Verso il Nuovo Mondo
I viaggi di Cristoforo Colombo aprono la rotta verso le Indie Occidentali, chiudendo definitivamente le porte dei «secoli di mezzo» e dischiudendo quelle dell’Era Moderna

Cristoforo Colombo

Sebastiano del Piombo, Ritratto di Cristoforo Colombo, 1519, Metropolitan Museum of Arts, New York (Stati Uniti)

«Buscar el Levante por el Poniente»: raggiungere l’Oriente andando verso Occidente, questa è l’idea fissa di Cristoforo Colombo. A Lisbona, dove si è trasferito nel 1477, gli si apre davanti agli occhi il misterioso e tanto temuto Oceano Atlantico. Circolano incredibili leggende su di esso, come quella dell’isola delle Sette Città dove la sabbia è mista ad oro, ma si va anche dicendo che l’Oceano celi orribili mostri e che le onde si elevino talvolta ad altezze di montagne. Colombo non crede a queste storie: anzi, è fermamente convinto che l’immensa e ignota distesa d’acqua debba condurre alle Indie. Non si dà pace, brama a tutti i costi tentare la traversata. Per procurarsi le navi e l’equipaggio necessari all’impresa, si rivolge al Re del Portogallo Giovanni II: il Sovrano segue con grande interesse ogni tentativo che vien fatto di raggiungere per mare le Indie. Il progetto di Colombo vien dato in esame ad una commissione di dotti, ma il loro giudizio è lapidario: «Quell’Italiano è un folle!».

Ottenuto un bruciante rifiuto, Colombo si trasferisce in Spagna: è deciso a percorrere l’intera Europa, pur di far trionfare la sua idea. La Nazione iberica non ha certo una flotta potente come quella lusitana, né una lunga tradizione marinara come lo stesso Portogallo o le Repubbliche Italiane di Venezia e Genova (i nomi dei grandi navigatori sono tutti portoghesi o italiani, da Diaz a Magellano, da Verrazzano a Caboto, allo stesso Colombo); in Spagna si continua a praticare la navigazione a vista di costa, quella d’alto mare è del tutto sconosciuta, e le capacità navigatorie del Genovese sono considerate pressoché magiche. Non è facile per un oscuro straniero, qual è lui, farsi ricevere dai Sovrani di Spagna. Ma per l’intraprendente Colombo questo fatto non rappresenta un ostacolo capace di bloccarlo: riesce a farsi amici alcuni banchieri genovesi che vivono alla Corte Spagnola e per loro mezzo può far pervenire ai Sovrani il suo progetto. Da quel momento, Colombo vive giornate di trepida attesa, tra il timore di avere un altro rifiuto e la speranza di veder premiata la sua audacia.

Il 1° maggio 1486 gli viene comunicato che la Regina Isabella desidera avere un colloquio con lui. Non è ancora la certezza che il suo progetto verrà attuato, ma un primo passo: la Regina gli comunica che farà esaminare il suo progetto ad alcuni studiosi dell’Università di Salamanca.

Colombo a colloquio con Isabella

Cristoforo Colombo in ginocchio davanti alla Regina Isabella di Castiglia

Colombo immagina già la risposta di quegli eruditi, però si dispone ad attendere con pazienza: durante il colloquio con la Sovrana, ha avuto la chiara impressione che ella non sia del tutto contraria all’impresa.

Dopo cinque anni – cinque lunghi, interminabili anni – giungono le conclusioni degli studiosi di Salamanca: «L’attuazione del progetto appare impossibile a qualsiasi persona istruita». Una nuova doccia fredda, ma Colombo non si scoraggia, anzi, scrive alla Regina per farle sapere che, se non si decide ad aiutarlo nell’attuazione del suo progetto, si rivolgerà ad un altro Sovrano.

Non ricevendo risposta, deluso ma ancora deciso a lottare per la sua idea, Cristoforo Colombo si pone in viaggio per la Francia. È quasi giunto al confine, quando viene raggiunto da dei soldati spagnoli: sono i messi della Regina, che gli fa sapere di essere disposta ad aiutarlo nella realizzazione del suo progetto, grazie al priore del convento de «La Rabida», confessore della Sovrana. Dopo tanti anni di speranze e di delusioni, Colombo sente di aver vinto: tra breve potrà sfidare l’ignoto Oceano per dimostrare al mondo che si può «buscar el Levante por el Poniente».


Le navi di Cristoforo Colombo

Le tre navi con cui Cristoforo Colombo si accinge all’impresa sono state allestite a spese della cittadinanza di Palos: questa città ha compiuto un atto di insubordinazione alle leggi dello Stato e viene perciò condannata a provvedere di tasca propria alla costruzione delle tre navi, velieri funzionali, robustissimi e molto adatti ad ogni tipo di navigazione.

