mitizzate: per esempio, i registri ducali mostrano come il malato venisse sovvenuto regolarmente dalla tavola ducale; oppure, la Duchessa Lucrezia aveva ottenuto dal Duca che il poeta venisse accompagnato fuori dal Sant’Anna 2-3 volte la settimana, ma il compito era spesso tutt’altro che grato e i volonterosi che si sobbarcavano la «corvée» potevano avere delle pessime sorprese[3]. Sfido qualsiasi membro delle istituzioni attuali a mantenere libero un personaggio che mostri delle turbe del genere, per quanti meriti possa avere.


Maniaco-depressivo?

Che Tasso fosse un ansioso lo si può verificare a ogni pie’ sospinto nel suo epistolario: specie nel periodo della sua malattia, ma anche prima, quando era ritenuto «sano», le sue epistole sono piene di richieste ansiose ai suoi destinatari quanto al fatto che avessero ricevuto lettere o altri messaggi. Per esempio, nell’epistola 20, inviata a Scipione Gonzaga da Padova il 18 marzo 1575[4] (quindi in un periodo in cui l’autore era già stressato dalla fase di chiusura del poema), egli si preoccupa oltremodo perché il Gonzaga non gli aveva ancora comunicato di avere ricevuto per la revisione i primi 5 canti; oppure, l’epistola 952 ad Antonio Costantini, Bologna, inviata il 13 gennaio 1588[5] costituisce una delle missive in cui il Tasso si preoccupa per il ritrovamento della propria valigia la cui chiave il Costantini aveva rimesso a una terza persona. Quest’ultimo messaggio, dato che riguardava il bagaglio, è più comprensibile, ma buona parte delle lettere vergate durante la malattia o dopo la liberazione rigurgitano di richieste le più varie (soccorso economico, raccomandazioni, aiuto per la liberazione, libri eccetera) rivolte a personaggi anche di prestigio, in un modo per cui, nonostante la nostra distanza dal contesto, appaiono non di rado persino inopportune. Per esempio, nella lettera 957 al Principe di Stigliano, inviata da Roma nel 1588[6] dopo la partenza da Mantova, Tasso domanda aiuto al Principe perché questi richieda ai Gonzaga due casse di libri lasciate a Mantova: come se un Principe del Regno di Napoli, per non parlare dei Gonzaga, Signori di Mantova, non avessero altro da fare che occuparsi dei bagagli di Tasso (e si noti che questa non è l’unica richiesta di tal genere spedita da Tasso ai Gonzaga). Più volte, il biografo Solerti si stupisce di questo egocentrismo di Tasso, che sembra ritenere tutti al suo servizio e si spazientisce se gli altri non fanno rapidamente quanto lui chiede: non di rado pare veramente esagerare. Ora, a parte la questione dell’opportunità o meno del suo comportamento, tutta quest’ansia di cui trabocca l’epistolario rappresenta un sintomo cospicuo di un disturbo dell’umore: ansia e depressione vanno infatti di solito a braccetto.

Tasso, per quanto bloccato al Sant’Anna, non smise mai di scrivere; anzi, la sua vena torrenziale approfittò non poco della reclusione: sonetti a decine, che lui componeva con una facilità impressionante e regalava ai personaggi più vari, quale segno di quel codice di comunicazione cortigiano-petrarchistico (cioè, modellato sulla lirica di Petrarca) che lui padroneggiava alla perfezione; la maggior parte dei Dialoghi, con cui egli si proponeva di imitare Platone; e infine decine e decine di lettere, molte delle quali vergate per chiedere aiuto a chiunque potesse mostrarsi amico o protettore e aiutarlo a uscire dalla sua cella. Una costatazione s’impone (ed essa stupiva già i contemporanei): Tasso, nonostante le sue traversie psichiche, non aveva subito alcun danno a livello intellettuale-cognitivo. Anche nei momenti di maggiore smarrimento era perfettamente in grado di discutere questioni di poetica, comporre versi, funzionare a livello intellettuale in modo superlativo. E allora? Di che razza di affezione psichiatrica poteva soffrire, tale da farlo andare in escandescenze, senza guastarne affatto il livello cognitivo?

Certo, uno dei suoi corrispondenti, Bernardino Baldi, una volta osservò molto ragionevolmente «che non basta per esser savio, il discorrer de le cose d’Aristotile e ’l far de’ sonetti»[7]. Una delle poche risposte possibili è che Tasso soffrisse, appunto, di un disturbo dell’umore. Sono numerose le occorrenze in cui Solerti, l’alacre biografo del Tasso, repertoria bruschi mutamenti di opinione e anche di umore nel poeta[8]; perciò, recentemente è stata proposta come diagnosi il disturbo maniaco-depressivo. Pierluigi Cabras e Donatella Lippi propongono, in alternativa, un disturbo bipolare con allucinazioni o un disturbo schizoaffettivo[9]; comunque, si tratterebbe di un disturbo affettivo[10] e questo, senza dubbio, per rendere giustizia al fatto che Tasso rimase cognitivamente integro anche negli anni di detenzione. D’altronde, quando gli specialisti sintetizzano la storia delle diagnosi attribuite al poeta a partire dall’Ottocento, una molto ricorrente è quella di «lipemania», che altro non era, nel gergo medico di allora, se non una forma di «malinconia», cioè depressione[11]. Pertanto, è sempre stata diffusa l’idea che Tasso fosse affetto da un problema dell’umore; come specificano i due autori, si tratterebbe di «una psicopatologia a due facce: melancolica da un lato e paranoide dall’altro»[12]. Dal canto suo, la diagnosi di Cesare Lombroso si riassumeva nel classico binomio «genio e sregolatezza»: cioè quella del Tasso sarebbe stata una «nevrosi degenerativa» che collegava il suo genio alla progressiva degenerazione[13]. Ovviamente, questa interpretazione è pesantemente indebitata con il positivismo dell’epoca, che vedeva tare degenerative un po’ ovunque, e lascia molto perplessi. In definitiva, appare più prossima alla realtà la proposta dei due autori sopracitati, che collegano tendenza paranoica e bipolarità.

Oggigiorno la diagnosi di disturbo bipolare richiede la presenza di episodi di mania, oppure ipomania o depressivi: in sostanza, la differenza tra mania e ipomania consiste nel fatto che la seconda non prevede derive psicotiche e compromissione della funzionalità quotidiana del paziente, mentre la prima sì. Comunque, si notano atteggiamenti euforici, con senso grandioso di se stessi, agitazione, distraibilità, pensieri fin troppo veloci, logorrea (che si può tradurre anche nella redazione di numerose lettere o e-mail), incapacità a dormire (il paziente si sente riposato anche se ha dormito pochissimo o per niente affatto), abbandono ad attività frenetiche, talora anche dannose o pericolose (spese compulsive, gioco, promiscuità sessuale, alcool eccetera). L’umore può repentinamente diventare depresso o irritabile, nei casi peggiori persino aggressivo o pericoloso (se non suicida). In caso di umore depressivo, abbiamo i sintomi tipici di questo stato: scarso interesse o piacere per le cose, variazioni nell’appetito, insonnia o ipersonnia, agitazione o, al contrario, movimento ridotto, fatica, scarsa energia, scarsa capacità di concentrazione, indecisione eccetera. Nei casi psicotici possono avvenire anche allucinazioni. L’età di insorgenza del disturbo si situa di solito tra i 20 e i 30 anni, ma può avvenire anche prima o dopo[14].