La Santa Maria è la nave ammiraglia; non è una caravella, come si sarebbe portati a credere, bensì una «nao», nave più solida ma meno veloce delle caravelle, ed anche più difficile da manovrare. Il suo primitivo nome era quello di La Gallega (La Galizia), mutato poi da Colombo. Stazza circa 230 tonnellate, è lunga poco più di 30 metri (20 in coperta) e larga 9. Il suo equipaggio è costituito di 39 uomini. Il capitano è lo stesso Colombo.

La Pinta prende forse nome da un armatore di nome Pinto. È un piccolo veliero di circa 75 tonnellate di stazza, lungo 22 metri e largo 7. L’equipaggio è costituito di 26 uomini. Dal suo ponte sarà avvistato per la prima volta il Nuovo Mondo, ed essa sarà la prima nave a tornare in Spagna. Il suo capitano è Martin Alonso Pinzón.

La Niña è la più piccola caravella di Colombo. Il suo vero nome è Santa Clara, ma è nota per il nomignolo di Niña datole perché appartiene alla famiglia Niño di Palos. Stazza circa 60 tonnellate, è lunga 20 metri e larga circa 7. Porta 22 uomini di equipaggio. Il suo capitano è Vincente Yáñez Pinzón, fratello di Martin Alonso Pinzón. Inizia il viaggio con vele latine, ma alle Canarie Colombo le farà applicare una velatura quadra.

L’attrezzatura di ogni nave è quella normale dell’epoca. Gli alberi sono tre: un albero di maestra, alto poco più della lunghezza della nave, un albero di trinchetto, alto circa la metà di quello di maestra, e l’albero di mezzana, piantato sull’alta poppa.

La velatura è costituita da vele quadrate, più adatte di quelle latine (triangolari) ai venti del mare aperto. Le fiancate sono dipinte a vivaci colori sopra la linea di immersione e sotto vengono spalmate di pece, perché si crede che questa tenga le ostriche lontano dalle carene.

Su ogni nave esiste un solo ponte (quello superiore, che in termine marinaresco si chiama «coperta»), un cassero che contiene la cabina del capitano e il timone, e un castello di prua molto piccolo, che serve come ripostiglio. Non esiste un vero e proprio locale per alloggiare l’equipaggio: la stiva, che porta il carico e le provviste, è piena di insetti e manda una puzza terribile per i rifiuti che marciscono sul fondo; i marinai devono arrangiarsi a riposare nel poco spazio lasciato libero dalle attrezzature di bordo, dalle riserve di alimenti, dalle botti dell’acqua e da alcuni rudimentali pezzi di artiglieria.

L’equipaggio della Santa Maria, che poi è il tipico equipaggio di una nave dell’epoca, è composto, oltre che da Cristoforo Colombo, innanzitutto da tre ufficiali: il capitano che, com’è logico, è la persona più importante sulle navi (ma qui è in subordine a Colombo); subito dopo viene il comandante in seconda, che comanda direttamente l’equipaggio; il pilota è una figura fondamentale, perché dirige la navigazione, segna sulle carte il cammino fatto durante la giornata e decide quale tipo di vele sono più adatte per la migliore navigazione. Sulla nave ammiraglia viaggiano anche un interprete, un notaio, un ufficiale di polizia e due funzionari regi; ogni nave, inoltre, ha un chirurgo. Molto importanti sono il nostromo e il cambusiere: il primo è l’uomo più affaccendato a bordo, perché deve guidare l’equipaggio, controllare l’attrezzatura e sorvegliare le manovre; il secondo è responsabile della cambusa, dove sono tenuti i viveri. Su ogni nave vi sono un carpentiere, che si occupa di tutta la parte in legno, un calafato, che ha l’importante compito di chiudere le fessure che spesso si aprono nello scafo, ed un bottaio, che ha in cura le botti, i barili e le parti metalliche della nave. Vengono poi il cameriere del comandante, i marinai semplici e i mozzi, che devono svolgere i lavori più umili.

Poiché l’equipaggio di una nave è, in definitiva, un gruppo di uomini costretti a vivere insieme senza vedere nessun altro per settimane o per mesi, a bordo di qualsiasi nave vi è sempre stata, in ogni epoca e in ogni Nazione, una severa disciplina. Tutti i lavori e le operazioni si svolgono secondo regole precise: il buon andamento di un viaggio dipende dall’ordine che regna sulla nave! Durante la navigazione, i marinai sono divisi in due gruppi o «guardie»: ogni quattro ore si danno il cambio per il turno di lavoro, cosicché metà dell’equipaggio governa la nave mentre l’altra metà riposa, salvo in caso di tempeste o di incidenti. Per riposare i marinai si coricano all’aperto, sul ponte, senza spogliarsi: l’amaca, il tradizionale letto del marinaio, sarà conosciuto proprio da Colombo nel Nuovo Mondo, osservando gli indigeni dormire comodamente su teli stesi fra due alberi. La «guardia» che smonta passa all’altra le consegne: una nuova vedetta sale sulla «coffa» dell’albero più alto; il timoniere che smonta grida la rotta al comandante e questi la grida al pilota che a sua volta la dice al timoniere del nuovo turno, che la ripete ad alta voce: così, non c’è rischio di sbagliarsi. Gli uomini del turno svolgono i tipici lavori della nave: puliscono il ponte, alzano le vele, intrecciano cime; il velaio rattoppa le vele, il bottaio ripara un barile, il mozzo ogni mezz’ora capovolge la clessidra, l’unico modo di contare il tempo; il nostromo sorveglia tutti e passa gli ordini che riceve dal comandante; al tavolo della sua cabina, Cristoforo Colombo traccia la rotta e calcola le miglia percorse. Quanto al cibo, non c’è un vero e proprio cuoco a bordo, e c’è un solo fornello all’aperto: il pranzo tipico del marinaio è quindi asciutto e comprende biscotti e gallette, carne salata, olio, formaggio, ceci, miele, riso, aglio, cipolle, mandorle ed uva passa; ogni nave imbarca farina, frumento e qualche barile di sardine e acciughe sotto sale; le uniche bevande sono vino ed acqua. Dato che questi cibi sono molto poveri di vitamina C, contenuta soprattutto negli agrumi, i marinai sono soggetti a una bruttissima malattia, lo scorbuto, che provoca piaghe ed ulcere. Quando pensiamo alla vita del marinaio non dobbiamo fermarci solo agli aspetti più avventurosi, ma ricordare anche le fatiche ed i rischi che essa comporta!

Sulle tre navi sventolano le bandiere dei Re Cattolici di Spagna, che hanno dipinti come simboli i castelli di Castiglia e i leoni di León. La Santa Maria innalza inoltre la bandiera di Cristoforo Colombo, Capitano Generale, che mostra un’ancora dorata in campo azzurro.


Il primo viaggio di Cristoforo Colombo

La mattina del 3 agosto 1492, tre navi escono dal porto fluviale di Palos de la Frontera, sul fiume denominato Rio Tinto: sono la Niña, la Pinta e la Santa Maria che, al comando di Cristoforo Colombo, si accingono ad affrontare la grande avventura; in totale, 83 uomini che si ignora se raggiungeranno le Indie oppure sono partiti per un viaggio senza ritorno. Sono in massima parte Spagnoli della cittadina di Palos; gli unici forestieri, oltre Colombo, sono un altro Genovese, un Portoghese e un Veneziano.

Palos si trova ad otto chilometri dal mare aperto: all’uscita dall’estuario del fiume le navi si dirigono al largo e puntano decisamente a Sud, verso le isole Canarie. Colombo appare tranquillo: mai come in questo momento è convinto del pieno successo dell’impresa. È seduto al tavolo da lavoro nella sua cabina: la cabina è l’unico alloggio della nave, una piccola stanzetta collocata in alto, sul castello di poppa; il tavolo poggia contro l’albero di mezzana, che attraversa il centro della stanza e si sprofonda nel ponte di timoneria; a destra vi è un letto, a sinistra una cassapanca. Dalla piccola finestra, il Capitano guarda la costa spagnola che lentamente sfuma all’orizzonte: finalmente, dopo dieci anni di studio, di lotte, di preghiere, di litigi, ha vinto; i Reali di Spagna gli hanno affidato le navi per tentare l’avventura nel «mare tenebroso». Il suo viaggio verso Occidente è iniziato: laggiù, sulla sua rotta, egli è sicuro di incontrare le coste orientali dell’Asia, le ricche terre del Cipango e del Catai.

Il Capitano intinge la penna nell’inchiostro e scrive sulla prima pagina del diario di bordo: «In nomine Domini Nostri Jesu Christi». Più sotto una data: «Venerdì 3 agosto 1492», e poi: «Partimmo venerdì 3 agosto 1492, alle otto, dalla Barra di Saltes (ultimo tratto di costa del Rio Tinto dinanzi alle onde dell’Atlantico), e andammo con forte virazione verso il Sud...».