Certo, questo quadro potrebbe apparire compatibile con quello del Tasso; del resto, vari di questi sintomi sono per noi molto difficili da appurare senza il paziente di fronte (per esempio, la distraibilità o la tendenza logorroica); nelle lettere possono tutt’al più rimanerne pallide eco. Però, a dire il vero, gli sbalzi di umore di Tasso non paiono così gravi da indurre a pensare a una vera e propria psicosi maniaco-depressiva (quella per cui il paziente, per esempio, si mette in testa di poter volare). Permane nel poeta la possibilità di fluttuazioni dell’umore, non tali però da giustificare una psicosi maniaco-depressiva (e forse neanche dei veri e propri episodi ipomaniacali). Ora, si noti che l’ansia e anche la tendenza depressiva possono comparire molto facilmente nei cosiddetti bambini e adulti plus-dotati[15], quelli che, in sostanza, possiedono un pensiero più veloce della media: proprio questa velocità maggiorata li rende più sensibili, ma anche più inclini all’ansia. La varietà degli interessi, ipersensibilità e rapidità di esecuzione di molteplici attività intellettuali lascia pensare che Tasso potesse rientrare in questa categoria; comunque, ritengo che la sua ipersensibilità fosse coniugata a forme di vulnerabilità umorale, tale da provocargli episodi di ansia o di depressione, anche considerevoli. Del resto, da secoli vari intellettuali rientrano nella categoria dei «malinconici» proprio per questo motivo e che Tasso facesse parte del lotto non dovrebbe stupire.

Inoltre, che qui non si tratti di psicosi maniaco-depressiva, lo si deduce anche dal fatto che nelle lettere tassiane compare di frequente un sintomo incompatibile con questa diagnosi: l’amnesia. E questo ci porta a un disturbo peculiare: la dissociazione post-traumatica.


Dissociazione

«Ma Sua Altezza si può acquetare a questo, com’a la più certa verità che sia nel mondo, ch’io molte volte non sia signor di me stesso; però, come quel principe che si è mostrato in tante occasioni, credo che non vorrà c’alcun mio fallo sia imputato a la mia volontà, ma a la mia infermità…»[16].

Come poteva Torquato Tasso, uno dei più colti letterati del suo tempo, in grado di disquisire di numerose materie anche durante la sua prigionia, asserire di non essere in varie occasioni «compos sui»? La risposta, come anticipato, potrebbe risiedere in un particolare disturbo post-traumatico che può togliere proprio la consapevolezza e la padronanza di sé: la dissociazione post-traumatica.

La dissociazione post-traumatica è un’affezione psicologica molto complessa, sia da diagnosticare, che da curare; del resto, è pressoché sconosciuta al di fuori della cerchia degli specialisti: proprio per questo, ritengo utilissimo parlarne, anche se in un articolo di carattere divulgativo. Cercherò di tratteggiarla in maniera comprensibile e sintetica[17].

La dissociazione è un disturbo della coscienza, che sopravviene dopo forti traumi tali da implicare una pesante dose di vergogna: perciò ricordarli diventa così penoso che essi vengono rimossi dalla memoria e consapevolezza quotidiana. Nel nostro Occidente si tratta prevalentemente di abusi (psicologici, fisici o addirittura sessuali), subiti durante l’infanzia, quando la vittima è priva delle risorse, anche solo mentali, per difendersi: i casi repertoriati presentano vite spezzate e distrutte come pochi possono immaginare. Quando l’individuo subisce questi maltrattamenti in maniera continuata, l’unica difesa possibile è la trance, cioè assumere uno stato di coscienza modificato per resistere; il ricordo delle torture subite viene allora per forza di cose rimosso, ma rimane latente nel subconscio. I traumi così non vengono rielaborati e continuano ad arrecare sofferenza, almeno finché l’amigdala (la parte del nostro sistema nervoso centrale adibita all’elaborazione dei traumi) non riesce a metabolizzarli attraverso l’accettazione. Per questo, uno dei sintomi principali della dissociazione è l’amnesia.

Assieme alla memoria del vissuto vengono rimosse anche quelle parti di personalità contaminate dal trauma: il ricordo, per esempio, di se stessi bambini o adolescenti vittime di questi abusi; il ricordo dell’aggressore e, in modo più sottile, del desiderio di essere come lui (per il semplice fatto, del tutto comprensibile, che la vittima avrebbe desiderato averne la forza per potersi difendere); il ricordo di se stessi annichiliti dalla vergogna o presi da forte rabbia; e così via. Ricordare tutto questo diventa intollerabile perché significa riportare a galla il trauma, riviverlo e, quindi, sentirsi morire un’altra volta, in quanto il trauma implicava un vero e proprio pericolo di vita; significa anche rivivere la vergogna distruttiva della vittima indifesa, una vergogna tale da disintegrare la personalità del soggetto. Ricordare, significa allora perdere la propria integrità psichica e l’individuo evita questa eventualità, anche se inconsciamente, con tutte le sue forze.