Le caravelle di Colombo

Le caravelle di Cristoforo Colombo

Purtroppo la Storia ci è stata tiranna, privandoci di un così importante documento come il diario di bordo di questo primo viaggio: per nostra fortuna, il frate domenicano Bartolomé de Las Casas ne aveva sott’occhio una copia quando scrisse la sua monumentale opera Historia de las Indias (in cui descrisse con toni cupi la conquista spagnola dell’America) e si fece cura di riportarlo, talvolta letteralmente, più spesso in forma di fedele riassunto.

Lunedì 6 agosto il timone della Pinta si stacca o sfila dai perni costringendo la caravella a dirigersi alla Gran Canaria, mentre le altre due navi fanno rotta per l’isola di Gomera. Il mare è calmo, il vento cala; la navigazione rallenta. A dritta, sopra Tenerife, il vulcano brontola minaccioso e lancia fuoco e cenere in aria; l’equipaggio si affanna a lanciare mille scongiuri contro il vulcano, la cui eruzione viene considerata come un segno di malaugurio.

Il 12 agosto la Santa Maria e la Niña tuffano l’ancora nel porto di San Sebastian dell’isola di Gomera. In un primo tempo Colombo cerca una nave da sostituire alla Pinta, ma non trova alcun veliero adatto; nel frattempo fa caricare cibo fresco ed acqua. Dopo dieci giorni dà ordine di partire per raggiungere la Pinta.

Il 25 agosto fa scalo a Las Palmas nella Gran Canaria. Colombo fa cambiare la velatura alla Pinta e fa eseguire una nuova incatramatura alla chiglia.

Il 1° settembre si parte nuovamente per Gomera; il giorno dopo si giunge a San Sebastiano, dove si completano definitivamente le provviste: acqua, legna, carne secca e quant’altro possa servire per il viaggio.

Il 6 settembre Colombo ordina: «Rotta Ovest, niente a Nord, niente a Sud». Per giungere al Cipango, il Capitano veleggia in precisa direzione Ovest dalle Canarie: già esperto marinaio di questi mari, sa che su tale latitudine spirano costanti venti (alisei) verso Occidente, e che è la migliore stagione dell’anno per compiere il viaggio. L’ultimo lembo di terra africana scompare ben presto all’orizzonte. Le navi avanzano sole nell’Oceano immenso e sconosciuto, per una traversata di cui non si è mai sentito dire che qualcuno l’abbia mai compiuta prima.

Colombo in viaggio

Cristoforo Colombo sulla tolda della nave indica la via per il Nuovo Mondo, particolare, esposizione italo-americana del 1892

Il 14 settembre il mare è ancora tranquillo, il vento costante, il tempo bello. Il Capitano Generale, che spesso regge di persona il timone, nota nel suo diario: «L’aria era come in aprile in Andalusia; la sola cosa che si desiderasse era di udire il canto dell’usignolo». Annota scrupolosamente le miglia percorse, navigando «a stima» ovvero tracciando sulla carta nautica la distanza che si «stima» (cioè si crede) di aver percorso; la direzione la si ha impiegando la bussola. Nonostante con questo metodo sia facile sbagliare, perché Colombo si affida alla propria esperienza andando «ad occhio», la sua precisione è straordinaria, soprattutto considerando che possiede pochissimi strumenti: bussola, carte nautiche, quadrante, riga, compasso, tavola pitagorica. Oltretutto, ai marinai dice sempre distanze minori di quelle percorse, per timore che si spaventino sapendosi così lontani dalla patria.

Quattro giorni dopo, la flotta incontra il «Mare dei Sargassi», l’alga verde che, strappata al fondo marino in epoca preistorica, copre una grandissima zona dell’Oceano. La leggenda racconta che le navi che incontrano i sargassi vi rimangono imprigionate: il banco vastissimo di alghe impaurisce i marinai ma non ostacola per nulla la navigazione; per giorni e giorni le caravelle scivolano fra le alghe verdi finché più nessuno vi fa caso.

Per tre settimane cielo e acqua, acqua e cielo ovunque si volga lo sguardo: della terra, nessuna traccia. A bordo tutti danno segni di nervosismo, e c’è chi comincia a disperare: «Perché non tornare indietro? Quel maledetto Italiano ci vuole condurre alla morte!». Il 25 settembre c’è un primo tentativo di ammutinamento, che Colombo stronca subito: si dice sicuro di raggiungere la méta.

Una mattina, un marinaio della Pinta annuncia la terra. Le tre navi puntano verso la striscia oscura che si profila all’orizzonte; ma via via che le navi procedono, la striscia si fa sempre più sottile e ad un certo momento scompare.

«Che diavoleria è mai questa?» urlano gli uomini, presi dal terrore.

«Nessuna diavoleria» li rassicura Colombo. «Ciò che appariva come terra, non era altro che un banco di nubi. Accadono sovente di questi fenomeni, in alto mare». E intanto le tre navi continuano a navigare sull’Oceano sconfinato e deserto.

Il 7 ottobre si scorgono segni che fanno sperare la vicinanza della terra: un grande stormo di uccelli in volo da Nord verso Sud-Est. Colombo «ricordando che i Portoghesi avevano scoperto la maggior parte delle isole che possiedono seguendo il volo degli uccelli, decise di deviare dalla rotta orientale e di procedere per due giorni in direzione Sud-Est».

Passano altri giorni. L’11 ottobre non v’è ancora niente in vista. La ciurma è in tumulto: «Si torni indietro o si getti in mare quel maledetto Genovese!» è il grido unanime che scaturisce da ogni gola.

Colombo freme: non vuole cedere alla volontà della ciurma proprio ora che la terra non dev’essere lontana, «era inutile lamentarsi poiché egli aveva intrapreso il viaggio per raggiungere le Indie, e doveva quindi proseguire fino a che le avesse trovate». Per placare gli uomini inferociti, promette che, se non si avvisterà la terra entro tre giorni, ordinerà di invertire la rotta e far ritorno. Solo tre giorni ancora! Ma non ha parlato a caso: ha visto galleggiare sull’acqua un ramo così verde da sembrare appena tagliato, mentre i marinai della Pinta e della Niña scorgono un bastone, una canna e un pezzetto di legno che pare intarsiato con uno strumento di ferro, tutti segni che la terra è ormai vicinissima.

Nella notte fra l’11 e il 12 ottobre nessuno va a dormire, nessuno può dormire. Addossati alle murate, in silenzio, con gli occhi spalancati nell’infinito buio, gli uomini scrutano ansiosi. Colombo ha promesso 5.000 maravedis, una grossa somma, a chi per primo vedrà la tanto sospirata terra (ma non pagherà mai la somma). Alle due del mattino del 12 ottobre, venerdì, si alza il grido tanto atteso: «Tierra! Tierra!». Lo lancia Rodrigo de Triana dalla coffa della Pinta. Tutti guardano con trepidazione. Il capitano Pinzón verifica l’avvistamento e fa sparare un colpo di cannone. Poi riduce la velatura per permettere alla nave ammiraglia di avvicinarsi. Colombo cade in ginocchio e rende grazie a Dio: sì, è davvero la terra questa volta. Alla fine, il grande navigatore ha vinto!

Prima di mezzogiorno, le navi trovano una baia adatta (oggi detta Long Bay o Fernandez) e calano le ancore: «Era un’isola lunga circa quindici leghe, pianeggiante, tanto che non si vedeva neppure un’altura, e tutta coperta di una vegetazione verde, e freschissima […] si chiamava Guanahaní, con l’accento sull’ultima. […] Nel mezzo c’era una laguna di buona acqua dolce alla quale si dissetavano gli abitanti, che erano così numerosi perché tutte queste terre sono dolcissime». Il Capitano Generale, che ormai tutti chiamano Ammiraglio, va a terra in una lancia seguito dai capitani delle caravelle. «E, tutti avendo reso grazie a Nostro Signore, inginocchiandosi al suolo, baciando la terra con lacrime di gioia per l’incommensurabile grazia di averla raggiunta, l’Ammiraglio si levò e diede all’isola il nome di San Salvador». Subito sono circondati da un gran numero di indigeni, nudi ed amichevoli; sono meravigliati per le barbe, la pelle bianca e gli abiti, e si accostano a toccare gli uomini e prima di tutto l’Ammiraglio, riconosciuto come il capo per la dignità ed autorevolezza della persona, e per l’abito rosso che indossa. Li credono venuti dal cielo: «Conosciuto che ebbi che era gente la quale meglio si sarebbe salvata e convertita alla nostra Santa Religione con l’amore che con la forza, allo scopo di farceli amici regalai ad alcuni di loro alcuni berretti rossi e coroncine di vetro che si mettevano al collo ed altre cosette diverse di poco valore, di che ebbero molto piacere; e tanto divennero nostri amici che era una meraviglia. Poi cominciarono a venire a nuoto alle nostre scialuppe, dove noi eravamo tornati, e ci portavano pappagalli, rotoli di filo di cotone, lance e molte altre cose per barattarle con le palline di vetro e i campanelli». Gli isolani sono «molto ben fatti, belli e aggraziati, sia di corpo che di volto. Hanno i capelli grossi come crini di cavallo e corti; li portano bassi sopra le ciglia e dietro tengono qualche ciuffo più lungo che non tagliano mai. Alcuni si dipingono di scuro e sono del colore degli abitanti delle Canarie, né neri né bianchi. Altri si dipingono di bianco, o di rosso o di quel che trovano. Chi si dipinge il volto, chi il corpo e chi solo gli occhi o solo il naso». Cristoforo Colombo crede di aver raggiunto le Indie; invece pone il piede su un’isola dell’arcipelago delle Bahamas, nell’America Centrale, identificata in quella che ancor oggi porta il nome di San Salvador (Watling per gli Inglesi).