Il paziente così può anche vivere un’esistenza normale, ma, se incrocia qualcosa che gli ricorda il trauma vissuto, a quel punto la memoria rimossa torna a galla con effetti devastanti. Per esempio: se la vittima è stata abusata da qualcuno vestito di rosso, ecco che ogni oggetto rosso potrebbe funzionare da innesco (in inglese «trigger», termine tecnico della psicopatologia traumatica) e riportare le crudeltà subite alla memoria. Avviene allora il cosiddetto «switch», cioè «lo scambio»: all’improvviso, la persona cambia atteggiamento e, a seconda del tipo di difesa assunto nel sentimento del pericolo, può risalire la parte dissociativa «bambina» (lo spezzone di personalità che racchiude la memoria di sé vittima di abusi), oppure quella adolescente, quella in preda alla vergogna, o addirittura quella aggressiva, che è il punto più profondo della difesa. L’effetto, per chi osserva, è sconcertante: sembra di vedere un cambio di personalità repentino e, non di rado, chi ne è ignaro pensa subito alla possessione diabolica o a una doppia personalità.

Non solo: ognuna di queste parti dissociative (la bambina, l’adolescente, l’aggressiva eccetera) dispone di una propria coscienza, memoria, volontà, conoscenza eccetera; quindi, può capitare, a esempio, che quando domina una parte dissociativa il soggetto non sappia più fare quel che fa normalmente (per esempio, guidare un’auto) e non ricordi più il proprio passato (la data del suo matrimonio), perché la sua coscienza è ridotta, in quel momento, allo spezzone della parte dissociativa. Come si sente il malcapitato in questa situazione? Molto male. O non si accorge di niente, perché ha preso il sopravvento una parte di se stesso che lui normalmente rimuove o ignora e la sua coscienza quotidiana viene sopraffatta da quella dello spezzone riemerso; oppure vede se stesso dall’esterno del proprio corpo (derealizzazione) e, quel che è peggio, vede il suo corpo fare e dire cose in completa autonomia, senza che lui lo abbia mai voluto. La cosa peggiore avviene quando il poveretto recupera la sua coscienza normale, quotidiana, ed è confrontato ai «disastri» commessi mentre era in uno stato di coscienza alterato: in alcuni casi veramente rari, ma gravissimi si può arrivare addirittura alla commissione di reati, ma non sono infrequenti atti autolesionistici o rischiosi, insulti ad amici e conoscenti, o, nei momenti più tranquilli, «gaffe» e azioni fuori luogo.

Il peggio avviene quando emerge la parte aggressiva, che si è modellata istintivamente sul carnefice: in realtà, è una forma di difesa estrema, perché l’unica rimasta a disposizione della vittima nel passato era proprio l’imitazione dell’aggressore. Ascoltare una parte dissociativa aggressiva, specie una fuori controllo, fa letteralmente accapponare la pelle: sembra (ma non è) una voce che risalga dall’abisso. Il problema è che, da quel che ho osservato in alcuni casi penali, la parte aggressiva può andare fuori controllo se il soggetto la alimenta con qualche forma di dipendenza; e le dipendenze sono molto comuni nelle sindromi post-traumatiche, perché chi ha vissuto dei traumi pesanti avverte delle lacune affettive pazzesche, che sente il bisogno di colmare in qualche maniera, di solito con una dipendenza. Nel caso di Tasso, era verosimilmente incline al bere[18], il che potrebbe avere peggiorato di molto la sua condizione psicologica, togliendogli i freni inibitori.

La gravità della situazione può oscillare: nel DDNAS (Disturbo Dissociativo Non Altrimenti Specificato) i momenti dissociativi durano pochissimo, una manciata di minuti o addirittura di secondi; nei casi gravi invece (DDI, Disturbo Dissociativo dell’Identità) si arriva a una vera e propria scissione della personalità in più pezzi, che magari si prendono ore diverse della giornata.