Colombo sbarca in America

Cristoforo Colombo sbarca nel Nuovo Mondo

Il percorso totale compiuto dalle navi di Colombo da Palos a San Salvador è stato di circa 3.745 miglia, pari a 5.550 chilometri (il miglio di allora corrispondeva a 1.482 metri). La velocità raggiunta è stata notevole: la media si aggira intorno ai 10 nodi, con punte di 13-14 nodi (pari a 20 chilometri orari).

Sino alla metà di gennaio del 1493 Cristoforo Colombo esplora alcune isole (fra cui la grande Cuba, battezzata dal Genovese Juana e Haiti, battezzata Hispaniola). Descrive in modo molto dettagliato i luoghi, la gente «molto mansueta, timida, nuda, senz’armi né leggi», gli animali («vide tre sirene che si sollevarono sul mare, ma non erano belle come si dice, anzi avevano sembianze in un certo senso maschili»: dovrebbe trattarsi di grossi mammiferi acquatici, che possono avere lunghe setole rigide sopra la bocca simili a baffi), i prodotti della terra: «Ci sono “mames”, che son come carote ed hanno sapore di castagne; ci sono poi gli “aje” [peperoncino] e “batata” che sono molto saporiti; vide fagioli, ma scuri o violetti, come quelli d’Andalusia, e cespugli di cotone su cui c’erano contemporaneamente capsule aperte con il fiocco già fuori, mentre altre erano ancora chiuse oppure in fiore. La frutta era di infinite qualità e doveva essere tutta di pregio». Non trova ciò che si aspettava (cioè abbondanza di oro, gioielli e le preziose spezie), ma quello che ha già trovato basta comunque per convincere le Loro Maestà di essere giunto in una terra ricca di prodotti e di docili abitanti adatti a servire come schiavi. Una ulteriore esplorazione più approfondita farebbe certamente conoscere le zone tanto decantate per la loro ricchezza: le Indie favolose di Marco Polo ai cui margini egli crede di essere giunto. Per esempio, crede che il Cibao di cui gli parlano gli indigeni, descrivendolo come una terra talmente ricca d’oro che quel metallo non viene tenuto in nessuna considerazione, sia il Cipango (Giappone): Marco Polo, di cui il Genovese è stato attentissimo lettore, racconta che in Giappone l’oro è così abbondante da essere usato anche per ricoprire i tetti delle case aristocratiche, come metallo vile.

Due tragedie oscurano in parte la gioia del successo: la prima è il tradimento di Martin Alonso Pinzón, capitano della Pinta, che abbandona la spedizione per cercare l’oro per proprio conto; l’Ammiraglio rivedrà la Pinta solo nel viaggio di ritorno, e Pinzón morirà pochi giorni dopo aver rimesso piede in terra di Spagna.

La seconda è il naufragio della nave ammiraglia. La notte di Natale, infatti, la Santa Maria (per colpa del marinaio di guardia, che ha affidato il timone della nave ad un mozzo) urta in un banco di corallo, la chiglia è forata e la nave cola a picco. Gli indigeni aiutano gli Spagnoli a portare a riva tutto ciò che può essere utilizzato senza rubare un sol chiodo. La perdita della nave obbliga Colombo a lasciare a terra alcuni uomini: 38, per la precisione, sotto il comando di Diego de Haranta. Il loro compito è di fondare una colonia, il forte di Navidad, e costituire il primo tentativo degli uomini dell’Europa di stabilirsi nel Nuovo Mondo.

Il 16 gennaio la Niña si stacca da Hispaniola e inizia il viaggio di ritorno, portando con sé alcuni indigeni, pappagalli, dischi e maschere d’oro ed altre cose. Questa volta, però, Colombo non segue la stessa rotta dell’andata: punta a Nord e segue il parallelo delle Azzorre; in questo modo, si pone sulla migliore rotta per l’Europa, favorito dai venti che in questa latitudine spirano verso Est. Sia all’andata che al ritorno, poi, evita accuratamente l’insidioso Triangolo delle Bermuda con le sue eruzioni sottomarine, e tutto questo ci fa pensare che forse conosce con precisione dove si trova il Nuovo Mondo grazie alle carte dei Templari, basate su precise indicazioni dei Vichinghi che sono già sbarcati in America (Colombo è in contatto coi Cavalieri Templari).

Quello di ritorno non è comunque un viaggio tranquillo: l’Ammiraglio deve persino affrontare una tempesta con onde «alte come montagne», tempesta di cui non si è mai vista l’eguale.

Il 18 febbraio, procedendo in mezzo ai marosi, sbarca alle Azzorre, a Santa Maria; il 4 marzo è al Rastello, presso Lisbona.

Il 15 marzo, Colombo sbarca a Palos in mezzo a gente festante e curiosa che comincia a giungere da ogni dove. Sono trascorsi 225 giorni dalla lontana mattina della partenza. L’Ammiraglio torna con la meravigliosa notizia che l’India è stata raggiunta navigando verso Occidente. Non sa ancora di aver scoperto un nuovo continente. Non sa di aver chiuso, col suo atto audace, un’epoca della Storia e di averne aperta un’altra.

Il primo viaggio di Colombo

Il primo viaggio di Cristoforo Colombo

Gli ultimi viaggi di Cristoforo Colombo

Cristoforo Colombo giunge a Barcellona dove i Sovrani di Spagna gli hanno preparato grandi accoglienze: hanno fatto predisporre all’aperto, sulla piazza antistante il loro palazzo, un grande palco su cui sono sistemati i troni. L’Ammiraglio arriva sulla piazza accompagnato da una strabocchevole folla in festa, che riempie anche tutte le strade adiacenti, si inginocchia di fronte ai Sovrani e questi lo invitano ad alzarsi e a sedersi su uno scranno che hanno fatto appositamente predisporre, un onore che viene concesso solo in rarissime occasioni, e mai prima d’allora ad una persona non nobile. E Cristoforo si siede, sorridente e felice in quell’ora di trionfo che sarà l’unica che i Sovrani e il popolo di Spagna gli tributeranno.

Colombo compie altri tre viaggi per conoscere meglio le terre su cui è approdato: scopre le Antille, l’isola Trinità, e quella terra attualmente chiamata Honduras, nell’America Centrale. I Sovrani, ora che la rotta è stata tracciata, approntano tutto per la creazione di un insediamento stabile ai fini della continuazione delle ricerche delle sponde asiatiche e dello sfruttamento delle ricche risorse, che in qualche parte di quelle isole certo si devono celare: decine di navi, centinaia di uomini, viveri, sacchi di semenze, cassette di piantine e poi zappe, badili, animali, attrezzi d’ogni tipo partono per il Nuovo Mondo. Ma Colombo non ne sarà governatore, com’era nei patti: il suo carattere, l’invidia dei compagni, certo suo fanatismo lo rendono antipatico. Saranno nominati altri governatori, Spagnoli, su cui il Genovese non avrà alcun potere. Ha fatto divieto ai suoi uomini di far violenza agli indigeni e soprattutto alle loro donne, di prendere ciò che si voleva solo per giusto baratto; per tenerli a bada, ha dovuto comminare pene durissime a marinai rissosi e ladri, veri e propri «pendagli da forca»; al suo ritorno in Spagna, gli uomini rimasti nelle Indie danno sfogo ai loro peggiori istinti, tanto che gli indigeni esasperati danno fuoco al forte di Navidad e ne trucidano tutti gli abitanti (in capo a pochi anni, però, gli indigeni delle Antille saranno totalmente estinti). Colombo fonda altre colonie ma, al suo terzo viaggio, ha l’amara sorpresa di trovare armati contro di lui gli Spagnoli stabilitisi nelle nuove terre: la stessa lontananza dalla Spagna li rende sicuri dell’impunità di fronte a qualsiasi atto. I Sovrani di Spagna, convinti che la sua presenza sia causa di gravi disordini in quei domini lontani, vi inviano un inquirente e governatore con l’incarico di ricondurre immediatamente in Spagna il grande navigatore. Questi viene messo in catene e gli viene vietato di recarsi nelle terre da lui scoperte. Inutilmente chiede che vengano applicati gli accordi presi nel 1492 col Re e redatti in documenti notarili, che lo destinano a Viceré delle nuove terre e gli assegnano il 10% sui profitti del commercio. L’artefice maggiore della grandezza spagnola è quello che ne trarrà minor profitto, anzi, verrà incolpato delle cose più inverosimili, come di aver suscitato un uragano con arti magiche (della trentina di navi cariche d’oro che salpano dalle Americhe per la Spagna – un viaggio compiuto contro il parere di Colombo che ha notato i segni premonitori della terribile tempesta, ignota ai nostri mari –, l’unica che si salva è quella carica delle sue rendite!).