Orbene, Tasso si lamenta spesso della propria memoria; ma se leggiamo una delle lettere più drammatiche che il poeta abbia redatto per descrivere la propria situazione al Sant’Anna, risulterà piuttosto evidente che, con larga probabilità, il poveretto soffriva proprio di questo:

«Ma l’una [(una lettera che gli avevano portato)] è sparita da poi ch’io l’ho letta, e credo che se l’abbia portata il folletto, perché è quella nella quale si parlava di lui: e questo è un di quei miracoli ch’io ho veduto assai spesso ne lo spedale, laonde son certo che sian fatti da qualche mago, e n’ho molti altri argomenti: ma particolarmente d’un pane toltomi dinanzi visibilmente a ventitré ore; d’un piatto di frutti, toltomi dinanzi l’altro giorno, che venne a vedermi quel gentil giovane polacco, degno di tanta maraviglia; e d’alcune altre vivande de le quali altre volte è avvenuto il medesimo in tempo che alcuno non entrava ne la mia prigione; d’un paio di guanți, di lettere, di libri, cavati da le casse serrate, e trovatili la mattina per terra; ed altri non ho ritrovati, né so che ne sia avvenuto: ma quelli che mancano in quel tempo ch’io sono uscito possono esser stati tolti da gli uomini, i quali, com’io credo, hanno le chiavi di tutte le mie casse»[19].

È abbastanza evidente che nessun altro andava a frugare nella sua cella, né tantomeno gli mangiava il cibo portatogli: l’unica spiegazione era che lui stesso spostava, nascondeva o mangiava quanto gli capitava a tiro e poi era incapace di ricordarsene. Per il cibo, è possibile che fosse la sua parte «bambina» che ne approfittava – a causa delle carenze affettive, questa parte dissociativa tende a ingozzarsi –; lo stesso lascia pensare il fatto che oggetti e carte venissero lasciati in disordine. In proposito si può citare anche la famosa lettera sul «folletto», che gli rubava gli oggetti:

«Del folletto voglio scrivere alcuna cosa ancora. Il ladroncello m’ha rubati molto scudi di moneta: né so quanti siano, perché non ne tengo il conto come gli avari; ma forse arrivano a venti: mi mette tutti i libri sottosopra: apre le casse: ruba le chiavi, ch’io non me ne posso guardare»[20].

Come ovvio, tutti questi fenomeni per lui inspiegabili rafforzavano in Tasso le derive paranoidee, anche se, come abbiamo visto, era probabilmente affetto piuttosto da ipervigilanza: già si sentiva minacciato in condizioni normali, figuriamoci quando si riprendeva dalle sue «trance» e trovava i suoi oggetti o beni a soqquadro, senza potersene dare una spiegazione: già solo questo doveva avere su di lui un effetto orribilmente destabilizzante e fargli perdere il lume della ragione. Del resto, nelle lettere di Tasso lui indica molto di frequente la paura che gli venissero sottratte le sue carte, senza però che questa mania avesse delle giustificazioni fattuali e con proporzioni esagerate[21]; per esempio, nel 1577 egli scrisse al Marchese Guidobaldo del Monte, di Pesaro[22], una lettera in cui richiedeva all’aristocratico un nuovo servitore non ferrarese perché quelli di Ferrara gli rubavano le sue carte e nessuno pensava a punirli, nonostante le querimonie del Tasso; la cosa più notevole è che la lettera dà l’impressione che il poeta si sentisse accerchiato da persone ostili e che a Ferrara non potesse fidarsi di nessuno, un chiaro delirio partorito dalla sua mente. Lui stesso, come risulta chiaro in numerosi momenti della sua vita, donava canti interi del suo poema a destra e a manca – e fu proprio per questo motivo che le edizioni pirata iniziarono ben prima di quelle ufficialmente approvate[23].