Il quarto viaggio, l’«Alto viaggio», è un tentativo di circumnavigare il globo. L’Ammiraglio ha ormai più di cinquant’anni ed è un uomo logorato nel fisico e nella psiche dai lunghi stati di tensione, dalle pene, dalle fatiche, dalle malattie come l’artrite e l’oftalmia destinate a ripresentarsi puntualmente all’appuntamento con le veglie, l’umidità, l’acqua salata e il vento. Non va più in là di Hispaniola.

È grazie a questo viaggio che abbiamo le prime notizie della civiltà maya: «Nel Cariai [Costarica] e nelle zone vicine ci sono gran fattucchieri e tali da riempire di spavento. […] Su una montagna vidi un sepolcro grande come una casa con un corpo scoperto che giaceva a faccia in avanti. […] Trovai molta gente che mangiava carne umana e la deformità del loro volto lo attesta [il cannibalismo è associato alla deformità delle laide stirpi che lo praticano e che sono state respinte da Alessandro Magno ai confini orientali del mondo]. Dicono che ci sono grandi miniere di rame con cui fanno accette, altri oggetti cesellati, fusi e saldati; fucine con crogioli e tutti gli attrezzi degli orefici. La gente va vestita e in quella provincia vidi grandi lenzuoli di cotone tessuti in disegni molto fini e altri abilmente dipinti a pennello in vari colori. Dicono che all’interno del territorio […] ce ne sono tessuti d’oro. […] Le terre di questa regione non potrebbero essere più belle né meglio coltivate e la gente è la più mite del mondo».

Tornato in Spagna, Colombo non trova che miseria e malattia. La sua protettrice, la Regina Isabella, che negli ultimi tempi non ha voluto riceverlo, è morta; nel suo testamento non lo menziona neppure una volta. In una misera locanda di Valladolid, il grande navigatore genovese cessa di vivere il 20 maggio 1506 assistito dai figli, dal fratello Bartolomeo e da alcuni amici.

Si fa ora avanti Amerigo Vespucci, colui che nel convento dei Domenicani, a Firenze, ha ascoltato da ragazzo le interminabili discussioni del Toscanelli. Ha viaggiato per conto del Re di Spagna e di quello del Portogallo, ha accompagnato Colombo nell’Alto viaggio, ha testimoniato in modo definitivo che Cuba non è che un’isola, ha fatto vela nel Sud America compiendovi altre scoperte. Non ha capito però quello che Colombo ha capito già dal 1498, durante il terzo viaggio: che, cioè, la costa che gli sta di fronte è «una terra immensa situata a Sud di cui non si è mai saputo nulla»; le terre raggiunte ad Occidente non sono l’Asia, il mondo adesso è più grande, ha un nuovo continente. Vespucci lo legge nella relazione che l’Ammiraglio avrebbe voluto tenere segreta (pubblicamente ha annunciato solo che l’Oceano è stato attraversato e alcune isole trovate), lo fa passar per una sua intuizione e lo scrive nel suo libretto Mundus Novus che ha subito un enorme successo. Per quest’opera ottiene dai Sovrani di Spagna la prestigiosa e ben remunerata carica di «piloto mayor», ovvero di conservatore del «patron real», la carta del mondo continuamente aggiornata sulla base delle notizie via via portate dai piloti che rientrano dai loro viaggi. È su proposta di Martin Walseemüller, membro di un prestigioso cenacolo di geografi e cosmografi, che il continente di Colombo viene battezzato col suo nome: America. Cosa di cui non manca di dolersi il buon Las Casas: «Si veda per questo quale ingiustizia fu fatta all’Ammiraglio Don Cristoforo Colombo e se con malizia non gli fu tolto ciò che era suo, perché questa scoperta e tutto quel che poi è stato trovato a lui solo si deve e quindi questa terraferma dovrebbe chiamarsi Columbia dal nome di Colón o Colombo che la scoprì, oppure Terra Santa o Terra de Gracia, che è il nome che lui stesso le attribuì, ma non da Americo chiamarla America». La Storia è stata ingiusta, e l’ingiustizia si perpetua ancora ai giorni nostri: a ricordare il grande navigatore sono solo uno Stato nel Sud America, la Colombia, ed uno degli Stati Uniti nel Nord America, il Distretto di Columbia (dove si trova la capitale federale Washington).

L’attuale discendente di Cristoforo Colombo, che si chiama Cristóbal Colón (Cristoforo Colombo) come lui – un nome piuttosto raro tra i membri di quella famiglia –, vive in Spagna ed ha il titolo, ormai puramente onorifico, di Viceré delle Americhe: quel titolo che al suo grande avo venne ingiustamente rifiutato!

(aprile 2016)

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