Anche questo aspetto potrebbe confermare due aspetti precipui della dissociazione: da un lato, non erano gli altri a rubargli le lettere o le carte, bensì era lui che le spostava durante brevi momenti di dissociazione, senza ricordare poi dove le avesse messe; d’altro canto, lui stesso deteneva comportamenti completamente opposti: da un lato offriva i suoi scritti a tutti, dall’altro poi recriminava che glieli avessero sottratti; sembra quasi che a parlare fossero due persone diverse. Questo è un tipico effetto della dissociazione, perché le parti dissociative, oltre che manifestarsi per effetto «trigger», possono anche influenzare la personalità quotidiana dell’individuo. Si presentano allora delle diversità di comportamento tali, che sembra di avere a che fare con due persone diverse, oppure con qualcuno affetto da disturbo bipolare: e difatti, non di rado la dissociazione viene equivocata con un disturbo bipolare.

Un’altra testimonianza sconcertante ci porta però a sintomi ancora più interiorizzati del suo male:

«Darò solamente avviso a Vostra Signoria[24] de’ disturbi ch’io ricevo ne lo studiare e ne lo scrivere. Sappia dunque, che questi sono di due sorte: umani e diabolici. Gli umani sono grida di uomini, e particolarmente di donne e di fanciulli, e risa piene di scherni, e varie voci d’animali che da gli uomini per inquietudine mia sono agitati, e strepiti di cose inanimate che da le mani de gli uomini sono mosse. I diabolici sono incanti e malie; e come che de gl’incanti non sia assai certo, percioché i topi, dei quali è piena la camera, che a me paiono indemoniati, naturalmente ancora, non solo per arte diabolica, potrebbono far quello strepito che fanno; ed alcuni altri suoni ch’io odo, potrebbono ad umano artificio, com’a sua cagione, esser recati nondimeno mi pare d’esser assai certo, ch’io sono stato ammaliato: e l’operazioni de la malia sono potentissime, conciosia che quando io prendo il libro per istudiare, o la penna, odo sonarmi gli orecchi d’alcune voci ne le quali quasi distinguo i nomi di Pavolo, di Giacomo, di Girolamo, di Francesco, di Fulvio, e d’altri che forse sono maligni e de la mia quiete invidiosi…».

Sicuramente qui Tasso parla di allucinazioni auditive che costituiscono i tipici sintomi «schneideriani» della schizofrenia (dal nome dello psichiatra Schneider), ma che compaiono anche nella dissociazione post-traumatica per effetto delle parti dissociative[25]. In realtà, la natura di queste allucinazioni è completamente diversa: infatti, dato che la coscienza si frantuma in vari spezzoni, ognuno sviluppa un’autocoscienza diversa e, in certi casi, si attribuisce persino un nome diverso, per cui il soggetto sente nella sua testa la voce di varie persone, che altro non sono se non i pensieri dei vari frammenti di coscienza in cui la sua consapevolezza si è spaccata. In questa lettera si potrebbe anche interpretare che nella prima parte l’autore descrive il rumore che percepisce al Sant’Anna: magari grida di altri malati o il trambusto che essi provocano percuotendo degli oggetti (o provocato dai topi). Tuttavia, colpisce prima di tutto il carattere invasivo di questi rumori, descritti come se superassero di gran lunga la media; poi, stupisce che egli citi anche delle voci di donne e bambini: le parti dissociative infantili sono tipiche di questo stato, così come le risa di scherno compaiono normalmente a opera di una parte dissociativa aggressiva, molto sarcastica e denigratoria con il soggetto. Quando però egli passa alla seconda parte del brano, sente chiaramente emergere in sé degli spezzoni di altre personalità: e questa è dissociazione. Nel seguito della lettera, Tasso descrive anche i propri accessi di rabbia, per cui inizia una lettera e poi la straccia in preda alla collera; e la rabbia, nei disturbi post-traumatici, è una bella gatta da pelare. D’altronde, non si esprime in modo molto diverso la lettera inviata per richiesta di consulto il 28 giugno 1583 al medico Girolamo Mercuriale e in cui il poeta cita «tintinni ne gli orecchi e ne la testa… imaginazione continua di varie cose, e tutte spiacevoli... sdegni grandissimi, i quali si muovono in me secondo le varie fantasie che mi nascono»; addirittura, alle volte egli ha l’impressione che «parlino le cose inanimate» e la notte sperimenta «vari sogni» (sicuramente incubi, un ingrediente tipico degli stati post-traumatici)[26].

Succedeva così che il Tasso stesso in certi momenti (come già visto sopra) riconoscesse di non essere del tutto in sé e andasse a chiedere dei medicinali allo speziale di Via degli Angeli; ma questi, per timore, non glieli dava, perché esigeva saggiamente l’avviso di un medico[27]. Come abbiamo visto, questi momenti di resipiscenza, in cui il paziente stesso riconosce di essere malato, non sono compatibili con la paranoia: confermano però, con le loro oscillazioni, che il poeta soffriva di dissociazione. Tuttavia, come ricordato sopra, Tasso poteva divenire persino pericoloso: accadeva quindi che andasse in escandescenze e che lui stesso sperimentasse delle crisi di rabbia, in modo più o meno cosciente e incontrollabile. Quando il 17 giugno 1577 Tasso aggredì un servo con un coltello e fu immediatamente rinchiuso in una cella del cortile ducale, venne raggiunto il giorno dopo dal fattore ducale e suo amico Guido Coccapani, il quale lo scongiurò amichevolmente di lasciarsi curare: e Tasso lo ascoltò con grande stupore (Solerti lo descrive come «attonito»), segno che lui non era cosciente della crisi di collera per la quale aveva aggredito il servo[28]. Questa sembra proprio una crisi di rabbia avvenuta a causa di una parte dissociativa aggressiva, di cui il soggetto rimane inconsapevole.


Conclusione provvisoria

In definitiva, in una persona dalla mente acuta e sensibile come Tasso, che mai sperimentò problemi cognitivi, assieme a una certa fragilità umorale pare proprio che i sintomi più preoccupanti si possano riconoscere come sintomi di dissociazione post-traumatica: e di sicuro, nel corso della sua vita, specie durante l’infanzia e la prima adolescenza, il poeta aveva sofferto abbastanza perché in lui germinasse una sindrome post-traumatica. Di certo però l’esplosione di questi sintomi a partire dal 1575 ci lascia capire che vari fattori conversero verso il disastro: da un lato lo stress enorme provocato dalla stesura del poema, dall’altro il clima di certo non rassicurante della Corte Ferrarese e, infine, il vizio del bere, che deve avere precipitato non poco la situazione. Ma è possibile intravvedere i traumi tra le pieghe della vita del Tasso? La questione merita di essere approfondita ulteriormente.


Note

1 Confronta http://storico.org/umanesimo_rinascimento/sofferenze_tasso1.html

2 Confronta Francesca Leonardi, Nel corpo di Tasso: tra malattia e malinconia, in Maria Di Maro-Matteo Petriccione edd., Il racconto della malattia. Atti delle sessioni parallele del convegno internazionale di studi Il racconto della malattia (L’Aquila, 19-21 febbraio 2020), Napoli, Paolo Loffredo ed., 2021, pagine 49-64, qui pagina 52.

3 Confronta Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895 (3 volumi), volume I, pagine 371-372.

4 Confronta Lettere di Torquato Tasso, curatore Cesare Guasti, Firenze, Le Monnier, 1852, volume I, pagine 55-56.

5 Confronta Lettere di Torquato Tasso, curatore Cesare Guasti, Firenze, Le Monnier, 1854, volume IV, pagina 33.

6 Confronta Lettere di Torquato Tasso, curatore Cesare Guasti, Firenze, Le Monnier, 1854, volume IV, pagine 36-37.

7 Citato da Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagina 373.

8 Confronta a esempio Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagine 228-229; 537; 559. A dire il vero, si tratta spesso di incostanza di propositi e intenzioni, ma si percepisce con chiarezza dalle lettere citate e dal resoconto delle azioni una notevole instabilità di umore, che fa passare il poeta facilmente a stati d’ansia, irritazione, oppure depressione.

9 Il disturbo schizoaffettivo è, in sostanza, un problema di schizofrenia con variazioni di umore analoghe a quelle del disturbo bipolare, ma in cui le allucinazioni non coincidono con i momenti di mania o depressione, per cui rinviano a un disturbo distinto da quello affettivo.

10 Confronta Pierluigi Cabras e Donatella Lippi, La patobiografia e il caso Torquato Tasso, Medicina nei secoli 19/2 (2007), pagine 475-480. Si veda anche Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagine 861-866.

11 Confronta lipemania, https://www.treccani.it/vocabolario/lipemania/

12 Confronta Pierluigi Cabras e Donatella Lippi, La patobiografia e il caso Torquato Tasso, Medicina nei secoli 19/2 (2007), pagine 475-480, citata pagina 476.

13 Confronta Pierluigi Cabras e Donatella Lippi, La patobiografia e il caso Torquato Tasso, Medicina nei secoli 19/2 (2007), pagine 475-480, citata pagina 477.

14 Confronta DSM 5R, pagine 139-150 per il disturbo bipolare di tipo I (quello con tendenze alla mania e quindi psicotico); pagine 150-159 per il tipo II (che si ferma alla ipomania, cioè a un’euforia compatibile con la funzionalità quotidiana). Altri disturbi dell’umore sono riportati nelle pagine seguenti.

15 La sintesi migliore sull’argomento in italiano è la traduzione dal francese di Jeanne Siaud-Facchini, Troppo intelligenti per essere felici, Milano, Rizzoli BUR, 2019.

16 Confronta Lettere di Torquato Tasso, curatore Cesare Guasti, Napoli, Rondinella, 1857 (I edizione riveduta), pagina 494.

17 Si veda il manuale Kathy Steele-Suzette Boon-Onno Van der Hart, La cura della dissociazione traumatica. Un approccio pratico e integrativo (traduzione italiana Giovanni Tagliavini), Milano-Udine, Mimesis, 2017 (edizione originale inglese del 2017); per il trattamento, Kathy Steele-Suzette Boon-Onno Van der Hart, La dissociazione traumatica. Comprenderla e affrontarla (traduzione italiana Giovanni Tagliavini-Gabriella Giovannozzi), Milano-Udine, Mimesis, 2013 (edizione originale inglese, 2011).

18 Confronta Claudio Gigante, Torquato Tasso, Roma-Bari, Salerno ed., 2007, pagina 35.

19 Si veda Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagina 407 e Lettere di Torquato Tasso, curatore Cesare Guasti, Napoli, Rondinella, 1857 (I edizione riveduta), volume II, pagine 399-400 (Lettera a Maurizio Cataneo, Roma, da Ferrara, 30 dicembre 1585).

20 Lettera 454 a Maurizio Cataneo, Roma, da Ferrara, 25 dicembre 1585, in Lettere di Torquato Tasso, curatore Cesare Guasti, Napoli, Rondinella, 1857 (I edizione riveduta), volume II, pagine 395-398.

21 Confronta Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagine 243-245; in proposito, confronta Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagina 257.

22 Confronta Lettera 95, a Guidubaldo Marchese del Monte, Pesaro, da Ferrara, 1577, in Lettere di Torquato Tasso, curatore Cesare Guasti, Firenze, Le Monnier, 1852, volume I, pagine 250-251.

23 Confronta Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagina 250.

24 Confronta Lettera 190 a Maurizio Cataneo, Roma, da Ferrara, 18 ottobre 1581, in Lettere di Torquato Tasso, curatore Cesare Guasti, Napoli, Rondinella, 1857 (I edizione riveduta), volume II, pagine 93-96.

25 Confronta Kathy Steele-Suzette Boon-Onno Van der Hart, La cura della dissociazione traumatica. Un approccio pratico e integrativo (traduzione italiana Giovanni Tagliavini), Milano-Udine, Mimesis, 2017 (edizione originale inglese del 2017), pagine 107-110 sulla lista dei sintomi.

26 Citato dalla Lettera 244 a Girolamo Mercuriale, Padova, da Ferrara, 28 giugno 1583, in Lettere di Torquato Tasso, curatore Cesare Guasti, Napoli, Rondinella, 1857 (I edizione riveduta), volume II, pagine 166-168.

27 Si veda Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagina 258.

28 Confronta Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma-Torino, Loescher, 1895, volume I, pagine 260-261.

(novembre 2023)

Tag: Annarita Magri, sofferenze di Torquato Tasso, sindrome maniaco-depressiva, dissociazione post-traumatica.